di Giorgio Salzano
Quando insegnavo religione (si fa per dire, perché non ho mai capito come si possa insegnare quando la materia è facoltativa e non incide sul giudizio finale: in breve, quando gli studenti non sono tenuti ad ascoltarti), ogni volta che entravo in una classe nuova dicevo: se tutte le altre materie venissero insegnate come si deve, di me non ci sarebbe bisogno. Di qualunque materia si tratti, c'entra la religione. Prendiamo ad esempio la storia, ossia tutte le materie umanistiche da noi insegnate in chiave storica. La religione entra chiaramente nell’oggetto di insegnamento della storia, e quindi della storia della letteratura, dell’arte e della filosofia. Purtroppo per lo più gli storici si pongono dal punto di vista dell’oggi, in base al quale spiegano le azioni e le opere degli uomini di ieri, invece di fare, come dovrebbero, il contrario: intendere cioè l’operare di uomini di altri tempi in base alla loro comprensione del mondo e di se stessi. Ma le cose non vanno diversamente per le materie dette scientifiche, che di solito insegniamo invece in maniera astorica, sistematica. Tutti impariamo infatti il teorema di Pitagora, ma non ci viene però detto che esso, come tutta la matematica, aveva per lui un significato teologico, che si è mantenuto tale fino a Newton e Leibniz. Ignorando come la scienza moderna sia maturata in seno al sapere del passato, la consideriamo (anche per lo sfortunato incidente Galilei) come opposta ad esso. E non ci raccapezziamo più nel mondo. Ma la cosa più grave è che non ci si raccapezzano quelli che dovrebbero farci da guida, nella Chiesa come fuori di essa.
Tommaso d’Aquino, per non fare che il nome del più famoso degli scolastici, integrando Aristotele con la tradizione agostiniana e in generale patristica, abbracciava nella teologia la totalità del sapere del suo tempo. Ma se apriamo oggi un libro di teologia, poca cosa troviamo del sapere odierno nel suo complesso, sparpagliato com’è in diverse discipline, di cui alcune godono del titolo di scienza (hard sciences, quelle dure e pure: fisica chimica biologia), altre aspirano a quel titolo (le così dette scienze umane o sociali), altre ancora si devono accontentare di essere studi umanistici. C’è poi la filosofia, nome accanto al quale non posso che porre un grande punto interrogativo (?). Le prime godono di un grande prestigio, anche se la loro conoscenza è appannaggio di una sparuta minoranza, l’aspirazione delle seconde non si è mai realizzata nella forma di un consenso più o meno unitario, le terze danno luogo a una saggistica erudita spesso anche brillante e affascinante … e la filosofia? Che cosa sia, che sapere rappresenti, nessuno lo sa dire; o meglio, si divide in tante scuole ciascuna delle quali pretende di farlo. Più che scienza, essa sembra rappresentare con questa sua divisione velleitarie visioni d’insieme, Weltanschaungen, incapaci di dare ragioni di se stesse nei confronti delle altre. La povera teologia non sa più quale sapere integrare in sé.
Un ruolo principe ha in essa la filologia. Ricordo un corso di aggiornamento per l’insegnamento della religione che dovetti seguire qualche decennio fa, poco dopo la pubblicazione del grande Catechismo della Chiesa Cattolica. Il monsignore (o almeno credo che fosse tale) che tenne il corso spiegò quale fosse il metodo teologico: andava più o meno così, esso comincia con gli studi biblici, prosegue con quelli della tradizione, e una volta poste in questo modo le basi si concede qualche conclusione speculativa. Ero già grandicello, e mi rendevo conto della fallacia di questo presunto metodo. Con gli studi biblici e della tradizione mette alla base la filologia, ma saper leggere non è mai solo questione di competenza filologica, è sempre piuttosto come in un dialogo, in cui vengono poste domande a un interlocutore, in attesa di vedere che cosa egli abbia da dire al riguardo. La riflessione filosofico-teologica ha sempre luogo quindi sullo sfondo di un orizzonte esperienziale e intellettuale, almeno virtualmente speculativo, destinato ad articolarsi consapevolmente nel dialogo istituito con la lettura.
Rendersi conto di un simile orizzonte nel prendere in esame le testimonianze umane di ogni provenienza, del passato come del presente, è dunque il punto di partenza della loro lettura, volta a riconoscere in esse luoghi comuni di esperienza e di pensiero che le rendano intelligibili. E questo oggi significa rendersi conto di una cesura rappresentata dalla modernità, nella quale riferiamo sapere e fede all’uomo, ciascuno riguardato nella sua individualità prescindendo dall’appartenenza sociale, mentre in epoca pre-moderna gli uomini erano sempre riguardati come appartenenti a una società. Della società a cui prendono parte gli uomini sono al contempo attori e spettatori, ed è su questo loro essere che si volgeva originariamente la riflessione filosofico-teologica antica, e poi quella cristiana, anche nella comprensione del mondo tutto, quando vedeva nella natura la manifestazione di un principio che la trascende, diciamo pure soprannaturale. Difficile è perciò oggi fare teologia alla maniera patristica o scolastica, dopo che con la scienza e la filosofia moderna quella duplice contemporanea posizione di ogni uomo è stata scissa in due, frammentandosi nei rivoli delle diverse discipline di cui ho detto. Anzi, di fatto la teologia, per non parlare della filosofia, diventa praticamente impossibile, perde cioè lo stato di vero sapere (volgarmente detto scienza), se non si mostra capace di riunire speculativamente quel che era stato scisso.
Che cosa poteva fare dunque un gesuita argentino non particolarmente portato per la speculazione (se abbia avuto qualche propensione al riguardo, non ve n’è traccia nei suoi successivi discorsi)? Compie i suoi studi mentre maturava nella Chiesa il portato intellettualmente sovversivo della scissione di cui ho parlato, con l’abbandono del tomismo come cosa del passato a cui non veniva però sostituito nulla di ugualmente potente per il presente. Pare che non gli rimanesse altro che gli esercizi spirituali di santi’Ignazio, ed il populismo peronista dalla sua gioventù che oggi proietta su scala mondiale, con la preoccupazione per i poveri, gli emarginati e i migranti, cui si aggiunge l’ambiente, dei quali parla con un moralismo sentimentale in cui non si discerne alcuna particolare cognizione di causa in materia di economia e politica, o in generale di relazioni sociali di qualunque scala nel mondo contemporaneo … o se per questo in materia di teologia.
Inutile attendersi da quel versante lumi teologici. Come mi piaceva dire a scuola, la verità o è cattolica (universale) o non è, e quindi la teologia o la illustra reintegrando in sé il complesso del sapere in una summa indirizzata a tutte le genti (sanctus Thomas docet), o non si sa più indirizzare neanche a quello che sarebbe il suo uditorio primo, i fedeli cristiani.
0 commenti :
Posta un commento