09 aprile 2020

Shakespeare il cattolico/2. Gli indizi nelle opere



L'Inghilterra degli ultimi decenni del XVI secolo viveva una profonda spaccatura di carattere religioso: il nuovo Atto di Supremazia di Elisabetta I (1558-9), che imponeva un giuramento in cui riconoscere il primato della Corona anche nella materia religiosa ed ecclesiastica, e la successiva scomunica di Elisabetta da parte del Papa Pio V (1570) ponevano i cattolici inglesi in una condizione drammatica, in cui la fedeltà al proprio Stato e alla sovrana che lo rappresentava e quella alla Chiesa di Roma apparvero per lungo tempo difficilmente conciliabili. Il cattolicesimo divenne sostanzialmente bandito e coloro che non si uniformavano alla nuova chiesa di Stato (c.d. ricusanti) nel migliore dei casi venivano sanzionati con pesanti multe, nel peggiore venivano incarcerati o addirittura uccisi. Si trattò di un processo che durò decenni e che strappò a viva forza il cattolicesimo dall'anima del popolo inglese.

Il teatro non era immune da questa situazione: soppressi per ordine dell'autorità i tradizionali spettacoli religiosi itineranti che avevano caratterizzato la cultura popolare inglese ("miracle plays", "mistery plays", "morality plays"), tutta l'attività teatrale in generale era finita sotto l'occhio inquisitore delle autorità protestanti e in particolare dei circoli puritani. Poeti e drammaturghi, dunque, dovevano fare particolare attenzione ai contenuti delle loro opere, onde evitare che la censura del Master of the Revels si abbattesse su di esse e facesse cadere i loro autori in disgrazia. Con tale consapevolezza, dunque, occorre accostarsi ai lavori di William Shakespeare, per provare a discernere cosa egli abbia voluto far intendere a proposito della situazione dell'Inghilterra dell'epoca, tenendo presente che "i drammi shakespeariani sono pieni di riferimenti contemporanei che li ancorano nel presente e richiedono a spettatori e lettori di considerarli nei termini della politica del tempo"[1].

Esaminando i lavori shakespeariani, osserviamo alcune costanti narrative che ritroviamo in tutta la sua produzione: una "tempesta" che arriva a sconvolgere il cielo e l'ordine naturale (compare in ben 10 opere), il tema della famiglia disgregata e del conflitto di fedeltà, quello dell'innocente perseguitato, vittima di violenza o che attende un'esecuzione ("La commedia degli errori", "Sogno di una notte di mezza estate", "Il mercante di Venezia", "Misura per misura"), quello dell'esilio dei buoni ("Tito Andronico", "I due gentiluomini di Verona, "Romeo e Giulietta", "Come vi piace", "Riccardo III", "Riccardo II", "Re John", "Re Lear", "Macbeth", "Timon of Athens", "Coriolano") e di un'invasione straniera che torna a ristabilire l'ordine legittimo (quasi tutte le opere appena citate, ma anche "Amleto"). È facile la tentazione di interpretare tali argomenti in chiave cattolica. La tempesta rappresenterebbe lo sconvolgimento provocato dalla Riforma, che aveva sconquassato un ordine non perfetto, ma socialmente e culturalmente integrato; la famiglia disgregata è una metafora dell'Inghilterra, dilaniata dal conflitto religioso e in cui il padre (lo Stato) accusa di tradimento i figli (cattolici) che vorrebbero essergli fedeli. I cattolici sarebbero simboleggiati naturalmente anche da tutti gli innocenti ingiustamente perseguitati e fatti oggetto di violenza o costretti all'esilio, mentre l'idea di un'invasione straniera costituiva un pensiero fisso e una speranza di riscossa che troverà per esempio un suo fallito tentativo di concretizzazione nell'Invincibile Armata spagnola del 1588.

