22 maggio 2023

Il ricordo di Alessandro Manzoni in una conversazione con monsignor Inos Biffi

di Samuele Pinna

Centocinquant’anni fa Alessandro Manzoni, nato nel 1785, tornava alla casa del Padre. Nello scorrere veloce i fogli che riportano con fedeltà stampata la nota narrazione de I promessi sposi, ritorno a memorie del passato quando frequentavo la casa del noto teologo milanese Inos Biffi, residente al secondo piano dell’episcopio che ospitò anche l’arcivescovo Federigo Borromeo, tra i protagonisti principali del romanzo manzoniano. Se questa è l’opera più conosciuta, gli Inni sacri furono invece l’oggetto del nostro conversare in quell’occasione di qualche anno fa. Ogni volta che entravo nell’appartamento di don Inos ero accolto sulla porta e condotto immediatamente nel suo studio, mentre osservavo tutt’intorno pigne di libri sormontati da altri volumi messi alla bell’e meglio. Era difficile trovare una sedia libera che non fosse già stata presa come appoggio per la carta stampata e rilegata in volume. Solitamente solo una seggiola era sgombera per dare agio all’ospite atteso. Il Monsignore si sedeva su una poltroncina e dava avvio al dialogo, sovente vere e proprie lezioni a cui attingere sapere. Ero persuaso allora – e lo sono ancor oggi – che tra gli inni sacri, il più lirico e il più riuscito è La Pentecoste, solennità che cade intorno alla data della morte del suo autore (22 maggio 1873). Egli stesso ha confermato quanto appena asserito, quando ebbe ad affermare «ch’era quanto di meglio gli fosse uscito in fatto di poesia», pur potendosi anche dire che l’«Ermengarda è la sua lirica maggiore».

Il teologo di lunga data mi spiegava, citando il vescovo di Milano che più ha stimato: «L’inno, come nota il cardinale Colombo, scaturisce nel poeta dalle “convinzioni della fede che gli urgono dentro”».

Il suo tema è lo Spirito di Pentecoste, dove a risaltare è, prima di tutto, una perfetta e sorprendente ecclesiologia, unita alla manifestazione della sua “gioiosa appartenenza” a essa. Pungolo e chiedo se con verità possiamo ancora dire lo stesso.

«Verrebbe da osservare» sento in risposta apparentemente vaga «che, per diventare teologo, Manzoni non ha aspettato il Vaticano II quando, essere laico teologo parve, più che il frutto di reale capacità e assidua laboriosità, un diritto e una pretesa clamorosa e dagli scarsi risultati».

A Pentecoste nasce la Chiesa per l’effusione dello Spirito. Essa ne è tutta ricolma e ne rappresenta il simbolo vivo: dove c’è lo Spirito, lì c’è la Chiesa, e dove c’è la Chiesa, lì c’è lo Spirito.

«A sentire Manzoni definire la Chiesa» argomenta ancora don Inos «si resta stupiti di come il poeta, in termini precisi e luminosi, di origine biblica e patristica, ne colga perfettamente e ne esalti in modo splendido l’intimo mistero che, pure, l’ecclesiologia diffusa della sua epoca, giuridica e apologetica, lasciava piuttosto in ombra».

La Chiesa è per il Manzoni “santa e madre di santità”, prefigura la Gerusalemme celeste, «nostra madre» (Gal 4, 26) e vive, nell’Eucaristia, del Corpo dato del Signore e del suo Sangue sparso, e ne custodisce e attesta l’alleanza eterna. Una descrizione che si origina in un linguaggio che – mi pare –oramai non si sente più molto in giro e che produce un silenzio intorno alla Sposa di Cristo svilita e ridotta a semplice istituzione umana.

«Viene spontaneo paragonare questa figura della Chiesa, attraente e piena di mistero» sento proclamare l’anziano studioso dinanzi a me «a quella che non pochi teologi – o sedicenti tali – oggi amano presentare: si direbbe che provino una invincibile vergogna a parlare della “Santa Madre Chiesa”, e soprattutto a contemplarla nel suo stato invisibile e celeste. Una simile Chiesa è da loro giudicata astratta, non impegnata nel sociale, lontana dalla vita della gente, remota dalle sue vicissitudini. In realtà proprio la gente si aspetta la Chiesa autentica, non quella diluita e confusa in tante vaghe comunità, secondo un ecumenismo leggero».

La Chiesa autentica è una sola: quella che è il Corpo di Cristo, la sua Sposa e nostra Madre, che, proprio perché dimorante in cielo – lassù, come asserisce Paolo – si estende sulla terra e, sostenendoci nell’esistenza lungo il tempo, ci rende già partecipi della grazia e della gloria.

Con la sua penna penetrante e libera il cardinale Giacomo Biffi ha sostenuto – e c’era Benedetto XVI ad ascoltarlo –: «La fede dei semplici era solita parlare di “Santa Madre Chiesa”; espressione che però oggi non è tanto di moda tra i cristiani acculturati. Anzi, nel linguaggio critico e un po’ risentito di molti, la Chiesa più che di una madre, sembra avere i lineamenti di una figlia riottosa da correggere, quando non di una peccatrice da convertire».

La Chiesa, per il Manzoni, è invece il luogo della speranza. È la casa del Dio vivo, è la compagna della sofferenza del Signore e la confidente dei suoi intimi segreti. È, in una parola, il frutto della sua vittoria o della sua Pasqua. Non a caso, lo scrittore milanese scrive in Osservazioni sulla morale cattolica: «la felicità non può esser realizzata fuorché in un presente il quale comprenda l’avvenire, in un momento senza fine, val a dire l’eternità. Senonché la religione può darci una specie di felicità anche in questa vita mortale, per mezzo d’una speranza piena d’immortalità».

Altri discorsi più meno manzoniani si sovrappongono nella reminiscenza della mia mente e il filo dei miei ricordi si smarrisce sino a che s’impone, limpido, il modo consueto di congedare a tempo debito di don Inos, il quale non permette a nessuno di andarsene a mani vuote, regalando un suo volume di solito da poco pubblicato. Sulla porta è signorile, di una gentilezza estrema ma non calorosa. In teologia è stato considerato a giusto titolo un ricercatore serio, soprattutto nell’ambito del medioevo, capace di grandi sintesi e di proseguire piste di ricerca. Negli anni Cinquanta, il cardinal Colombo non lo volle tra i docenti in Seminario (insegnerà poi in Facoltà teologica), perché per i giovani aspiranti al sacerdozio – rivela monsignor Biffi nella sua Autobiografia teologica – «bastavano dei buoni tagliacarte; non occorrevano rasoi». La lama del ragionamento è sempre stata affilata in lui e ciò è quanto mi porto dietro e dentro mentre rileggo con passione le parole allineate con cura del poeta Manzoni: «Tempra de’ baldi giovani / Il confidente ingegno; / Reggi il viril proposito / Ad infallibil segno; / Adorna la canizie / Di liete voglie sante; / Brilla nel guardo errante / Di chi sperando muor».

 

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