25 giugno 2017

Perché Carl Schmitt è ancora attuale. Spunti dall’ultimo saggio di Fabrizio Grasso

di Alessandro Rico

È indubbiamente ambizioso lo scopo che si prefigge Fabrizio Grasso nel suo saggio Archeologia del concetto di politico in Carl Schmitt (Mimesis, 80 pp., 10 euro). Il concetto di politico è uno dei nodi cruciali della riflessione del giurista tedesco, una nozione complessa e articolata, quasi sfuggevole, tanto da aver stimolato sia interpretazioni “di destra” che rielaborazioni “di sinistra”, in particolare da parte della sinistra radicale (si pensi a Chantal Mouffe).

Al netto di qualche farraginosità stilistica, provocata forse dalla necessità di sintetizzare in relativamente poche pagine una miriade di argomenti, il libro di Grasso offre diversi spunti di riflessione interessanti, a partire dalla minuziosa ricostruzione degli argomenti schmittiani di Cattolicesimo romano e forma politica. Gradualmente, Grasso ci accompagna nell’esplorazione di uno degli scritti più densi e ostici di Schmitt, dove magistralmente il giurista tedesco mostra in cosa risieda la grandezza della Chiesa cattolica, quella che le attira l’ostilità del pensiero secolarizzato, di natura tecnico-economica: la complexio oppositorum, la sua capacità di agganciarsi a questo o quel partito con un apparentemente cinico situazionismo, rimanendo però sempre superiore alle contingenze storiche, sopravvivendo cioè alla scomparsa dei contendenti che di volta in volta si avvicendano, a ciò nel mondo è transeunte.

La Chiesa è vero repositorio della potenza politica che scaturisce dal suo essere rappresentazione, cioè presenza dell’assente, non nel senso astratto, economicistico, di “riproduzione”, ma nella concretezza della successione apostolica, che riattualizza la persona storica e la figura teologica di Cristo. Un’irruzione della trascendenza nella storia di cui né il capitalismo né il comunismo sono capaci di portare il peso, chiusi in un materialismo che li rende incapaci di accogliere in sé la vertigine del politico.

Ma cos’è il politico? Come noto, per Schmitt «la distinzione specificamente politica cui si possono ricondurre le azioni e i moventi politici è la distinzione tra amico e nemico» ( Le categorie del politico). In sostanza, è politica ogni contrapposizione che le parti confliggenti siano disposte a spingere, almeno in teoria, fino all’eliminazione fisica dell’avversario; la dinamica dell’aggregazione politica, il momento dell’«amicizia», ha dunque bisogno dell’esistenza di un nemico. Come egli scrive in uno dei saggi contenuti nel Nomos della terra, quasi prefigurando certi sviluppi del cinema fantascientifico, un’unità della terra sancirebbe la scomparsa della politica, a meno che quell’unità non scaturisse dalla comparsa di un nemico alieno.

Grasso riflette su una delle aporie del concetto del politico schmittiano: il fatto che il giurista tedesco sembri arrendersi alla deriva nichilistica del pensiero postmoderno, rifiutandosi di cercare un fondamento metafisico del politico. Ciò che determina il contenuto di un’aggregazione politica è il frutto di una decisione, dell’atto assolutamente arbitrario di una volontà (forse weberianamente «carismatica») che istituisce un ordinamento, che imprime una frattura (de-cide) nel disordine dello stato d’eccezione e perciò rivendica la propria sovranità. Da questo punto di vista, la scoperta di Schmitt è sconcertante: è la scoperta dell’«abisso della politica e del ‘politico’ che è l’uomo deteologizzato che fonda su una decisione arbitraria il suo cosmo» (Grasso, p. 76). In ciò, Schmitt appare molto influenzato dalla filosofia politica moderna, da Hobbes a Rousseau, anche se i suoi punti di riferimento rimangono proprio quei pensatori reazionari, da de Maistre a Bonald a Donoso Cortés, che per l’appunto «reagiscono» al repertorio ideologico della Rivoluzione francese. Forse a riprova del fatto che una rivoluzione, una volta innescata, non può essere soppressa e ignorata; e che più che una rivoluzione al contrario, bisogna realizzare il contrario della rivoluzione (de Maistre). 

Il concetto di politico – ed è questa la riflessione che manca nel saggio di Grasso – ci fornisce però anche una penetrante chiave di lettura del liberalismo progressista che oggi rappresenta il credo ufficiale delle élite globali. L’essenza del pensiero unico dominante è proprio quella “neutralizzazione”, trascinata dall’egemonia dell’economico, che punta allo stemperamento di tutte le contrapposizioni genuinamente politiche, ma di fatto reintroduce surrettiziamente il politico nella forma di una subdola tirannia. Lo dimostra il mantra dell’inevitabilità della globalizzazione, esempio paradigmatico della sostituzione dell’arbitrarietà, che è anche libertà formativa, del politico, con la razionalità interna alla tecnica e all’economica. Lo dimostra l’uso del politicamente corretto, che dietro il velo della tolleranza universale nasconde il tentativo di sopprimere i punti di vista concorrenti, privandoli però della dignità del conflitto.

E a un livello ben più tragico, lo dimostra quello che è il nucleo del diritto internazionale riscritto dagli americani dopo la Seconda Guerra Mondiale: l’abolizione della contrapposizione agonale tra potenze concorrenti, come nello ius publicum europaeum, in favore della costituzione di una super-potenza moraleggiante con ambizioni di polizia planetaria. Ma dal nemico relativo del vecchio diritto internazionale, si è passati al nemico assoluto, al fuorilegge per eccellenza che nell’orizzonte di Schmitt è ancora il partigiano (il combattente irregolare dalla Cina maoista al Vietnam), e che ormai collide con la figura del terrorista. Un’involuzione che sempre più proietta sulle nostre società lo spettro di una guerra assoluta, totale e onnipervasiva. Carl Schmitt non è mai stato così attuale.  

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