A ciò si aggiunga che spesso e volentieri i personaggi giurano sulla Santa Croce o sulle reliquie, su Maria o sui santi, evocano il Purgatorio, il rosario, il pellegrinaggio e altri elementi della dottrina e della pratica religiosa cattolica che il protestantesimo aveva bandito. Non si tratta semplicemente di ambientazione storica, tanto più che alcuni di questi elementi (vedi ad esempio la presenza di un'abbazia ne "La commedia degli errori") vengono inseriti con evidenti anacronismi anche in opere ambientate nell'antichità classica, ma di un immaginario religioso e culturale che è continuamente presente alla mente di Shakespeare (nato nel 1564, più di trent'anni dopo l'inizio della Riforma anglicana) e che vi assume una connotazione generalmente positiva e quasi nostalgica: si prenda ad esempio il dialogo tra il Duca e Orlando in "Come vi piace", dove vengono rievocati i passati giorni migliori in cui "siamo stati richiamati in chiesa da sante campane". Si pensi anche alle figure di religiosi e religiose cattolici, ai quali vengono spesso affidati ruoli risolutivi e che vengono comunque descritti come personaggi positivi (cfr. fra Lorenzo in "Romeo e Giulietta" o fra Francesco in "Molto rumore per nulla"), a differenza di quanto accade in opere di autori coevi, dove preti, frati e suore vengono costantemente fatti oggetto di scherno e di ironie; il clero che presenta caratteristiche "anglicane" ante litteram, invece, viene presentato dal Bardo dell'Avon in luce generalmente negativa (vedi l'arcivescovo di Canterbury dell'"Enrico V", secondo il quale "è finito il tempo dei miracoli").

Particolarmente simbolici appaiono poi i personaggi femminili: in molti casi si tratta di figure innocenti esposte alla violenza e che comunque rappresentano la purezza, arrivando ad assumere tratti mariani. Si vedano ad esempio la violenza e la mutilazione subite da Lavinia nel "Tito Andronico", che evocano plasticamente la profanazione protestante delle immagini sacre cattoliche, ma anche lo stupro di Lucrezia nell'omonimo poemetto, con la fanciulla che viene definita "santa terrena", "puro santuario", "immagine celeste", "virtuoso monumento". La metafora mariana si fa più evidente nel personaggio di Desdemona, alla quale nell'"Otello" Cassio si rivolge con l'espressione "Ave a te, signora, e la grazia celeste davanti e dietro e da ogni lato ti circondi!". Viceversa, i personaggi negativi femminili rimandano per molti versi alla figura della regina Elisabetta, che del resto viene richiamata spesso e volentieri dall'immagine della luna, alla cui divinità pagana (Diana, simbolo di verginità) molti poeti di corte la paragonavano abitualmente con toni encomiastici ma a cui Shakespeare attribuisce non di rado un'accezione esattamente opposta.

Proprio attraverso la traccia della luna è possibile seguire un filo rosso che possa farci identificare alcuni dei tantissimi presunti elementi di dissidenza disseminati nelle opere shakespeariane. Il "Sogno di una notte di mezza estate" (1595), ad esempio, si apre con un lamento di Teseo che, se interpretato allegoricamente in riferimento all'allora sessantaduenne regina, assume un significato decisamente pericoloso: "Ma oh, quanto lentamente cala questa vecchia luna! Ella rallenta il compimento dei miei desideri come una matrigna o una vedova che tanto a lungo fa appassire la rendita di un giovane". Poco più in là la luna medesima viene definita "fredda e infeconda" e qualche verso più giù si aggiunge che, pur dovendosi ritenere benedette coloro che abbracciano il sentiero della castità, "in questo mondo terreno più felice è la rosa distillata di quella costretta ad appassire su un vergine ramo". Non c'è bisogno di ricordare, ovviamente, la condizione di "Regina vergine" di Elisabetta. Non stupisce, alla luce di quanto esposto, che Shakespeare abbia introdotto nell'opera un espediente metateatrale, inserendo nella storia un gruppo di artigiani improvvisatisi attori e chiamati a mettere in scena un dramma, i quali al termine della rappresentazione si scusano dichiarando che, se qualcuno si è sentito offeso da qualcosa, deve sapere che è stato fatto tutto in buona fede ("good will", gioco di parole che richiama il nome dell'autore e che è tipico di Shakespeare). Il tema lunare ritorna, se possibile in una chiave ancora più evidente, in "Romeo e Giulietta". L'intera tragedia potrebbe in realtà alludere alla tormentata relazione tra il terzo conte di Southampton ("Romeo"), che non a caso era discendente della famiglia Montague (proprio così vengono tradotti i "Montecchi" nell'originale dell'opera), e la damigella di corte Elizabeth Vernon ("Giulietta"): tale relazione, come si ricorderà, era stata nascosta per diverso tempo e comunque era risultata sgradita alla Regina. Al giovane Southampton era stato dedicato, come sappiamo, anche il poemetto "Venere e Adone" (1593): Shakespeare aveva in quell'occasione aggiunto un tocco di originalità alla storia, facendo rifiutare con decisione al bel giovane tutte le insistenti avances della dea della bellezza. Non è forse inutile rammentare che proprio in quei mesi il giovane conte stava rifiutando la proposta di matrimonio con Elizabeth de Vere, nipote del ministro elisabettiano WIlliam Cecil: che il poemetto contenesse un riferimento a questo episodio e, più in generale, alle pressioni della Corte sul titubante rampollo dell'aristocrazia cattolica? Tornando a "Romeo e Giulietta", tutti conosciamo la celebre scena del balcone, ma rileggendola alla luce dell'ipotesi sopra descritta rimaniamo piuttosto stupefatti: Romeo paragona Giulietta al sole e la invita ad uccidere "la luna invidiosa, che è già malata e pallida dal dolore per il fatto che tu, sua damigella, sei molto più bella di lei. Non essere la sua damigella, perché è invidiosa. La sua vestale livrea è pallida e verde e la indossano soltanto i folli: gettala via". Il termine "pale" (pallido) è sostituito in alcune versioni da "sick" (malaticcio): forse l'allusione alle livree dei servitori dei Tudor, di colore bianco-verde, era stata troppo esplicita.

