di Alessandro Rico
Il referendum sulle nozze
gay o “egualitarie”, come le ha biecamente definite il Corsera,
segna un’altra tappa del declino della civiltà europea, salutato
incredibilmente con gaudio esiziale dagli estensori del pensiero
unico. Lanciarsi qui in un’altra denuncia degli abomini
dell’ideologia gender sarebbe forse inopportuno, mentre si
collezionano sconfitte. Quella che vorrei proporre, allora, è una
strategia di sopravvivenza in questi tempi duri.
Noi cristiani sappiamo
due cose per certo: come tutto è cominciato (la storia della
salvezza narrata dalle Scritture) e come tutto andrà a finire (la
seconda venuta di Cristo). Quel che accade nel mezzo, sebbene
sottilmente guidato dal filo della Provvidenza, è il regno della
libertà umana, che come sapeva bene Agostino può essere messa al
servizio di Babilonia o della Città di Dio. Questa consapevolezza
non deve produrre due opposti eccessi: né una sorta di fideismo
inerte, né un irredimibile pessimismo storico. Il bello di Gesù è
che ci ha dato la soluzione in anticipo, annunciandoci le
tribolazioni ma suggerendoci anche la condotta: «Ecco, io vi mando
come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e
semplici come le colombe» (Mt 10, 16). La vita da testimoni non è
una passeggiata di piacere, soprattutto perché i cristiani non si
limitano a dichiarare la Verità, usandola come strumento di offesa
(come piace tanto al demonio, non a caso Grande Accusatore), ma ne
fanno via di correzione e redenzione, attraverso la Carità. È
questo che il mondo non può perdonarci: amare senza bisogno di
negare la realtà, come fanno gli “amori” abortiti che, non
riconoscendo il peccato, hanno ingrigito anche la bellezza. Senza
costituirsi in sette fondamentaliste e senza l’arrendevolezza del
cattolico “adulto”, che come tanti adulti confonde la maturità
con la disperazione, si tratta di essere “semplici”, ossia
candidi, saldi, coerenti, per dimostrare che si può vivere come
propone il Vangelo, ma anche circospetti, perché la trasparenza da
sola si espone alle imboscate degli avversari scaltri. Anche se in
questo mondo siamo destinati a vedere frustrata la nostra «buona
battaglia», anche se nella storia le due città agostiniane si
trovano sempre mescolate, non siamo chiamati che a rendere
testimonianza di una vittoria che Cristo ha già conseguito per noi:
«Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono
senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono
sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio» (At
20, 27), dice San Paolo agli Efesini nel momento in cui si congeda da
loro.
Certo, non si può fare a
meno di deplorare che questo Vecchio Continente, terra di elezione di
una prospera cultura giuridica, filosofica, artistica, sia eroso da
una triste rovina che se da un lato, nel classico rivolgimento che
caratterizza le vicende del cristianesimo, apre nuovi orizzonti ad
Asia, Africa e Sud America, dall’altro lascia un profondo vuoto
proprio in quelle conquiste di civiltà che questi altri mondi non
hanno mai eguagliato. Ma quante volte i cristiani hanno avuto il
senso che tutto stesse per finire? Durante le persecuzioni dei
romani, poi al crollo dell’Impero d’Occidente, al tempo delle
scorribande di Arabi e Ottomani, poi ancora con la Rivoluzione
francese o il Risorgimento, le guerre mondiali e il comunismo
sovietico. Tutto sommato, per parafrasare una canzone, noi siamo
ancora qua. Non significa che tutto vada bene e che non siamo di
fronte a una delle più subdole e per questo una delle più
minacciose offensive contro la fede; ma ancor più conta lo star
saldi, conta l’opporre l’esempio e le ragioni a un’epoca che
prima o poi, forse troppo tardi, sarà costretta ad ammettere a se
stessa i suoi errori. Nel passo di Matteo che citavo sopra, c’è
una conclusione che non nascondendo le future sofferenze, trasmette
anche uno straordinario conforto: «E sarete
odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla
fine sarà salvato». Se Gesù ha già vinto tutto questo male,
sforziamoci di donare la nostra vita perché gli uomini non rovinino
troppo il suo capolavoro. Al termine della sesta epoca della storia,
che significativamente per Agostino comincia con l’Incarnazione e
finisce solo con l’Apocalisse, ci sarà «il nostro sabato,
la cui fine non sarà un tramonto, ma il giorno del Signore, quasi
ottavo dell’eternità, che è stato reso sacro dalla Risurrezione
di Cristo perché è allegoria profetica dell’eterno riposo non
solo dello spirito ma anche del corpo. Lì riposeremo e vedremo,
vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. Ecco quel che si avrà senza
fine alla fine. Infatti quale altro sarà il nostro fine, che
giungere al regno che non avrà fine?».
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