L'Inghilterra degli ultimi decenni del XVI
secolo viveva una profonda spaccatura di carattere religioso: il nuovo Atto di
Supremazia di Elisabetta I (1558-9), che imponeva un giuramento in cui
riconoscere il primato della Corona anche nella materia religiosa ed
ecclesiastica, e la successiva scomunica di Elisabetta da parte del Papa Pio V
(1570) ponevano i cattolici inglesi in una condizione drammatica, in cui la
fedeltà al proprio Stato e alla sovrana che lo rappresentava e quella alla
Chiesa di Roma apparvero per lungo tempo difficilmente conciliabili. Il cattolicesimo
divenne sostanzialmente bandito e coloro che non si uniformavano alla nuova
chiesa di Stato (c.d. ricusanti) nel migliore dei casi venivano sanzionati con
pesanti multe, nel peggiore venivano incarcerati o addirittura uccisi. Si
trattò di un processo che durò decenni e che strappò a viva forza il
cattolicesimo dall'anima del popolo inglese.
Il teatro non era immune da questa
situazione: soppressi per ordine dell'autorità i tradizionali spettacoli religiosi
itineranti che avevano caratterizzato la cultura popolare inglese ("miracle plays", "mistery plays", "morality plays"), tutta l'attività
teatrale in generale era finita sotto l'occhio inquisitore delle autorità
protestanti e in particolare dei circoli puritani. Poeti e drammaturghi, dunque, dovevano fare particolare
attenzione ai contenuti delle loro opere, onde evitare che la censura del Master of the Revels si abbattesse su di
esse e facesse cadere i loro autori in disgrazia. Con tale consapevolezza,
dunque, occorre accostarsi ai lavori di William Shakespeare, per provare a
discernere cosa egli abbia voluto far intendere a proposito della situazione dell'Inghilterra dell'epoca, tenendo presente che "i drammi shakespeariani sono pieni di riferimenti contemporanei che li ancorano nel presente e richiedono a spettatori e lettori di considerarli nei termini della politica del tempo"[1].
Esaminando i lavori shakespeariani,
osserviamo alcune costanti narrative che ritroviamo in tutta la sua produzione:
una "tempesta" che arriva a sconvolgere il cielo e l'ordine naturale
(compare in ben 10 opere), il tema della famiglia disgregata e del conflitto di
fedeltà, quello dell'innocente perseguitato, vittima di violenza o che attende
un'esecuzione ("La commedia degli errori", "Sogno di una notte
di mezza estate", "Il mercante di Venezia", "Misura per
misura"), quello dell'esilio dei buoni ("Tito Andronico",
"I due gentiluomini di Verona, "Romeo e Giulietta", "Come
vi piace", "Riccardo III", "Riccardo II", "Re
John", "Re Lear", "Macbeth", "Timon of
Athens", "Coriolano") e di un'invasione straniera che torna a
ristabilire l'ordine legittimo (quasi tutte le opere appena citate, ma anche
"Amleto"). È facile la tentazione di interpretare tali argomenti in
chiave cattolica. La tempesta rappresenterebbe lo sconvolgimento provocato
dalla Riforma, che aveva sconquassato un ordine non perfetto, ma socialmente e
culturalmente integrato; la famiglia disgregata è una metafora
dell'Inghilterra, dilaniata dal conflitto religioso e in cui il padre (lo
Stato) accusa di tradimento i figli (cattolici) che vorrebbero essergli fedeli.
I cattolici sarebbero simboleggiati naturalmente anche da tutti gli innocenti
ingiustamente perseguitati e fatti oggetto di violenza o costretti all'esilio,
mentre l'idea di un'invasione straniera costituiva un pensiero fisso e una
speranza di riscossa che troverà per esempio un suo fallito tentativo di
concretizzazione nell'Invincibile Armata spagnola del 1588.
