di Giorgio Salzano
Parliamo di Pachamama. Prima che sia troppo tardi, e scompaia del tutto dalla cronaca. Mettiamola così, quei suprematisti occidentali che dominano in Vaticano hanno fatto una figura di palta. Volendo mostrarsi rispettosi delle culture indigene, e forse davvero credendo di esserlo, hanno tenuto un atteggiamento che li mostra per quello che sono: condiscendenti.
Fino a pochi giorni fa io non avevo mai sentito la parola pachamama. Mi si dice che è il nome andino per la divina Madre Terra, per cui non si capirebbe che cosa c’entri con idoletti amazzonici. Ma lasciamo perdere questi insignificanti dettagli: comunque li si chiami, parliamo sempre di idoletti rappresentanti la Madre Terra. Esibiti in Vaticano con accompagno di riti di adorazione, poi custoditi a Santa Maria in Traspontina, sono stati rubati da qualche intollerante cattolico e buttati nel Tevere, da dove sono stati però recuperati dai carabinieri. Qualcuno in Vaticano ha parlato di sacrilegio, ed il Papa ha chiesto scusa. Bah!
Non ho visto foto degli idoletti dello scandalo (la loro esibizione in chiesa per alcuni, il loro essere buttati in Tevere per altri). Ma mi viene in mente l’inizio dei nostri libri di storia dell’arte, certe statuette di donne grassissime, tutta pancia e seno, per i nostri gusti decisamente brutte, ma di cui ci viene spiegato che erano raffigurate così perché rappresentavano la fecondità, divinizzata come terra madre. Non sappiamo da quali culti fossero investite quelle statuette, e quelli che le praticavano erano da lunga pezza estinti quando venne in essere la Chiesa; ma siamo sicuri che la Chiesa, erede in questo del giudaismo, li avrebbe aborriti per quello che erano: culto di idoli.
Diciamo la verità: vi era, in quel rifiuto dell’idolatria, un segno di rispetto, che manca in coloro che oggi invitano i cultori di simil antiche statuette in Vaticano (sineddoche della Chiesa). Voleva dire riconoscere che il culto prestato agli idoli era quello che pretendeva di essere: adorazione prestata alla divinità. Sia pure mal diretta e quindi da correggere. Che cosa è invece per gli odierni signori del Vaticano? Un grazioso costume con cui gli indigeni dell’Amazzonia esprimono il loro sentimento religioso legato alla terra?
Dico così perché così si suol dire nel nostro linguaggio occidentale, anche se non sono ben sicuro su che cosa sia un “sentimento religioso”. L’investimento sentimentale di qualcosa che la fa essere tutto per noi? In quante canzoni d’amore l’abbiamo cantato. La donna amata come oggetto di culto? E perché no? In fondo, stando alla sua definizione sentimentale anche questa è religione. Ma no, mi si può obbiettare, qui parliamo di un attaccamento privato, la religione richiede invece che il bene contemplato abbia carattere pubblico. Come la terra appunto, della quale nelle alte sfere vaticane tanto ci si preoccupa. Ma è ecologia, ci si dice, e non religione come per gli adoratori delle varie pachamama. Davvero? E allora perché tanto corteggiamento di questi, come proto-ecologisti che vivevano in armonia con la natura? Non rappresentano un esempio carino di quello che dovrebbe essere il nostro atteggiamento verso la Terra, questo pianeta che ci sorregge ma che noi staremmo portando alla distruzione con il nostro dissennato sfruttamento (e i combustibili fossili)?
No way. La terra degli ecologisti non è la terra madre dei culti arcaici. È l’immagine di un ambiente senza ambientato, nel quale perciò chi vi entrasse per ambientarvisi – leggi: l’uomo – non potrebbe non essere fattore di disturbo, potenzialmente distruggendo con i suoi interventi pregressi equilibri. Una simile immagine è di per sé frutto di una riflessione sul sapere – leggi: scienza – in cui il soggetto conoscente si astrae dall’oggetto conosciuto riguardandolo come una cosa a sé, che di fatto non esiste però come tale se non nella sua immaginazione. Ed è questa immaginazione scientifica che eventualmente si colora dei lividi bagliori dell’apocalisse a quanto pare avvertiti anche in Vaticano.