Più o meno nello stesso periodo, del resto, Shakespeare aveva composto il "Riccardo II", in cui veniva raccontata la deposizione del vecchio monarca da parte di Enrico di Bolingbroke, futuro Enrico IV, con una scena che venne censurata nella rappresentazione a Corte. Se non è lecito trarre interpretazioni troppo scontate relativamente a quest'opera, essa presenta di sicuro le caratteristiche di buona parte dei drammi storici shakespeariani: l'assenza di personaggi esclusivamente positivi, il sovrabbondare di crudeltà e sangue, il tradimento e i conflitti di fedeltà, il cinismo calcolatore che distrugge un ordine antico fondato sull'onore. Si tratta di una visione che ha ben poco a che spartire con un'acritica esaltazione della storia della dinastia Tudor o del principio della monarchia di diritto divino, allora brandito dai protestanti per tacitare ogni critica all'operato dei sovrani anglicani. Gli stessi temi si ritrovano in "Re John", dove l'arrogante Giovanni senza Terra (una sorta di Enrico VIII o Elisabetta I ante litteram) è costretto alla fine ad umiliarsi e a riconciliarsi con il Papa, il che non lo salverà peraltro dalla furia dei nobili ribelli indignati dall'eliminazione di suo nipote Arthur (allusione all'uccisione di Maria Stuarda?). Nell'"Enrico IV", invece, il Bardo dell'Avon distrusse la reputazione di un altro personaggio che i protestanti rivendicavano come proprio antesignano, circondandolo addirittura di un'aura di martirio: si tratta di John Oldcastle, uno dei leader lollardi bruciato sul rogo nel Quattrocento, che egli rappresenta come un bugiardo e vanaglorioso ubriacone dai tratti comici. Non stupisce che il nuovo Lord Ciambellano di Corte, discendente di Oldcastle e sotto la cui custodia la compagnia teatrale di Shakespeare era passata, impose un cambio di cognome al personaggio, che assunse le generalità di John Falstaff, con tanto di chiarimento fin troppo sarcasticamente esplicito da parte dell'autore nel finale dell'"Enrico IV - parte II". E non si trattava di facezie innocenti: il teatro svolgeva anzi una funzione politica fondamentale, se è vero che lo stesso Shakespeare nell'"Amleto" definì "essenziali cronache del tempo” gli attori itineranti che compaiono nel dramma con la solita operazione di metateatro. Non è un caso che proprio in questi anni venissero adottati provvedimenti sempre più restrittivi: nel 1599 sopraggiunse il divieto da parte dei vescovi anglicani di Canterbury e Londra di pubblicare satire e drammi di carattere storico ambientati in Inghilterra, mentre successivamente, dopo la "Congiura delle polveri", si proibì addirittura di nominare "impropriamente" Dio o le persone della Trinità nelle opere teatrali.