A ciò si aggiunga che spesso e volentieri i
personaggi giurano sulla Santa Croce o sulle reliquie, su Maria o sui santi,
evocano il Purgatorio, il rosario, il pellegrinaggio e altri elementi della
dottrina e della pratica religiosa cattolica che il protestantesimo aveva
bandito. Non si tratta semplicemente di ambientazione storica, tanto più che
alcuni di questi elementi (vedi ad esempio la presenza di un'abbazia ne "La
commedia degli errori") vengono inseriti con evidenti anacronismi anche in
opere ambientate nell'antichità classica, ma di un immaginario religioso e
culturale che è continuamente presente alla mente di Shakespeare (nato nel
1564, più di trent'anni dopo l'inizio della Riforma anglicana) e che vi assume
una connotazione generalmente positiva e quasi nostalgica: si prenda ad esempio
il dialogo tra il Duca e Orlando in "Come vi piace", dove vengono
rievocati i passati giorni migliori in cui "siamo stati richiamati in
chiesa da sante campane". Si pensi anche alle figure di religiosi e
religiose cattolici, ai quali vengono spesso affidati ruoli risolutivi e che
vengono comunque descritti come personaggi positivi (cfr. fra Lorenzo in
"Romeo e Giulietta" o fra Francesco in "Molto rumore per
nulla"), a differenza di quanto accade in opere di autori coevi, dove
preti, frati e suore vengono costantemente fatti oggetto di scherno e di
ironie; il clero che presenta caratteristiche "anglicane" ante litteram, invece, viene presentato
dal Bardo dell'Avon in luce generalmente negativa (vedi l'arcivescovo di
Canterbury dell'"Enrico V", secondo il quale "è finito il tempo
dei miracoli").
Particolarmente simbolici appaiono poi i
personaggi femminili: in molti casi si tratta di figure innocenti esposte alla
violenza e che comunque rappresentano la purezza, arrivando ad assumere tratti mariani. Si vedano ad esempio la violenza e la mutilazione subite
da Lavinia nel "Tito Andronico", che evocano plasticamente la
profanazione protestante delle immagini sacre cattoliche, ma anche lo stupro di
Lucrezia nell'omonimo poemetto, con la fanciulla che viene definita "santa
terrena", "puro santuario", "immagine celeste",
"virtuoso monumento". La metafora mariana si fa più evidente nel
personaggio di Desdemona, alla quale nell'"Otello" Cassio si rivolge
con l'espressione "Ave a te, signora, e la grazia celeste davanti e dietro
e da ogni lato ti circondi!". Viceversa, i personaggi negativi femminili
rimandano per molti versi alla figura della regina Elisabetta, che del resto
viene richiamata spesso e volentieri dall'immagine della luna, alla cui
divinità pagana (Diana, simbolo di verginità) molti poeti di corte la
paragonavano abitualmente con toni encomiastici ma a cui Shakespeare attribuisce
non di rado un'accezione esattamente opposta.
Proprio attraverso la traccia della luna è
possibile seguire un filo rosso che possa farci identificare alcuni dei tantissimi presunti
elementi di dissidenza disseminati nelle opere shakespeariane. Il "Sogno
di una notte di mezza estate" (1595), ad esempio, si apre con un lamento
di Teseo che, se interpretato allegoricamente in riferimento all'allora
sessantaduenne regina, assume un significato decisamente pericoloso: "Ma oh, quanto
lentamente cala questa vecchia luna! Ella rallenta il compimento dei miei
desideri come una matrigna o una vedova che tanto a lungo fa appassire la
rendita di un giovane". Poco più in là la luna medesima viene definita
"fredda e infeconda" e qualche verso più giù si aggiunge che, pur
dovendosi ritenere benedette coloro che abbracciano il sentiero della castità,
"in questo mondo terreno più felice è la rosa distillata di quella
costretta ad appassire su un vergine ramo". Non c'è bisogno di ricordare,
ovviamente, la condizione di "Regina vergine" di Elisabetta. Non
stupisce, alla luce di quanto esposto, che Shakespeare abbia introdotto
nell'opera un espediente metateatrale, inserendo nella storia un gruppo di
artigiani improvvisatisi attori e chiamati a mettere in scena un dramma, i
quali al termine della rappresentazione si scusano dichiarando che, se qualcuno
si è sentito offeso da qualcosa, deve sapere che è stato fatto tutto in buona
fede ("good will", gioco di
parole che richiama il nome dell'autore e che è tipico di Shakespeare). Il tema
lunare ritorna, se possibile in una chiave ancora più evidente, in "Romeo
e Giulietta". L'intera tragedia potrebbe in realtà alludere alla
tormentata relazione tra il terzo conte di Southampton ("Romeo"), che
non a caso era discendente della famiglia Montague (proprio così vengono
tradotti i "Montecchi" nell'originale dell'opera), e la damigella di
corte Elizabeth Vernon ("Giulietta"): tale relazione, come si
ricorderà, era stata nascosta per diverso tempo e comunque era risultata
sgradita alla Regina. Al giovane Southampton era stato dedicato, come sappiamo,
anche il poemetto "Venere e Adone" (1593): Shakespeare aveva in
quell'occasione aggiunto un tocco di originalità alla storia, facendo rifiutare
con decisione al bel giovane tutte le insistenti avances della dea della bellezza.
