di Alfredo De Matteo
Uno
dei dodici quesiti referendari proposti dai radicali di Pannella riguarda
l’abolizione del carcere a vita. L’idea che sia addirittura immorale condannare
alla pena dell’ergastolo l’autore di crimini particolarmente brutali è
circoscritta a poche persone e a sparuti gruppi di pressione oppure, in realtà,
è una ipotesi che circola con una certa insistenza da diversi decenni
nell’ambito culturale italiano e mondiale? Basti dire che una discreta parte
della classe politica si è già schierata per l’abolizione e che lo stesso mondo
cattolico non sembra scartare a priori tale irragionevole tesi. D’altra parte,
Papa Francesco, seppur con diverso spirito, ha recentemente firmato un “motu
proprio” in materia penale che tra le altre misure prevede l’abolizione del
“fine pena mai” nello Stato della Città del Vaticano, sostituito con la
detenzione dai trenta ai trentacinque anni.
Quali
sono i presupposti filosofici su cui si basa la tesi dell’illiceità
dell’ergastolo? E’ utile a questo punto fare una premessa: in una società che
sembra avere come unico punto di riferimento il relativismo etico e morale, in
cui non esistono valori assoluti ma tutt’al più soggettivi punti di vista,
risulta contraddittorio e paradossale (ma estremamente significativo) che soprattutto
sui temi etici si ricorra da più parti ad affermazioni assolute, non soggette a
verifica o a dibattito, come quella in base a cui la pena ha come principale o
unica finalità il reinserimento sociale del condannato. E’ infatti in
quest’ottica che trova giustificazione la tesi secondo cui privare l’autore di
un delitto della possibilità di potersi reinserire nella società civile una
volta scontata la pena, costituisca una inutile quanto crudele punizione.
Ma è
proprio così? Qual è lo scopo principale della pena? L’argomento è complesso e merita ben altro
approfondimento. Tuttavia, già il ricorso al buon senso e al corretto uso della
ragione ci consente di far emergere l’evidente illogicità di un siffatto modo
di ragionare. Infatti, posto che sia indice di civiltà abolire l’ergastolo è
giocoforza necessario sostituire tale misura con un’altra che renda possibile il
reinserimento sociale del condannato (a meno che non si voglia abolire completamente
il carcere …). Già emerge un primo problema: quanti anni vanno comminati al
posto del carcere a vita? Trenta, venti, quindici o dieci? Dipende senz’altro
dall’età del reo perché se trent’anni non sono troppi per un ventenne lo sono
per un cinquantenne o un sessantenne. Infatti, se è possibile un reinserimento
nella società a cinquant’anni (anche se tale ipotesi rimane solo teorica) è
logicamente impossibile per un ottantenne o un novantenne, o almeno è
estremamente improbabile, sia per l’età molto avanzata sia per il fatto che è
alquanto probabile che egli muoia prima di riuscire a scontare tutta la pena.
Dunque, dovremmo prevedere per i medesimi delitti pene sempre diverse a seconda
dell’età del condannato (e aggiungerei del suo stato di salute e delle sue
risorse caratteriali): può questo corrispondere alle autentiche esigenze di
giustizia di uno Stato? Certamente no, dal momento che la pena deve essere proporzionale
alla gravità del crimine commesso. A conferma di ciò, è facile constatare il
frequente verificarsi della situazione seguente: quando viene condannato ad una
pena relativamente blanda l’autore di un delitto efferato o di particolare
rilevanza sociale (ad esempio i crimini connessi con la mafia o col cosiddetto
femminicidio) sia i parenti delle vittime, sia l’opinione pubblica reclamano
giustizia e chiedono a gran voce l’applicazione di una sanzione maggiore,
indipendentemente dall’età del reo.
Pertanto,
sembra proprio che la tesi abolizionista non poggi su alcuna base razionale ma
che anzi sia il prodotto, tra l’altro, di una visione della vita orizzontale e
materialista, priva di ogni riferimento al trascendente nonché di una reale
attenzione alle esigenze spirituali del condannato. E’ infatti tramite la pena
che il detenuto può emendarsi ed abolire la possibilità di scontare il carcere
a vita (e aggiungerei anche quella di venire giustiziato) nel caso dei delitti
più gravi, riduce le possibilità di una sua completa guarigione spirituale (più
la colpa è grave maggiore è il tempo necessario per espiare).
Giova,
a questo punto, riportare il Catechismo della Chiesa Cattolica:
2266 Corrisponde ad un'esigenza di tutela del
bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di
comportamenti lesivi dei diritti dell'uomo e delle regole fondamentali della
convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di
infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi
tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è
volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La
pena poi, oltre che a difendere l'ordine pubblico e a tutelare la sicurezza
delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa
deve contribuire alla correzione del colpevole.
Dunque,
confidando sulla ragione e su quanto riportato nel Catechismo (che ad essa è
sempre conforme) è possibile affermare, senza paura di smentita, che il
reinserimento sociale del condannato non è lo scopo principale della pena, sia
perché vengono prima le esigenze di giustizia sia perché, in realtà, ciò che conta
veramente è che egli si emendi dalla colpa e non semplicemente che “si rifaccia
una vita” una volta in libertà, come vorrebbero i pluriomicidi Marco Pannella
ed Emma Bonino …