Anche quest’anno sono invitato a casa di Giorgio Torelli per riflettere insieme sul Santo Natale. Il giornalista di “buone nuove” mi legge il pezzo che sta per uscire: «Ogni Natale è come un paesaggio. Più ci si avvicina e meglio schiarisce. Si precisa e accentua i richiami, rimanendo sempre quello degli anni prima. Detto in sintesi, ecco la Circostanza: in una stamberga, chissà se innevata, è accaduto il prodigio di un parto verginale senza dolore. È appena nato un Pargolo. Ha per contorno il buio, il gelo e i fiati di un ciuco da soma e un bove da aratro. E, ovviamente, annidati nello strame, si rincorrono i topi. Per il vagire del Bambino c’è una culla di fieno. È il suo esordio nel mondo che è e in quello che sarà. Invoca il latte materno. Mentre un falegname intabarrato, di nome Giuseppe, strenuamente custodisce la famiglia. Fa quel che più gli riesce nell’animo: amare per primo il Nato dall’illibatissima sposa Maria. Giuseppe ha, forse, 35 anni. Maria, forse, 16. Il Bambino è di Giuseppe senza esserlo. E il maringone gli rimbocca la paglia con quelle salde mani da artigiano di villaggio, prescelto per figurare immortale nel progetto del Cielo, in perenne offerta al susseguirsi delle generazioni con l’interrogativo: “Siete persuasi o no, nel santuario di voi stessi, che i vagiti di quell’Infante, che si chiamerà il Verbo, sono la vocina del Figlio di Dio?”.
Ogni Natale è tascabile. Lo si ripone nel personale sentire come una pietra di paragone, intascata per continuare a saggiarla, stringerla, verificarla. Natalizzarsi, anno dopo anno, vuol dire comporre anche dentro se stessi un Presepe, quale ne sia lo scenario. E questo è un libero coinvolgersi nel Fatto con tutte le sfumature della consapevolezza…». Il saggio scrittore alza la testa dal brogliaccio e mi esprime il suo progetto: “Giusto per questo, vorrei provare a interrogare una cerchia di Amici, che il Natale lo sanno indossare, chiedendo quale delle figure vorrebbero impersonare (trovandole congeniali) in una rappresentazione della notte di Betlemme, rifatta da ciascuno in un punto prospettico della casa, dove richiamare in servizio la devozione”.
Torno a casa portandomi appresso la domanda: chi personificherei degli attori che si muovono sulla scena di Betlemme? Mi soffermo davanti al presepio della mia parrocchia, lì a un passo dalla chiesa, tanto maestoso e accogliente, pieno di particolari e veridicità. Guardo le statue e medito, ma non sono distratto. Il buio mi avvolge come il silenzio che a una certa ora si può godere anche a Milano, e rimango lì a osservare le statue nella loro composta immobilità. La mente, però, non è a Betlemme – anche se ciò che ho intorno me lo ricorda –, ma a Roma, città dell’Impero governata da Cesare Augusto, emblema del potere, di quella forza ormai stinta anche sui libri di storia sfogliati decenni fa. Il suo fu un progetto ambizioso, censire il suo regno: considerare, cioè, ogni essere vivente quale sua proprietà. Era un voler farsi Dio, sapere tutto e dominare su qualunque realtà. Eppure cosa ci ricordiamo di questo personaggio, oltre al nome e a qualche impresa che or ora neppure mi sovviene? Non si può vivere il Natale cercando di spadroneggiare. Certo, questa insana voglia può riempiere la vita, ma lo fa solo lasciando un vuoto che giorno dopo giorno diviene voragine rigonfia di illusione.
Lascio la capitale con il suo Imperatore per proiettarmi ancora lì, dinanzi a quell’umile capanna e scopro Giuseppe. Che uomo! “Agisce e non dice”, mi vien da pensare con un gioco di parole. Non è muto, al contrario: non ciarla, però, come molto spesso accade agli uomini del nostro tempo, che dicono e disdicono in un attimo, forsanche nella stessa frase. È forte e intraprendente, uomo giusto e capace. È colui che c’è, è presente, non manca mai: il suo esserci è fondamentale, rassicura, rianima, dà speranza.
Poi il mio sguardo si posa su Maria, donna dello stupore, dell’umiltà, bellissima. Sa rileggere nel cuore ciò che avviene; «meditava», riporta il Vangelo con delicatezza. Fa quello che deve fare, avendo fiducia di Dio: «Lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia».
Sorrido quando mi accorgo della simpatia dell’asino e del bue, e intuisco come anche loro aiutino con il caldo fiato a dare un poco di tepore al Re del mondo. Si saranno accorti di chi avevano davanti? O è stata solo una scusa per mangiare di più, come scrisse un cardinale birichino che rileggeva il modo di celebrare le feste natalizie di tanta gente? No – mi dico –, gli animali sono a volte più “intelligenti” degli uomini, perché sanno assecondare meglio l’istinto dato loro dal Creatore.
Gli uomini… sospiro e noto i pastori, gente ai margini, allora, poco considerati, perché non potevano vivere il culto e i riti di purificazione. Quando apparve loro l’Angelo «furono presi da grande timore». Mi chiedo: «Sono o meno sottosopra perché raggiunto da una tale notizia?». Dovrebbe essere lo stato d’animo di Natale, che consentirebbe di partire senza indugio verso la greppia, di trovare quanto annunciato e di raccontare ciò che si è visto e sentito per poi ritornare lodando Dio.
Alzo la testa e adocchio gli Angeli, portano il calore luminoso del messaggio. Rincuorano chi si spaventa, come i pastori: «Non temete»; annunziano una «grande gioia», propongono un segno ed esultano con un «Gloria!». La gioia è contagiosa.
Forse ci è chiesto di essere come gli Angeli, che non annunciano loro stessi o una bellezza vaga del Natale, ma qualcosa di così grande da far scoppiare il cuore. O come i pastori investiti dalla luce e dalla lieta notizia, che permette loro di lasciare il gregge e cambiare, partire, andare e tornare rinnovati e con una grande fede nel cuore, una fede che si fa lode, nonostante le fatiche della vita. Chiedo l’aiuto a Giuseppe e a Maria per vivere davvero da cristiano. Fisso, infine, il posto vuoto dove sarà posto il Bambinello nella Notte Santa: sono qui a riconoscere Gesù come il Messia, l’Atteso, il Salvatore, l’unico che può dare senso al nostro esistere. Se soltanto me ne rendessi conto ogni giorno…
Forse tutti personaggi hanno qualcosa da dire, da suggerirci per farci riflettere. Ripenso infine alle parole di speranza di Giorgio che mi ha regalato prima di congedarmi sull’uscio di casa: «Ogni Natale sa quel che fa. Si ripresenta perché possiamo dare gli esami di riparazione».
0 commenti :
Posta un commento