Non è forse inutile rammentare che proprio in quei mesi il giovane conte stava
rifiutando la proposta di matrimonio con Elizabeth de Vere, nipote del ministro
elisabettiano WIlliam Cecil: che il poemetto contenesse un riferimento a questo
episodio e, più in generale, alle pressioni della Corte sul titubante rampollo
dell'aristocrazia cattolica? Tornando a "Romeo e Giulietta", tutti
conosciamo la celebre scena del balcone, ma rileggendola alla luce dell'ipotesi
sopra descritta rimaniamo piuttosto stupefatti: Romeo paragona Giulietta al
sole e la invita ad uccidere "la luna invidiosa, che è già malata e
pallida dal dolore per il fatto che tu, sua damigella, sei molto più bella di
lei. Non essere la sua damigella, perché è invidiosa. La sua vestale livrea è
pallida e verde e la indossano soltanto i folli: gettala via". Il termine
"pale" (pallido) è
sostituito in alcune versioni da "sick"
(malaticcio): forse l'allusione alle livree dei servitori dei Tudor, di colore
bianco-verde, era stata troppo esplicita.
Più o meno nello stesso periodo, del resto,
Shakespeare aveva composto il "Riccardo II", in cui veniva raccontata
la deposizione del vecchio monarca da parte di Enrico di Bolingbroke, futuro
Enrico IV, con una scena che venne censurata nella rappresentazione a Corte. Se
non è lecito trarre interpretazioni troppo scontate relativamente a
quest'opera, essa presenta di sicuro le caratteristiche di buona parte dei
drammi storici shakespeariani: l'assenza di personaggi esclusivamente positivi,
il sovrabbondare di crudeltà e sangue, il tradimento e i conflitti di fedeltà,
il cinismo calcolatore che distrugge un ordine antico fondato sull'onore. Si
tratta di una visione che ha ben poco a che spartire con un'acritica
esaltazione della storia della dinastia Tudor o del principio della monarchia
di diritto divino, allora brandito dai protestanti per tacitare ogni critica
all'operato dei sovrani anglicani. Gli stessi temi si ritrovano in "Re
John", dove l'arrogante Giovanni senza Terra (una sorta di Enrico VIII o
Elisabetta I ante litteram) è
costretto alla fine ad umiliarsi e a riconciliarsi con il Papa, il che non lo
salverà peraltro dalla furia dei nobili ribelli indignati dall'eliminazione di
suo nipote Arthur (allusione all'uccisione di Maria Stuarda?). Nell'"Enrico
IV", invece, il Bardo dell'Avon distrusse la reputazione di un altro personaggio che i
protestanti rivendicavano come proprio antesignano, circondandolo addirittura
di un'aura di martirio: si tratta di John Oldcastle, uno dei leader lollardi
bruciato sul rogo nel Quattrocento, che egli rappresenta come un bugiardo e
vanaglorioso ubriacone dai tratti comici. Non stupisce che il nuovo Lord
Ciambellano di Corte, discendente di Oldcastle e sotto la cui custodia la
compagnia teatrale di Shakespeare era passata, impose un cambio di cognome al
personaggio, che assunse le generalità di John Falstaff, con tanto di
chiarimento fin troppo sarcasticamente esplicito da parte dell'autore nel
finale dell'"Enrico IV - parte II". E non si trattava di facezie
innocenti: il teatro svolgeva anzi una funzione politica fondamentale, se è
vero che lo stesso Shakespeare nell'"Amleto" definì "essenziali
cronache del tempo” gli attori itineranti che compaiono nel dramma con la
solita operazione di metateatro. Non è un caso che proprio in questi anni
venissero adottati provvedimenti sempre più restrittivi: nel 1599 sopraggiunse
il divieto da parte dei vescovi anglicani di Canterbury e Londra di pubblicare
satire e drammi di carattere storico ambientati in Inghilterra, mentre
successivamente, dopo la "Congiura delle polveri", si proibì
addirittura di nominare "impropriamente" Dio o le persone della
Trinità nelle opere teatrali.