Data l'emanazione del Bishops' Ban William abbandonò dunque la storia inglese per recuperare un tema di argomento classico: nacque così il "Giulio Cesare". L'opera, rapportata all'attualità politica del suo tempo, si presta naturalmente a una doppia interpretazione: Cesare potrebbe rappresentare sia la Chiesa di Roma, cioè un vecchio ordine monarchico e popolare messo in discussione dai "puritani" repubblicani alla Cassio, sia la monarchia elisabettiana contestata dai ribelli cattolici. La prima ipotesi sembra però più credibile alla luce di una serie di elementi che connotano i personaggi: Cesare - dicono ad esempio i congiurati - si è fatto di recente "superstizioso" e tiene in modo particolare a "cerimonie" a cui i repubblicani appaiono invece allergici, tanto da rispedire a casa nel primo atto i popolani che accorrono festanti e orgogliosi per i successi del dittatore. Si veda anche la questione del tempo: i congiurati sono sempre piuttosto incerti su che giorno e su che ora sia e questo è stato interpretato dai critici come un chiaro riferimento al rifiuto dell'Inghilterra di adeguarsi alla riforma del calendario del papa Gregorio XIII (1582), nuovo "Cesare" che aveva corretto le imperfezioni del calendario giuliano. La figura di Bruto, alla luce di queste considerazioni, rappresenterebbe il conflitto di fedeltà che molti cattolici del tempo provavano tra la propria devozione a Roma e la lealtà al proprio Stato, in questo caso tra Cesare e la Repubblica. Di sicuro, invece, la raffinata capacità dialettica di Antonio, maestro dell'arte di dire senza dire, non può non ricordare la tecnica dell'equivocazione, sviluppatasi soprattutto negli ambienti gesuitici e consistente in una strategia di dissimulazione da adottare ad esempio durante gli interrogatori. Di una tecnica simile, fondata sugli equivoci, sull'ironia, sui giochi di parole, sulle allusioni, era naturalmente specialista anche William Shakespeare, più di ogni altro autore del suo tempo: anzi, "sembra quasi che si sentisse pressoché costretto, appena gli era possibile, a servirsi di doppi sensi ed equivocazioni" [2].

Mai come allora, del resto, una tale strategia risultava necessaria. Nel 1601 il conte di Essex, già favorito della regina ma anche avversario dei Cecil e amico - nonché cugino acquisito - del conte di Southampton (il giovane protettore a cui Shakespare aveva dedicato due poemetti), si vide caduto in disgrazia e tentò una ribellione armata contro Elisabetta, peraltro facendo rappresentare proprio al Globe Theatre la sera precedente, a mo’ di avvertimento, il già citato "Riccardo II". La rivolta venne immediatamente repressa ed Essex condannato a morte, mentre Southampton (come visto nella prima parte) fu imprigionato fino all'avvento al trono di re Giacomo I. Il conte di Essex era diventato negli ultimi tempi una delle speranze del partito cattolico, che si attendeva da lui una maggiore tolleranza: non è un caso che qualche anno prima fosse stato pubblicato ad Anversa un libello di parte "papista" dedicato proprio al giovane nobile, in cui si mettevano in discussione il principio della monarchia ereditaria e le credenziali di Giacomo di Scozia. Shakespeare non solo era amico di Southampton, ma era anche socio della compagnia teatrale che si era occupata, per quanto in presunta buona fede, della rappresentazione della sera precedente la rivolta, oltre che l'autore della tragedia rappresentata. Ce n'era abbastanza per essere prudenti, anche alla luce dell'immediato divieto parlamentare di mettere in scena opere che rappresentassero congiure o ribellioni, ma anche per essere preoccupati: in questo senso "le emozioni generate dalla caduta di Essex produssero un'amarezza e un senso di delusione assai cospicuo negli ultimi anni del regno. [...] Le cause di tale diffusa atmosfera di tristezza sono complesse e difficili da analizzare. Essa compare in molte forme e pochi scrittori degni di nota vi sfuggirono" [3].