Altra cosa è la terra evocata dagli idoletti. Questi non sono la proiezione sentimentale su un ambiente indifferente immaginata dall’ecologista occidentale, ma rappresentano aspetti della primordiale riflessione sul proprio ambiente di chi vi si riconosce ambientato. L’ambiente prende in tal caso inevitabilmente l’immagine della madre, colei che è inizialmente per il bambino (che siamo stati) tutto, nutrimento corporeo e spirituale, alimentazione di vita data con amore. Riconosciamo poi accanto a lei quell’altro, il padre, di cui non sappiamo inizialmente perché sia lì (come qualcuno cioè che ci ha pur messo del suo), ma che si inserisce come un terzo grazie al quale ci differenziamo da lei, e nel chiamarli diversamente impariamo a parlare, e a situarci per nome in un mondo di cui ci sappiamo partecipi.
Fortunatamente lo stadio di riflessione rappresentato dagli idoletti ce lo siamo lasciato indietro da lunga pezza. Torniamo alla storia dell’arte: alle rozze figurine si sono venute sostituendo nella statuaria greca figure di crescente realismo, che ancora suscitano meraviglia per l’armonia delle forme. Non è questione di “estetica”, osservava lo studioso di arte e pensiero orientale Ananda Coomaraswami: non è infatti la percezione sensibile a costituire l’arte, ma, diciamo piuttosto con Antonio Rosmini, la percezione intellettiva: vedere le cose alla luce di un’idea. Inizialmente ispirata alla mitologia, l’arte greca ne ritiene l’idealità: di storie che danno il senso della vita, che è una nello sdoppiarsi e convergere di maschile e femminile. Lo stesso senso della vita che diventa nel frattempo oggetto di riflessione filosofica. Altro che sentimento religioso.
Facciamo un salto di secoli, diciamo verso il tredicesimo secolo, e ci ritroviamo in arte con una miriade di madonne con bambino. Una simil “pachamama”? In un certo senso sì, ma a un livello di riflessione sulla realtà ancora superiore. La terra madre è scomparsa, scomparse sono le diverse dee, ed in loro vece è comparsa la vergine e madre. E la sua immagine racconta anch’essa una storia, che è storia di tutte le storie, assolutamente cattolica (universale). È la storia divina ed umana di cui la dottrina cristiana rende il senso con il dogma trinitario e cristologico. Il primo tratta della fecondità intima della vita divina, eterno rinnovarsi del dono di sé di una prima persona a una seconda, eternamente rigenerata nel suo rendere grazie; il secondo tratta del contatto di questa vita divina con quella umana in Gesù Cristo. E Maria, la donna con bambino dell’iconografia? È il punto in cui si realizza il contatto, dove una donna di inesausta fecondità (sempre vergine nella sua maternità) pienamente manifesta la divina fecondità.
Non mi perito dunque dal dire che Maria riassume in maniera archetipica ogni figura di divinità femminile, perché con lei la fecondità del creato si mostra partecipe della fecondità della vita divina. Ma lo posso dire per qualche studio teologico che ho fatto, che mi ha fatto apprezzare la verità cattolica della dottrina definita dai padri della Chiesa e difesa dai grandi scolastici. Senza questa dottrina, guardata ben sappiamo da chi con suffisance, il Cristianesimo diventa poco più del culto con cui i popoli che si son detti cristiani esprimono il loro sentimento religioso.
E allora non è considerato un sacrilegio custodire gli idoletti della pachamama in una chiesa, mentre lo è il loro essere buttati nel Tevere.
Pubblicato il 11 novembre 2019
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