Data l'emanazione del Bishops' Ban William abbandonò dunque la storia inglese per
recuperare un tema di argomento classico: nacque così il "Giulio
Cesare". L'opera, rapportata all'attualità politica del suo tempo, si
presta naturalmente a una doppia interpretazione: Cesare potrebbe rappresentare
sia la Chiesa di Roma, cioè un vecchio ordine monarchico e popolare messo in
discussione dai "puritani" repubblicani alla Cassio, sia la monarchia
elisabettiana contestata dai ribelli cattolici. La prima ipotesi sembra però
più credibile alla luce di una serie di elementi che connotano i personaggi:
Cesare - dicono ad esempio i congiurati - si è fatto di recente
"superstizioso" e tiene in modo particolare a "cerimonie" a
cui i repubblicani appaiono invece allergici, tanto da rispedire a casa nel
primo atto i popolani che accorrono festanti e orgogliosi per i successi del
dittatore. Si veda anche la questione del tempo: i congiurati sono sempre
piuttosto incerti su che giorno e su che ora sia e questo è stato interpretato
dai critici come un chiaro riferimento al rifiuto dell'Inghilterra di adeguarsi
alla riforma del calendario del papa Gregorio XIII (1582), nuovo
"Cesare" che aveva corretto le imperfezioni del calendario giuliano.
La figura di Bruto, alla luce di queste considerazioni, rappresenterebbe il
conflitto di fedeltà che molti cattolici del tempo provavano tra la propria devozione
a Roma e la lealtà al proprio Stato, in questo caso tra Cesare e la Repubblica.
Di sicuro, invece, la raffinata capacità dialettica di Antonio, maestro
dell'arte di dire senza dire, non può non ricordare la tecnica
dell'equivocazione, sviluppatasi soprattutto negli ambienti gesuitici e
consistente in una strategia di dissimulazione da adottare ad esempio durante
gli interrogatori. Di una tecnica simile, fondata sugli equivoci, sull'ironia,
sui giochi di parole, sulle allusioni, era naturalmente specialista anche
William Shakespeare, più di ogni altro autore del suo tempo: anzi, "sembra
quasi che si sentisse pressoché costretto, appena gli era possibile, a servirsi
di doppi sensi ed equivocazioni" [2].
Mai come allora, del resto, una tale
strategia risultava necessaria. Nel 1601 il conte di Essex, già favorito della
regina ma anche avversario dei Cecil e amico - nonché cugino acquisito - del
conte di Southampton (il giovane protettore a cui Shakespare aveva dedicato due
poemetti), si vide caduto in disgrazia e tentò una ribellione armata contro
Elisabetta, peraltro facendo rappresentare proprio al Globe Theatre la sera precedente, a mo’ di avvertimento, il già
citato "Riccardo II". La rivolta venne immediatamente repressa ed
Essex condannato a morte, mentre Southampton (come visto nella prima parte) fu
imprigionato fino all'avvento al trono di re Giacomo I. Il conte di Essex era
diventato negli ultimi tempi una delle speranze del partito cattolico, che si
attendeva da lui una maggiore tolleranza: non è un caso che qualche anno prima
fosse stato pubblicato ad Anversa un libello di parte "papista"
dedicato proprio al giovane nobile, in cui si mettevano in discussione il
principio della monarchia ereditaria e le credenziali di Giacomo di Scozia.
Shakespeare non solo era amico di Southampton, ma era anche socio della
compagnia teatrale che si era occupata, per quanto in presunta buona fede,
della rappresentazione della sera precedente la rivolta, oltre che l'autore
della tragedia rappresentata. Ce n'era abbastanza per essere prudenti, anche
alla luce dell'immediato divieto parlamentare di mettere in scena opere che
rappresentassero congiure o ribellioni, ma anche per essere preoccupati: in
questo senso "le emozioni generate dalla caduta di Essex produssero un'amarezza
e un senso di delusione assai cospicuo negli ultimi anni del regno. [...] Le
cause di tale diffusa atmosfera di tristezza sono complesse e difficili da
analizzare. Essa compare in molte forme e pochi scrittori degni di nota vi
sfuggirono" [3].