Prodotto di questa fase cupa è forse la più nota delle tragedie shakespeariane: "Amleto". Il protagonista è sicuramente una metafora dei dilemmi della condizione umana, ma anche della situazione inglese dell'epoca, tanto che alcuni critici hanno voluto vedervi proprio una rappresentazione del defunto conte di Essex. Principe di Danimarca, Amleto apprende dal fantasma del padre, apparsogli da un cattolicissimo Purgatorio, che il defunto genitore è stato ucciso dal fratello, il quale ha poi sposato anche la vedova. Egli mette dunque in scena uno spettacolo teatrale che rappresenti esattamente la vicenda incriminata, per osservare la reazione del nuovo Re: si tratta di un'ardita scelta metateatrale da parte di Shakespeare, considerata la dinamica della recentissima rivolta di Essex. Avuta conferma della colpevolezza dello zio, Amleto vive nel tormento e nell'incertezza se ricorrere o meno alla vendetta. Viene così inviato in Inghilterra dall'usurpatore (così come Essex era stato mandato da Elisabetta in Irlanda) ma torna infine a vendicarsi in un duello finale in cui tutti i principali personaggi rimangono uccisi. Il protagonista sottolinea spesso la duplicità della natura umana, divina ma al tempo stesso bestiale, e appare mosso da alti ideali religiosi e morali che però vede frustrati nella realtà. Il celeberrimo monologo ("Essere o non essere"), spesso visto come un dilemma tra la vita e il suicidio, va interpretato invece diversamente. Esso pone l'alternativa tra la sopportazione delle ingiustizie e dei soprusi e il coraggio di ribellarsi a costo di sacrificare la propria vita: meglio vivere per morire o morire per vivere? Si tratta dello stesso atroce dubbio che attanagliava i cattolici inglesi, condannati al silenzio e alla dissimulazione in uno Stato preda dell'apostasia ("c'è del marcio in Danimarca"). "Spezzati, cuore mio, perché devo tenere la lingua a freno" dice Amleto, non potendo svelare il suo segreto; più avanti dirà, al becchino che sta seppellendo la sua amata Ofelia dopo un tradizionale funerale cattolico, "dobbiamo stare attenti a come parliamo o l'equivocazione ci rovinerà". Nel finale dell'opera, infine, il protagonista si rivolge al pubblico, invitando l'amico Orazio a raccontare la verità sulla sua storia e difendere la sua reputazione. La tragedia, neanche a dirlo, si conclude con l'"invasione" della Danimarca - con il beneplacito dello stesso principe morente - da parte del norvegese Fortebraccio, che sembra lasciare intravedere un futuro migliore per il Paese.

Nel 1603 la profezia di morte dell'Amleto sembrò in qualche modo avverarsi con la dipartita della settantenne Elisabetta I. Shakespeare si guardò bene dall'unirsi al coro di dolore dei letterati di Corte; curiosamente, anzi, proprio in quel periodo si dette alla scrittura di un'amara commedia intitolata "Tutto è bene quel che finisce bene". Di certo l'ascesa al trono di Giacomo Stuart aveva ravvivato le speranze dei cattolici inglesi, date le promesse di maggiore tolleranza a suo tempo fatte dal nuovo sovrano, che peraltro mise sotto il proprio diretto patronato la compagnia teatrale shakespeariana degli "Uomini del Gran Ciambellano", che divennero quindi "Uomini del Re". Le aspettative, tuttavia, non tardarono ad essere deluse: sotto il consiglio di Cecil la repressione anticattolica proseguì, mentre il trattato di pace con la Spagna del 1604 non faceva nessuna menzione della questione dei cattolici inglesi. Le opere shakespeariane del periodo ("Misura per misura", "Otello") sembrano inserirsi in questo contesto, rappresentando le storie di uomini probi (Otello), investiti di importanti incarichi e interessati a fare il bene, che vengono traviati da perfidi consiglieri (Iago) i quali si accaniscono su vittime innocenti (Desdemona), magari falsamente accusate di tradimento.

