04 gennaio 2022

L'amore per la Verità. Da Giussani a Luigi Negri

di Samuele Pinna

Sono sempre più persuaso del fatto che il male più grande del nostro tempo, definito postmodernità, si chiama “individualismo”. Ciò comporta un relativismo filosofico e, soprattutto, etico in cui il soggetto diviene “padrone del senso” – per dirla alla Edmund Husserl –, ossia colui che stabilisce (o meno) la verità. Questo risultato è stato possibile grazie all’idealismo di stampo illuministico con la sua consacrazione della “Ragione” quale somma verità (misconoscendone gli evidenti limiti), oggi probabilmente sostituita dalla “Scienza”. Sì, perché si definisce “scienza” soltanto ciò che riguarda l’ambito della “tecnica” e non le cosiddette discipline umanistiche o, meglio sarebbe dire, dello spirito. La filosofia – sembra affermare la “vulgata” – non è scienza o, se lo è (comunque di livello più infimo) è utile solamente per fare graziose conversazioni. Nel nostro contesto, la teologia non è neppure contemplata, ridotta a non si sa bene cosa (e un grazie lo si deve anche ai teologi di professione), nonostante, quando nascevano le Università, fosse definita la “Regina delle scienze”.

L’individuo è ormai un numero tra gli altri, spersonalizzato, che si nutre di diritti e rifiuta i doveri, a meno che non sia lui a imporseli o qualcun altro in una strana logica che egli stesso giustifica, come quando si confonde “legge” con verità. Quest’ultima oggi sbiadisce e si costringe a parere: nel panorama attuale (ma è pratica antica, basta riferirsi ai sofisti) la “verità” è, infatti, ridotta a “opinione”. Tuttavia, tante opinioni non portano a una verità, ma rimangono tali: elidendosi tra loro consentono a quella più forte, che sa cioè usare a suo vantaggio il potere, di predominare sulle altre. Nulla è più certo, ma il vero è scambiato, se non trasformato, in mode temporanee, a gusti e piaceri, a discorsi e tesi senza fondamento. Si stabilizzano pseudo-verità fintanto che riescono a durare nel magmatico cambiamento delle prassi, che scalzano vecchie pseudo-verità per altre più (pre)potenti. È ciò che – ribadiamo – Benedetto XVI, nel suo pontificato, stigmatizzava come relativismo: non esiste la verità, ma esiste solo la transitoria verità del soggetto (che è opinione e, quindi, opinabile).

Il dramma di una società individualistica è il sacrificio della Verità che non interessa più e che si traveste con i suoi surrogati, come – per esempio – l’“informazione”, l’“inchiesta” o altro che hanno la prerogativa di partire da un’idea che si deve poi inevitabilmente dimostrare nella realtà come vera (ecco l’idealismo!). Quando più nulla è vero, tutto lo è. E il discorso veritativo (esiste la verità?), di per sé ineludibile (negare la verità è già affermarla: la mia verità sarà che non esiste verità) è trascurato, perché porterebbe l’uomo a elevarsi e non sarebbe più “controllabile” (soprattutto nel mercimonio del libero scambio o dalle ideologie preconfezionate). L’idealismo, de facto, conduce – oserei dire – in modo inevitabile all’esistenzialismo e al nichilismo. Davanti al “nulla” che rimane da offrire? La nostra società propone un metodo antico e molto semplice: “Panem et circenses”. Mi ha molto colpito la lettura del romanzo “Hunger Games” – scritto in modo magistrale dalla Collins – in cui la capitale che sfrutta gli altri distretti del paese (chiamato appunto “Panem”) riesce a mantenere il potere offrendo proprio benessere (benavere?) e giochi (fino all’impensabile per atrocità). “Circenses”, insomma.