Prodotto di questa fase cupa è forse la più
nota delle tragedie shakespeariane: "Amleto". Il protagonista è
sicuramente una metafora dei dilemmi della condizione umana, ma anche della
situazione inglese dell'epoca, tanto che alcuni critici hanno voluto vedervi
proprio una rappresentazione del defunto conte di Essex. Principe di Danimarca,
Amleto apprende dal fantasma del padre, apparsogli da un cattolicissimo
Purgatorio, che il defunto genitore è stato ucciso dal fratello, il quale ha
poi sposato anche la vedova. Egli mette dunque in scena uno spettacolo teatrale
che rappresenti esattamente la vicenda incriminata, per osservare la reazione
del nuovo Re: si tratta di un'ardita scelta metateatrale da parte di
Shakespeare, considerata la dinamica della recentissima rivolta di Essex. Avuta
conferma della colpevolezza dello zio, Amleto vive nel tormento e
nell'incertezza se ricorrere o meno alla vendetta. Viene così inviato in
Inghilterra dall'usurpatore (così come Essex era stato mandato da Elisabetta in
Irlanda) ma torna infine a vendicarsi in un duello finale in cui tutti i
principali personaggi rimangono uccisi. Il protagonista sottolinea spesso la
duplicità della natura umana, divina ma al tempo stesso bestiale, e appare
mosso da alti ideali religiosi e morali che però vede frustrati nella realtà.
Il celeberrimo monologo ("Essere o non essere"), spesso visto come un
dilemma tra la vita e il suicidio, va interpretato invece diversamente. Esso
pone l'alternativa tra la sopportazione delle ingiustizie e dei soprusi e il coraggio
di ribellarsi a costo di sacrificare la propria vita: meglio vivere per morire
o morire per vivere? Si tratta dello stesso atroce dubbio che attanagliava i
cattolici inglesi, condannati al silenzio e alla dissimulazione in uno Stato
preda dell'apostasia ("c'è del marcio in Danimarca"). "Spezzati,
cuore mio, perché devo tenere la lingua a freno" dice Amleto, non potendo
svelare il suo segreto; più avanti dirà, al becchino che sta seppellendo la sua
amata Ofelia dopo un tradizionale funerale cattolico, "dobbiamo stare
attenti a come parliamo o l'equivocazione ci rovinerà". Nel finale
dell'opera, infine, il protagonista si rivolge al pubblico, invitando l'amico
Orazio a raccontare la verità sulla sua storia e difendere la sua reputazione.
La tragedia, neanche a dirlo, si conclude con l'"invasione" della
Danimarca - con il beneplacito dello stesso principe morente - da parte del
norvegese Fortebraccio, che sembra lasciare intravedere un futuro migliore per
il Paese.
Nel 1603 la profezia di morte dell'Amleto
sembrò in qualche modo avverarsi con la dipartita della settantenne Elisabetta
I. Shakespeare si guardò bene dall'unirsi al coro di dolore dei letterati di
Corte; curiosamente, anzi, proprio in quel periodo si dette alla scrittura di
un'amara commedia intitolata "Tutto è bene quel che finisce bene". Di
certo l'ascesa al trono di Giacomo Stuart aveva ravvivato le speranze dei
cattolici inglesi, date le promesse di maggiore tolleranza a suo tempo fatte
dal nuovo sovrano, che peraltro mise sotto il proprio diretto patronato la
compagnia teatrale shakespeariana degli "Uomini del Gran
Ciambellano", che divennero quindi "Uomini del Re". Le
aspettative, tuttavia, non tardarono ad essere deluse: sotto il consiglio di
Cecil la repressione anticattolica proseguì, mentre il trattato di pace con la
Spagna del 1604 non faceva nessuna menzione della questione dei cattolici
inglesi. Le opere shakespeariane del periodo ("Misura per misura",
"Otello") sembrano inserirsi in questo contesto, rappresentando le
storie di uomini probi (Otello), investiti di importanti incarichi e
interessati a fare il bene, che vengono traviati da perfidi consiglieri (Iago)
i quali si accaniscono su vittime innocenti (Desdemona), magari falsamente
accusate di tradimento.
