(O, COME DISSE PEPPONE: “CI RIVEDREMO A FILIPPO!”)
«Tu sei la mia vera e onorata moglie / cara a me come le gocce rosse / che visitano il mio triste cuore»
(Bruto a Portia II, 1 288-290)
SHAKESPEARIANA IV - Il puritanesimo in Inghilterra non l’hanno certo
scoperto Anthony Marriott e Alistair Foot, autori di uno tra i più duraturi
successi nella storia del teatro moderno inglese: “Niente Sesso Siamo
Inglesi”, commedia che è andata in scena ininterrottamente nel Westland dal
1971 al 1987, con il record di 6761 rappresentazioni consecutive.
Se ne era reso conto molto presto il vecchio teatro elisabettiano.
Lo scopo del movimento puritano era, infatti, quello di purificare
l'Inghilterra da tutte quelle forme espressive o pratiche di vita non
previste dalla lettura calvinista della Bibbia, ma soprattutto si poneva lo
scrupolo di annullare ogni compromesso con il cattolicesimo. Durante la
Guerra civile inglese le “teste rotonde” guidate da Oliver Cromwell,
presero parte alla guerra e si schierarono con i parlamentari per
sconfiggere sia re Carlo I che la “chiesa” Anglicana con la sua gerarchia.
Ad ogni modo gli stessi anglicani dovettero scendere a patti con questi
signori non esattamente famosi per sapersi godere la vita. In questo senso
interpreto quel “Bishop’s ban” (1599) con cui l’arcivescovo di Canterbury
John Whitgift e il vescovo di Londra Richard Bancroft (un nome un programma
antidistributista) mettevano all’indice tutte le satire e gli epigrammi del
regno.
Inoltre vennero ulteriormente limitati i temi di carattere storico, perché in quel frangente si temeva «l’utilizzo clandestino di quelli che sembravano argomenti irrilevanti o innocenti, sovente a imitazione di opere classiche, per infilare sottobanco del materiale ostile allo status quo» (A. Hadfield, Literature and censorship in renaissance England).
Cioè proprio quello che Shakespeare stava facendo, tanto è vero che nel suo ultimo dramma storico “Enrico V” il rientro trionfante del Re a Londra è una chiara allusione al Conte di Essex (Robert Devereux, 1566 – 1601, favorito della regina Elisabetta I) oltre che a Giulio Cesare, opera a cui stava probabilmente già lavorando. E questo secondo me è il filo rosso che lega queste due tragedie.
Inoltre vennero ulteriormente limitati i temi di carattere storico, perché in quel frangente si temeva «l’utilizzo clandestino di quelli che sembravano argomenti irrilevanti o innocenti, sovente a imitazione di opere classiche, per infilare sottobanco del materiale ostile allo status quo» (A. Hadfield, Literature and censorship in renaissance England).
Cioè proprio quello che Shakespeare stava facendo, tanto è vero che nel suo ultimo dramma storico “Enrico V” il rientro trionfante del Re a Londra è una chiara allusione al Conte di Essex (Robert Devereux, 1566 – 1601, favorito della regina Elisabetta I) oltre che a Giulio Cesare, opera a cui stava probabilmente già lavorando. E questo secondo me è il filo rosso che lega queste due tragedie.
Nel 1601 Essex organizzò una rivolta antimonarchica. Arrestato e processato
per alto tradimento, fu condannato a morte per decapitazione. Poiché la
bisnonna Maria Bolena era sorella di Anna Bolena (seconda moglie di Enrico
VIII) madre della regina Elisabetta “la sanguinaria”, tutto avvenne in
famiglia. Ad ogni buon conto, a seguito della “congiura di Essex” nel 1601
venne vietata ogni rappresentazione teatrale riguardante tradimenti e
congiure.
Nel frattempo, però, il “Giulio Cesare” era andato in scena al Globe nel
1599, per certo il 21 settembre, e lo sappiamo perché lo racconta un
visitatore svizzero sul suo taccuino. Ora, la figura di Cesare genera
sempre discussioni in campo intellettuale fra simpatizzanti e tirannicidi,
il sedicesimo secolo non ne fu esente, ma per Shakespeare il recupero del
tema è un modo per aggirare il Ban.