L'esasperazione della minoranza cattolica esplose il 5 novembre 1605 con la "Congiura delle polveri", che ebbe per la verità una pericolosità inferiore a quello che la propaganda governativa lasciò intendere. In ogni caso il fallimento del complotto determinò lo screditamento della causa cattolica e la distruzione della missione gesuita, con la cattura e il martirio di padre Garnet e di un suo confratello. Le coeve tragedie shakespeariane, "Re Lear" e "Macbeth", mantengono ancora un'atmosfera cupa, in cui il male predomina e colpisce spietatamente gli innocenti, i buoni vengono esiliati e possono riconquistare i propri diritti solo grazie ad un'invasione. Nel "Re Lear" Cordelia, la figlia un tempo prediletta, cade in disgrazia perché non accetta di dimostrare la sua lealtà al padre attraverso le parole, a differenza di chi giura falsamente; eppure è proprio ella ad amare realmente il padre e a rimanergli veramente fedele. Sembra la storia dei cattolici inglesi rispetto alla loro Patria e del resto è proprio la ragazza ad affermare: "Non siamo i primi che, con le migliori intenzioni, sono incappati nel peggio". Emergono poi due differenti concezioni di natura, espresse rispettivamente da Re Lear e dal malvagio Edmund: nel primo caso si tratta di un ordine naturale e pertanto tradizionale e per questo rispettabile, nel secondo invece se ne tratteggia un'idea quasi darwiniana, moderna e utilitaristica. Dominano in tutto il dramma immagini di dolore fisico, di tortura, di orrore: "è il nadir del pessimismo shakespeariano". [4] E le parole finali di Edgar, chiamato a risollevare uno "Stato piagato" dalla menzogna e dal disordine, sono un vero e proprio inno all'autenticità: "dobbiamo accettare il peso di questo triste tempo, dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire". “Macbeth”, che pure avrebbe dovuto celebrare la dinastia Stuart, si colloca sulla stessa lunghezza d'onda: anche qui sono presenti la perfidia (rappresentata dalla figura femminile di Lady Macbeth), il tradimento ai danni di un vecchio monarca legittimo, un nuovo potere illegittimo e tirannico, l'esilio e l'uccisione dei buoni, l'invasione purificatrice, il rimorso e il dubbio sull'insensatezza della vita. Anche qui compaiono vittime che, come la moglie e il figlio di MacDuff, si lamentano della loro paradossale condizione: "crudeli i tempi in cui siamo traditori e non conosciamo noi stessi", in questo mondo terreno, "dove fare il male è spesso lodevole, fare il bene a volte è considerata pericolosa follia".