L'esasperazione della minoranza cattolica
esplose il 5 novembre 1605 con la "Congiura delle polveri", che ebbe
per la verità una pericolosità inferiore a quello che la propaganda governativa
lasciò intendere. In ogni caso il fallimento del complotto determinò lo screditamento
della causa cattolica e la distruzione della missione gesuita, con la cattura e
il martirio di padre Garnet e di un suo confratello. Le coeve tragedie
shakespeariane, "Re Lear" e "Macbeth", mantengono ancora
un'atmosfera cupa, in cui il male predomina e colpisce spietatamente gli
innocenti, i buoni vengono esiliati e possono riconquistare i propri diritti
solo grazie ad un'invasione. Nel "Re Lear" Cordelia, la figlia un
tempo prediletta, cade in disgrazia perché non accetta di dimostrare la sua lealtà
al padre attraverso le parole, a differenza di chi giura falsamente; eppure è
proprio ella ad amare realmente il padre e a rimanergli veramente fedele. Sembra
la storia dei cattolici inglesi rispetto alla loro Patria e del resto è proprio
la ragazza ad affermare: "Non siamo i primi che, con le migliori
intenzioni, sono incappati nel peggio". Emergono poi due differenti
concezioni di natura, espresse rispettivamente da Re Lear e dal malvagio
Edmund: nel primo caso si tratta di un ordine naturale e pertanto tradizionale
e per questo rispettabile, nel secondo invece se ne tratteggia un'idea quasi
darwiniana, moderna e utilitaristica. Dominano in tutto il dramma immagini di
dolore fisico, di tortura, di orrore: "è il nadir del pessimismo
shakespeariano". [4] E le parole finali di Edgar, chiamato a
risollevare uno "Stato piagato" dalla menzogna e dal disordine, sono
un vero e proprio inno all'autenticità: "dobbiamo accettare il peso di
questo triste tempo, dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire".
“Macbeth”, che pure avrebbe dovuto celebrare la dinastia Stuart, si colloca
sulla stessa lunghezza d'onda: anche qui sono presenti la perfidia
(rappresentata dalla figura femminile di Lady Macbeth), il tradimento ai danni
di un vecchio monarca legittimo, un nuovo potere illegittimo e tirannico,
l'esilio e l'uccisione dei buoni, l'invasione purificatrice, il rimorso e il
dubbio sull'insensatezza della vita. Anche qui compaiono vittime che, come la
moglie e il figlio di MacDuff, si lamentano della loro paradossale condizione:
"crudeli i tempi in cui siamo traditori e non conosciamo noi stessi",
in questo mondo terreno, "dove fare il male è spesso lodevole, fare il
bene a volte è considerata pericolosa follia".
La fase delle grandi tragedie si conclude
poi con "Antonio e Cleopatra" e "Coriolano”. Nel secondo ritorna
come un'ossessione il tema dell'esilio del protagonista, cacciato ad opera dei
tribuni della plebe: al suo ritorno a Roma, commenta però significativamente il
comandante dei Volsci, tutti i suoi sostenitori usciranno di nuovo "dai
loro buchi" (sembra quasi un riferimento ai "priest holes" di cui abbiamo detto nella prima parte). Così non andrà: anzi, dopo aver rinunciato all'invasione
della città, Coriolano verrà ucciso proprio dai Volsci con cui si era alleato,
il che potrebbe sembrare un riferimento al "tradimento" che i cattolici
inglesi sentivano di aver subito dagli Spagnoli. Si tratta dell'ultima tragedia
composta interamente da Shakespeare: da questo momento in avanti egli, che con
la sua compagnia aveva preso possesso anche del teatro privato di Blackfriars,
si dedicò a opere fiabesche ("romances"),
un particolare genere letterario debitore sia delle tragicommedie italiane che
dei masque (una sorta di musical) che
si tenevano a Corte. Generalmente queste opere hanno un'ambientazione esotica e
presentano ancora una volta i temi del naufragio, dell'esilio, delle famiglie
separate, anche se alla fine arriva sempre un lieto fine, magari con qualche
aiuto soprannaturale. Non mancano anche qui dei riferimenti curiosi. Nel
"Pericle, principe di Tiro", ad esempio, un pescatore paragona un
vecchio avaro a una di quelle balene che "s'ingoiano un'intera parrocchia,
chiesa, campanile, campane e tutto", e riceve i complimenti del