L’uccisione di Cesare è l’atto di sovversione più celebre della storia
antica e il più conosciuto anche dal popolo. Allora, come oggi, nelle
taverne difficile si parlasse di Armodio e Aristogitone.
Ora, se la tragedia è un’allegoria del regime elisabettiano, non posso
negare sin dalla comparsa in scena di Bruto, una sola domanda galleggia
ondeggiando come un suono di gong nella mia mente, ed è sempre la stessa:
da che parte sta Shakespeare?
La fonte di Shakespeare, come è noto, è Plutarco, la cui opera era appena
stata pubblicata nel 1579.
Il parallelo fra antichi Romani e Inglesi è evidente e assodato, almeno per
l’aristocrazia dell’epoca. Si tratta di individuare la figura di Cesare
come incarnazione del regime precedente (precedente lo scisma), non è
certamente scevro da difetti, ma tutto sommato è amato dal popolo e ciò si
evince dalle prime scene. «E ora spargete fiori sul cammino di colui che
viene in trionfo sul sangue di Pompeo?» (I, 1, 150-151).
La figura più controversa è quella di Bruto. Il bardo dell’Avon gli
riconosce una buona dose di nobiltà d’animo, una certa purezza in qualche
modo inattesa, ad esempio nella determinazione a salvare Antonio, che
invece Cassio vorrebbe morto. Anzi, quella di Bruto è la prima figura di
«eroe tragico del teatro inglese che abbia una vita interiore
significativa» (Julius Caesar, D. Daniell, Arden, 1998). Il suo conflitto
interiore è drammatico, è un uomo onesto che si dibatte fra l’amore sincero
nei confronti di colui cui deve tutto e l’amore appassionato per la propria
Patria, che vede in pericolo, perché la concepisce unicamente come
Repubblica: «io non ho alcuna ragione personale per avversarlo: è solo per
il bene generale» (II, 1, 10-12). Semplicemente non vuole Cesare re: «non
lo vorrei, Cassio: eppure io lo amo» (I, 1, 282). Bruto è combattuto fra
amore e onore: «poni l’onore in un occhio e la morte nell’altro» (I, 2,
85-86). D’altra parte come dice Chesterton nella propria autobiografia: «se
un uomo fosse disposto a fare a pezzi tutte le statue di Giulio Cesare, ma
pronto a baciare il pugnale che lo uccise, come ardente ammiratore di
Cesare non potrebbe che essere frainteso».
Nessuno si attendeva il tradimento di Bruto, diverso il discorso per quanto
riguarda Cassio che nutre una ricambiata avversione personale nei confronti
di Cesare. Ma i congiurati hanno un bisogno vitale di Bruto perché «lui sta
in alto in tutti i cuori del popolo, e ciò che in noi apparirebbe reato, il
suo contegno, come la più preziosa alchimia, lo trasformerà in valore
virtù» (I, 3, 157-160). Bruto stesso sa di non aver prove riguardo alle
mire monarchiche cesariane, ma si aggrega all’ultimo momento nel timore di
un possibile abuso di quella grandezza, fenomeno politico che «avviene
quando si disgiunge pietà dal potere» (II, 1, 18-19). In pratica una sorta
di “rapporto di minoranza” togato. Inoltre si rifiuta di giurare, al
patrizio basta «l’onestà con l’onestà impegnata» dicendo: «giurino i preti,
i codardi e gli uomini prudenti…» (II, 1, 129). E con queste parole messe
in bocca a Bruto, mi conferma l’idea che sia la trasposizione drammaturgica
del Conte di Essex. Shakespeare era in qualche modo a conoscenza del
complotto? Cassio invece è il simbolo della setta puritana. Pare che il
dramma possa in qualche modo esser letto secondo una doppia chiave di
lettura: una che riconduce alla cronaca contemporanea della lotta politica
all’interno dell’Inghilterra protestante, compresi i tumulti puritani. La
seconda, al contempo, segue il piano delle rivendicazioni “ricusanti” dei
cattolici, come Shakespeare, oppressi dal regime Elisabettiano. Cesare,
dunque, ora è Elizabeth, ora il simbolo di un sistema vecchio di
millecinquecento anni, la Chiesa papista. Come se, non essendo possibile
restaurare il vecchio ordine cattolico, si auspicasse quanto meno un
monarca più ben disposto.