Il nostro periodo storico ha terrificanti tratti di somiglianza con la succitata opera distopica, dove si promette uno stare bene, una salute, una salvezza (biologica) così da non pensare ad altro. Si promette, perché per raggiungere il “paradiso in terra” si devono fare nel presente inevitabili sacrifici. La verità in tutto ciò deve essere zittita, a meno di ridurla a “pensiero dominante”. Ma come si può definire la verità che sfugge da tutte le ideologie di segno opposto? Il più alto pensiero cattolico ha definito la verità «adaequatio intellectus et rei (corrispondenza tra intelletto e realtà)» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, 21, 2c). E «con questa formula – spiega Benedetto XVI – siamo vicini a ciò che Gesù intende dire quando parla della verità, quando dice che è venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità. Nel mondo, verità e opinione errata, verità e menzogna sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è “vero” nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua vera natura. Dio è la realtà che dona l’essere e il senso. “Dare testimonianza alla verità” significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura dell’essere» ( Liberare la libertà, p. 32). Detto altrimenti, afferma Giacomo Biffi: «La “verità” (ἀλήθεια - alétheia) è la “realtà” – percepita nella sua solidità, consistenza, inoppugnabilità – in quanto si offre alla nostra capacità conoscitiva e alla comunione esistenziale di tutto il nostro essere: l’uomo nuovo è chiamato a ravvisarla, a onorarla, ad accoglierla come dato certo, indiscutibile, necessario per la normale vicenda del nostro spirito» ( L’enigma dell’uomo e la realtà battesimale, p. 67). L’uomo, cioè, non può negare la realtà: davanti alle cose avvenute non c’è nessuna forza al mondo che può far sì che non lo siano, neanche Dio. Questo non significa che Dio sia soggetto al tempo, essendone al di là, ma che il tempo è assunto in Lui.

Qui si trova con vigore la lezione di don Giussani: è il reale che ci parla, che ci provoca, non l’idea, anzi l’idea prende forma (concetto) a partire dalla realtà, che tutti – tutti! – possono cogliere: «il vero problema per ciò che concerne la ricerca della verità sui significati ultimi della vita non è quello di una particolare intelligenza che occorra o di uno speciale sforzo o di eccezionali mezzi necessari da usarsi per raggiungerla. La verità ultima è come trovare una bella cosa sul proprio cammino: la si vede e si riconosce, se si è attenti» (Il senso religioso, p. 45). Sono, dunque, una falsità gli slogan: “immagina, puoi” o “tutto gira intorno a te”. Ma sono anche sicuramente più comodi per vivere tranquilli, curando solo i propri interessi e accontentandosi di una vita superficiale. In un racconto di Guareschi intitolato La paura continua, don Camillo si scopre solo perché ha denunciato un crimine, una sporcheria bella grossa: oltre alla paura la gente provava per lui anche odio.

«“Vivevano caldi e tranquilli – spiega il Crocifisso al suo sacerdote – dentro il bozzolo della loro viltà. Sapevano la verità ma nessuno poteva obbligarli a sapere, perché nessuno aveva detto pubblicamente questa verità. Tu hai agito e parlato in modo tale che essi ora debbono saperla, la verità. E perciò ti odiano e hanno paura di te. Tu vedi i fratelli che, quali pecore, obbediscono agli ordini del tiranno e gridi: ‘Svegliatevi dal vostro letargo, guardate le genti libere […]’. Ed essi non ti saranno riconoscenti, ma ti odieranno e, se potranno, ti uccideranno perché tu li costringi ad accorgersi di quello che essi già sapevano ma, per amor di quieto vivere, fingevano di non sapere. Essi hanno occhi ma non vogliono vedere. Essi hanno orecchie ma non vogliono sentire. Sono vili ma non vogliono che nessuno dica loro che son vili. Tu hai resa pubblica una ingiustizia e hai messo la gente in questo grave dilemma: se taci, tu accetti il sopruso, se non lo accetti devi parlare. Era tanto più comodo poterlo ignorare, il sopruso. Ti stupisce tutto questo?” […]

“No” disse. “Mi stupirei se non sapessi che, per aver voluto dire la verità agli uomini, Voi siete stato messo in croce. Me ne dolgo semplicemente”» ( 45, p. 330).

Ecco, allora, come nel libro “ Con Giussani. La storia & il presente di un incontro”, don Negri racconta com’era rimasto colpito dalla personalità del “Gius” quando lo aveva conosciuto nel 1957 come insegnante al “Berchet”: «Rispetto agli altri professori, per lui l’insegnamento non era qualcosa di marginale rispetto alla propria vita, in quanto era evidente che lo concepiva come qualcosa di vitale. Non perché, come poteva accadere a molti, avesse riposto il senso della propria vita nell’insegnare, ma perché attraverso l’insegnamento intendeva comunicare ciò che riconosceva come essenziale per l’esistenza: la ricerca della verità».

Per superare l’impasse del nostro tempo altro non c’è se non tornare alla Verità, servendosi di tutto (come strumento e non come fine, che deve rimanere la conoscenza dell’Essere), evitando – quale grave peccato di idolatria – di creare divinità che non conducono a una esistenza sensata ma a illusioni che si nutrono di vuoto e di qualunquismo.

Don Luigi Negri – pare – ha accolto l’insegnamento di don Giussani che si è manifestato in un incontro. Ancora una volta il “fatto cristiano” che principia dalla realtà.


 

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