protagonista, il quale si sorprende di come i pescatori sappiano raccontare
"le miserie umane partendo dagli squamosi esseri del mare e deducendo da
quel regno d'acqua tutto ciò che fa onore o disonore all'uomo!": la metafora ricorda abbastanza l'incameramento dei beni della Chiesa da Enrico VIII in poi. La
successiva "Cimbelino" racconta addirittura la storia di un conflitto
tra Roma e Britannia, con il protagonista che viene salvato proprio da coloro
che aveva esiliato e alla fine, nel clima di riconciliazione generale, accetta
di pagare un tributo a Roma. Nel "Racconto d'Inverno", invece, il re
Leonte accusa la moglie di adulterio e invia due nobili presso l'Oracolo di
Delfi per avere conferma delle sue accuse. Precedentemente aveva incaricato un
suo barone di uccidere il presunto amante della moglie, ma quegli, combattuto
tra la fedeltà al re e i propri principi morali, aveva scelto i secondi. Tutta
la scena ricorda vagamente la questione del divorzio di Enrico VIII, con
l'oracolo a rappresentare la cattedra di San Pietro e il barone Camillo a
evocare la figura di San Tommaso Moro. E infatti, di ritorno da Delfi, uno dei
due nobili racconta che lo hanno molto colpito "degli abiti celestiali e
l'aria venerabile dei preti che li indossano. E il sacrificio! Che cerimonia
solenne e spirituale fu l'offerta!": l'analogia con la Messa cattolica
appare evidente e infatti è stata notata dai critici fin dall'Ottocento. Quanto
a Camillo, nel quarto atto il giovane Florizel si rivolge a lui quasi come a un
santo intercessore: "Come è possibile, Camillo, che questo - quasi un
miracolo - si realizzi? Ti chiamerei qualcosa di più che un uomo e poi mi
affiderei tutto a te". Nella traduzione italiana sfugge una coincidenza
che sembrerebbe avere tutta l'aria di un gioco di parole: l'originale recita
infatti "That I may call thee
something MORE than man". Infine, quando la giovane Perdita si ritrova
davanti alla statua della madre che crede defunta e che invece è destinata a
riprendere vita come per un incantesimo, esclama: "Datemi licenza, e non
dite che è superstizione, se ora a lei davanti m'inginocchio e ne imploro la
benedizione". Il riferimento alla polemica dei protestanti contro il culto
cattolico delle immagini sacre appare anche qui palese.
Il nuovo giuramento di fedeltà imposto da
Giacomo I nel 1610, come visto, aveva fatto capitolare numerosi cattolici: il
giovane Anthony-Maria Browne, nuovo Lord Montague, si rifiutò però di prestarlo
e cadde definitivamente in disgrazia. La situazione si era fatta più difficile
non solo per i cattolici ma anche per i teatranti, vista la sempre maggiore
influenza acquisita dai puritani, che non a caso in età cromwelliana avrebbero
definito le opere di Shakespeare "immondizia prelatesca". Il puritano
George Abbott divenne nel giro di due anni (1610-1611) prima vescovo di Londra
e poi arcivescovo di Canterbury, cominciando a tuonare contro il teatro. E fu
in questo contesto che William Shakespeare, che aveva passato indenne venti
anni di onorata carriera, fu per la prima volta attaccato in maniera esplicita
con riferimento al tema religioso. Lo storico e cartografo puritano John Speed
pubblicò infatti nel 1611 la sua "Storia della Gran Bretagna": in una
difesa dell'apologeta protestante John Foxe e dei suoi ritratti agiografici di presunti martiri riformati ante litteram tra
cui il famigerato John Oldcastle (il Falstaff dell'"Enrico IV"),
Speed si scagliò nel testo contro il padre gesuita Robert Parsons, che in un
saggio aveva demolito la figura di Oldcastle, e contro Shakespeare, affermando
che gli unici che avevano fornito un'immagine così distorta del personaggio
erano "quel papista [Parsons] e il suo poeta [Shakespeare]: essi hanno la
stessa propensione per le menzogne, l'uno [Shakespeare] sempre fingendo,
l'altro [Parsons] sempre falsificando la verità". Si trattava di un
attacco chiaro e diretto al drammaturgo di Corte, accusato senza giri di parole
di essere nientemeno che il portavoce letterario dei sediziosi Gesuiti.