L’esecuzione di Cesare per i congiurati è una sorta di sacrificio agli dèi:
sono «sacrificatori non macellai». Soprattutto Bruto vuole che non ci sia
odio, perché non vuole trattare il corpo di Cesare «come una carcassa data
ai cani» (altro concetto dell’etica classica cfr. Tirteo). Anche il luogo
mostra tutta la sua portata simbolica, tanto che, a lavoro fatto, la statua
di Pompeo suda sangue, di Cesare.
Nessuno dubita dell’onore di Bruto, che è talmente corretto da permettere
ad Antonio di parlare dai rostra per fare anch’egli un’orazione funebre,
con la quale fa cambiare parere alla plebe di Roma. Che i plebei siano
ragionevoli come un plotone d’esecuzione lo sa bene il poeta Cinna. Antonio
ripete ossessivamente e, fra le righe, sarcasticamente che Bruto è
certamente un uomo d’onore, ma facendo leva sui sentimenti della plebe si
dimostra essere un giocoliere della parola – come del resto lo stesso
autore inglese – facendo cambiare orientamento alla folla, che, ormai
inferocita, fa a pezzi il povero poeta Cinna, innocente quanto presente. Da
notare che è la stessa fine che i protestanti facevano fare ai cattolici,
ritenuti in quanto tali traditori.
Al “dittatore” Cesare devo il mio concetto di “liberale”, (<
liberalitas), che è diverso da quanto si intenda comunemente - e in ogni
caso non c’entra nulla col liberismo. Dopo il trionfo del 46 a.C. Cesare
aveva donato sì in maniera interessata per garantirsi la lealtà dei suoi e
per riconciliarsi gli ex nemici, ma aveva anche ordinato pubbliche
distribuzioni di denaro, sale, pane, olio e giochi (congiaria) aperte ai
cittadini di qualsiasi ordine, servi e liberti inclusi; quanto ai senatori,
aveva condonato i loro debiti (cfr. Svetonio) e ciò non detta scandalo
nemmeno per Cicerone (De Officiis). Essere liberale non è, in nuce, una
categoria politica, vuol dire per me avere il diritto e il potere di fare
tutto ciò che non è espressamente vietato, farlo o no, non importa. Il
liberale cesariano è una novità della storia antica, è un magnanimo
salvatore delle forme esteriori. Non stupisce l’affinità con lo spirito
britannico. Al liberale Cesare, colui che aveva perdonato i pompeiani, si
sostituirà un triumvirato molto meno misericordioso, infine sintetizzato da
un tanto gracile Ottaviano quanto perentorio Augusto, che si presenta
subito affermando: «Non sono nato per morire sulla spada di Bruto» (V, 1,
58).
Il fantasma di Cesare appare così a Bruto - come appare la Storia alla
mente - dicendogli sotto un fatale baldacchino di corvi che si rivedranno a
Filippi, città macedone, nella quale come tutti sapevano fu fondata la
prima chiesa (cattolica) in Europa.
Bruto si dà la morte nel modo onorevole degli antichi pagani, come Aiace,
gettandosi sulla propria spada. La virtus, d’altra parte, gli viene
riconosciuta perfino da Marcantonio: «Questo era il più nobile di tutti i
Romani», perché non ha agito per odio ma per amore della Patria. Ottaviano
gli conferirà addirittura l’onore dei “funerali di Stato”: «Trattiamolo
secondo la sua virtù» (V, 5).
Come per Cinna anche la morte di Cassio avviene a causa di un equivoco.
Tutta la tragedia è una tragedia degli equivoci. E qui è fondamentale il
trattato di Elisabetta Sala, perché molto si potrebbe parlare di
”aequivocatio” gesuitica. Ma quella è un’altra tragedia.
E si ricomincia da capo. Dove il ciabattino, in apertura dell’opera, fa un
lavoro con la coscienza tranquilla, infatti ripara “bad soles”, abile gioco
di parole per l’assonanza con “souls” anime.
Davvero la tragedia cura le anime.

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