La fase delle grandi tragedie si conclude poi con "Antonio e Cleopatra" e "Coriolano”. Nel secondo ritorna come un'ossessione il tema dell'esilio del protagonista, cacciato ad opera dei tribuni della plebe: al suo ritorno a Roma, commenta però significativamente il comandante dei Volsci, tutti i suoi sostenitori usciranno di nuovo "dai loro buchi" (sembra quasi un riferimento ai "priest holes" di cui abbiamo detto nella prima parte). Così non andrà: anzi, dopo aver rinunciato all'invasione della città, Coriolano verrà ucciso proprio dai Volsci con cui si era alleato, il che potrebbe sembrare un riferimento al "tradimento" che i cattolici inglesi sentivano di aver subito dagli Spagnoli. Si tratta dell'ultima tragedia composta interamente da Shakespeare: da questo momento in avanti egli, che con la sua compagnia aveva preso possesso anche del teatro privato di Blackfriars, si dedicò a opere fiabesche ("romances"), un particolare genere letterario debitore sia delle tragicommedie italiane che dei masque (una sorta di musical) che si tenevano a Corte. Generalmente queste opere hanno un'ambientazione esotica e presentano ancora una volta i temi del naufragio, dell'esilio, delle famiglie separate, anche se alla fine arriva sempre un lieto fine, magari con qualche aiuto soprannaturale. Non mancano anche qui dei riferimenti curiosi. Nel "Pericle, principe di Tiro", ad esempio, un pescatore paragona un vecchio avaro a una di quelle balene che "s'ingoiano un'intera parrocchia, chiesa, campanile, campane e tutto", e riceve i complimenti del protagonista, il quale si sorprende di come i pescatori sappiano raccontare "le miserie umane partendo dagli squamosi esseri del mare e deducendo da quel regno d'acqua tutto ciò che fa onore o disonore all'uomo!": la metafora ricorda abbastanza l'incameramento dei beni della Chiesa da Enrico VIII in poi. La successiva "Cimbelino" racconta addirittura la storia di un conflitto tra Roma e Britannia, con il protagonista che viene salvato proprio da coloro che aveva esiliato e alla fine, nel clima di riconciliazione generale, accetta di pagare un tributo a Roma. Nel "Racconto d'Inverno", invece, il re Leonte accusa la moglie di adulterio e invia due nobili presso l'Oracolo di Delfi per avere conferma delle sue accuse. Precedentemente aveva incaricato un suo barone di uccidere il presunto amante della moglie, ma quegli, combattuto tra la fedeltà al re e i propri principi morali, aveva scelto i secondi. Tutta la scena ricorda vagamente la questione del divorzio di Enrico VIII, con l'oracolo a rappresentare la cattedra di San Pietro e il barone Camillo a evocare la figura di San Tommaso Moro. E infatti, di ritorno da Delfi, uno dei due nobili racconta che lo hanno molto colpito "degli abiti celestiali e l'aria venerabile dei preti che li indossano. E il sacrificio! Che cerimonia solenne e spirituale fu l'offerta!": l'analogia con la Messa cattolica appare evidente e infatti è stata notata dai critici fin dall'Ottocento. Quanto a Camillo, nel quarto atto il giovane Florizel si rivolge a lui quasi come a un santo intercessore: "Come è possibile, Camillo, che questo - quasi un miracolo - si realizzi? Ti chiamerei qualcosa di più che un uomo e poi mi affiderei tutto a te". Nella traduzione italiana sfugge una coincidenza che sembrerebbe avere tutta l'aria di un gioco di parole: l'originale recita infatti "That I may call thee something MORE than man". Infine, quando la giovane Perdita si ritrova davanti alla statua della madre che crede defunta e che invece è destinata a riprendere vita come per un incantesimo, esclama: "Datemi licenza, e non dite che è superstizione, se ora a lei davanti m'inginocchio e ne imploro la benedizione". Il riferimento alla polemica dei protestanti contro il culto cattolico delle immagini sacre appare anche qui palese.

Il nuovo giuramento di fedeltà imposto da Giacomo I nel 1610, come visto, aveva fatto capitolare numerosi cattolici: il giovane Anthony-Maria Browne, nuovo Lord Montague, si rifiutò però di prestarlo e cadde definitivamente in disgrazia. La situazione si era fatta più difficile non solo per i cattolici ma anche per i teatranti, vista la sempre maggiore influenza acquisita dai puritani, che non a caso in età cromwelliana avrebbero definito le opere di Shakespeare "immondizia prelatesca". Il puritano George Abbott divenne nel giro di due anni (1610-1611) prima vescovo di Londra e poi arcivescovo di Canterbury, cominciando a tuonare contro il teatro. E fu in questo contesto che William Shakespeare, che aveva passato indenne venti anni di onorata carriera, fu per la prima volta attaccato in maniera esplicita con riferimento al tema religioso. Lo storico e cartografo puritano John Speed pubblicò infatti nel 1611 la sua "Storia della Gran Bretagna": in una difesa dell'apologeta protestante John Foxe e dei suoi ritratti agiografici di presunti martiri riformati ante litteram tra cui il famigerato John Oldcastle (il Falstaff dell'"Enrico IV"), Speed si scagliò nel testo contro il padre gesuita Robert Parsons, che in un saggio aveva demolito la figura di Oldcastle, e contro Shakespeare, affermando che gli unici che avevano fornito un'immagine così distorta del personaggio erano "quel papista [Parsons] e il suo poeta [Shakespeare]: essi hanno la stessa propensione per le menzogne, l'uno [Shakespeare] sempre fingendo, l'altro [Parsons] sempre falsificando la verità". Si trattava di un attacco chiaro e diretto al drammaturgo di Corte, accusato senza giri di parole di essere nientemeno che il portavoce letterario dei sediziosi Gesuiti.