Tali fatti gettano in
qualche modo una luce nuova e drammatica sull'improvviso ritiro dalle scene di
Shakespeare, che proprio nel 1611, dopo aver rappresentato "La
Tempesta", lasciò Londra e se ne tornò a Stratford. Sia come sia, "La
tempesta" fu l'ultima opera da lui composta in solitario e costituì in
sostanza il suo addio al palcoscenico. In maniera nient'affatto originale anche
quest'opera tratta di magia, esilio in terre lontane, torti subiti e perdonati,
riconciliazione, ma anche dell'arte della drammaturgia e del rapporto tra finzione
letteraria e vita. Il protagonista Prospero, mago e duca di Milano, è stato
spodestato dal malvagio fratello Antonio e dopo essere stato abbandonato in
mare approda su un'isola insieme alla figlia Miranda. Qui egli libera lo
spirito Ariel, che era stato imprigionato dalla strega Sycorax e da suo figlio,
il mostro Caliban, e ne fa un suo servitore. Grazie ai suoi poteri magici egli
fa scatenare una tempesta e fa naufragare i suoi nemici proprio sull'isola;
seguiranno una serie di eventi al termine dei quali Prospero, dopo aver
rinunciato per sempre alla magia e liberato Ariel, perdona tutti, accettando di
far sposare la figlia dallo spasimante Ferdinando, e si appresta a riprendere
possesso del suo ducato. Prospero è stato visto da gran parte della critica
come un alter ego dell'autore: grazie ai suoi poteri magici egli è come un
"regista" che guida le mosse di tutti i personaggi sul “palcoscenico”
dell'isola. Non è un caso che, dopo aver organizzato uno spettacolo per la
figlia e il suo corteggiatore, a un certo punto egli stesso lo interrompa
proclamando la fine dei divertimenti e che tutto, "persino il grande
Globo" (con possibile doppio senso riferito al Globe Theatre), si dissolverà,
aggiungendo: "Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e la nostra
piccola vita è circondata da un sonno. Signore, qualcosa mi opprime. Abbiate
pazienza per la mia debolezza. Il mio vecchio cervello è turbato". Più
avanti egli annuncia la sua rinuncia alla magia e quindi l'intenzione di
rompere il bastone ("staff") con cui aveva scosso ("shake")
gli elementi della natura. Ma è soprattutto l'epilogo che appare significativo:
Prospero si rivolge al pubblico e, dopo aver proclamato la fine dei suoi
incantesimi, lo prega di scioglierlo dai suoi vincoli "con mani generose"
e "fiato gentile" (applausi e acclamazioni?), altrimenti fallirà il
suo progetto che era quello di piacere ad esso. E poi conclude: "Ora mi mancano
spiriti che eseguano, arte che incanti, e la mia fine sarà la disperazione se
non sarò sollevato dalla preghiera, che va a fondo tanto da conquistare la
pietà stessa e liberare da tutte le colpe. E, come voi vorreste essere
perdonati per i vostri delitti, così la vostra indulgenza mi renda
libero". Il grande drammaturgo si congeda dal suo pubblico chiedendogli
non solo applausi, ma soprattutto preghiere, con un'espressione che richiama
addirittura il Padre Nostro e il significativo uso del termine
"indulgence", mai utilizzato dai principali autori dell'epoca, da
Marlowe a Spencer. Se non è una professione di fede, poco ci manca:
l'incertezza sulla propria salvezza e la credenza nell'efficacia delle preghiere di
intercessione sono espressione di una sensibilità profondamente cattolica la
quale, dopo aver balenato qua e là in tante opere, ora prorompe evidente nelle
parole di uomo che, forse intimamente oppresso da un potere tirannico per
lunghi decenni di grandi successi e di più grandi travagli, anela finalmente
alla libertà.
[1] A. Hadfield, Shakespeare and the Renaissance Politics, Arden 2004, p. 28.
[2] E.A. Armstrong, Shakespeare's Imagination, University of Nebraska Press (1946) 1963, p. 137.
[3] G.B. Harrison in H. Granville-Barker, G.B. Harrison (ed.), A Companion to Shakespeare Studies, Cambridge University Press (1934) 1964, p. 181.
[4] E.A. Armstrong, Shakespeare's Imagination cit., p. 73.
Pubblicato il 09 aprile 2020

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