Tali fatti gettano in qualche modo una luce nuova e drammatica sull'improvviso ritiro dalle scene di Shakespeare, che proprio nel 1611, dopo aver rappresentato "La Tempesta", lasciò Londra e se ne tornò a Stratford. Sia come sia, "La tempesta" fu l'ultima opera da lui composta in solitario e costituì in sostanza il suo addio al palcoscenico. In maniera nient'affatto originale anche quest'opera tratta di magia, esilio in terre lontane, torti subiti e perdonati, riconciliazione, ma anche dell'arte della drammaturgia e del rapporto tra finzione letteraria e vita. Il protagonista Prospero, mago e duca di Milano, è stato spodestato dal malvagio fratello Antonio e dopo essere stato abbandonato in mare approda su un'isola insieme alla figlia Miranda. Qui egli libera lo spirito Ariel, che era stato imprigionato dalla strega Sycorax e da suo figlio, il mostro Caliban, e ne fa un suo servitore. Grazie ai suoi poteri magici egli fa scatenare una tempesta e fa naufragare i suoi nemici proprio sull'isola; seguiranno una serie di eventi al termine dei quali Prospero, dopo aver rinunciato per sempre alla magia e liberato Ariel, perdona tutti, accettando di far sposare la figlia dallo spasimante Ferdinando, e si appresta a riprendere possesso del suo ducato. Prospero è stato visto da gran parte della critica come un alter ego dell'autore: grazie ai suoi poteri magici egli è come un "regista" che guida le mosse di tutti i personaggi sul “palcoscenico” dell'isola. Non è un caso che, dopo aver organizzato uno spettacolo per la figlia e il suo corteggiatore, a un certo punto egli stesso lo interrompa proclamando la fine dei divertimenti e che tutto, "persino il grande Globo" (con possibile doppio senso riferito al Globe Theatre), si dissolverà, aggiungendo: "Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e la nostra piccola vita è circondata da un sonno. Signore, qualcosa mi opprime. Abbiate pazienza per la mia debolezza. Il mio vecchio cervello è turbato". Più avanti egli annuncia la sua rinuncia alla magia e quindi l'intenzione di rompere il bastone ("staff") con cui aveva scosso ("shake") gli elementi della natura. Ma è soprattutto l'epilogo che appare significativo: Prospero si rivolge al pubblico e, dopo aver proclamato la fine dei suoi incantesimi, lo prega di scioglierlo dai suoi vincoli "con mani generose" e "fiato gentile" (applausi e acclamazioni?), altrimenti fallirà il suo progetto che era quello di piacere ad esso. E poi conclude: "Ora mi mancano spiriti che eseguano, arte che incanti, e la mia fine sarà la disperazione se non sarò sollevato dalla preghiera, che va a fondo tanto da conquistare la pietà stessa e liberare da tutte le colpe. E, come voi vorreste essere perdonati per i vostri delitti, così la vostra indulgenza mi renda libero". Il grande drammaturgo si congeda dal suo pubblico chiedendogli non solo applausi, ma soprattutto preghiere, con un'espressione che richiama addirittura il Padre Nostro e il significativo uso del termine "indulgence", mai utilizzato dai principali autori dell'epoca, da Marlowe a Spencer. Se non è una professione di fede, poco ci manca: l'incertezza sulla propria salvezza e  la credenza nell'efficacia delle preghiere di intercessione sono espressione di una sensibilità profondamente cattolica la quale, dopo aver balenato qua e là in tante opere, ora prorompe evidente nelle parole di uomo che, forse intimamente oppresso da un potere tirannico per lunghi decenni di grandi successi e di più grandi travagli, anela finalmente alla libertà.


[1] A. Hadfield, Shakespeare and the Renaissance Politics, Arden 2004, p. 28.
[2] E.A. Armstrong, Shakespeare's Imagination, University of Nebraska Press (1946) 1963, p. 137.
[3] G.B. Harrison in H. Granville-Barker, G.B. Harrison (ed.), A Companion to Shakespeare Studies, Cambridge University Press (1934) 1964, p. 181.
[4] E.A. Armstrong, Shakespeare's Imagination cit., p. 73.

 

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