di Alessandro Rico
Ben 300 anni fa, il 28 giugno 1712 nasceva a
Ginevra Jean-Jacques Rousseau, che considero, forse ingenerosamente, uno dei
peggiori pensatori politici della modernità. Mi limito qui a considerare tre
aspetti particolarmente significativi della sua riflessione, dei quali penso
tutto il male possibile.
In primo luogo, il pregiudizio per cui la ricchezza deriverebbe essenzialmente da un’usurpazione. Sin dal Discorso sull’ineguaglianza si evince l’ostilità di Rousseau nei confronti dell’economia borghese, fondata sul commercio e sulla produzione/accumulazione di ricchezza. Come Locke, egli propende per un’origine individualistica della proprietà privata, ma ritiene che il suo riconoscimento renda necessario un vero e proprio colpo di mano: poiché non ci sono motivi validi per giustificare il possesso, i ricchi devono difenderlo attraverso il «patto iniquo». Prima manifestazione della società politica, esso normalizza la proprietà e cristallizza le relazioni tra abbienti e indigenti, come soggezione dei molti schiavi ai pochi padroni.
Il
rifiuto del capitalismo è chiaramente basato su un ingenuo pregiudizio: l’idea
che non sia possibile generare sempre nuova ricchezza, ma solo distribuire le
risorse esistenti.
Ciò fa di quello economico, un gioco a somma zero; così, se uno ha di più, è
perché l’ha sottratto a qualcun altro. Non a caso Rousseau accorda la sua
preferenza a un modello di società arcaica, in cui prevalga la piccola
proprietà terriera e si diffondano frugalità e spirito patriottico: Sparta è in
questo senso l’idealtipo politico rousseauiano.
In secondo luogo, la configurazione illiberale del «contratto
sociale», pensato nei termini di una «alienazione totale di ciascun associato
con tutti i suoi diritti a tutta la comunità». Si tratta, per il Ginevrino,
di una condizione che, essendo uguale per tutti, nessuno può rendere onerosa
agli altri; inoltre, poiché ognuno cede tutti i propri diritti, non c’è alcuno
che possa accampare pretese di supremazia; e soprattutto, «ciascuno dandosi a
tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato, nessuno escluso, si
acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna
l’equivalente di tutto ciò che si perde e un aumento di forza per conservare
ciò che si ha». Tre «garanzie» illusorie, come già sottolineò Benjamin Constant.
Non è vero, infatti, che dandosi a tutti non ci si dà a nessuno, perché nel
momento in cui bisogna procedere all’organizzazione del governo, necessariamente
questo potere illimitato va delegato a qualcuno. E allora, quel qualcuno può
avere eccome interesse a rendere onerosa questa condizione per gli altri.
Rousseau, che qui è decisamente hobbesiano, sembra non avere la consapevolezza
di ciò che a Locke era invece cristallino: il «contratto» mediante cui gli
individui costituiscono la società politica deve prevedere la conservazione
per se stessi di tutti i diritti, meno che quello a farsi giustizia da soli. Il
commonwealth, la salute comune, in quanto tale sorge per impedire agli uomini di
danneggiarsi, non per opprimerli – magari nell’illusione di liberarli.
Infine, il cruciale e problematico concetto di «volontà generale», uno degli
elementi più marcatamente tirannici dell’edificio politico rousseauiano. La
volontà generale non è la volontà della maggioranza, piuttosto l’espressione
dell’io razionale del corpo politico, che, anzi, spesso è offuscata
dall’emergere dei particolarismi. Si vede come Rousseau liquidi la questione
dei corpi intermedi, delle libere associazioni, o semplicemente
dell’individualità: qualunque discostamento dalla suprema unità del corpo
politico va biasimato e combattuto – esattamente l’opposto di quel che
sosteneva Montesquieu nello Spirito delle
leggi.
Per ovviare agli ostacoli nel
processo della sua affermazione, la volontà generale si affida al «legislatore»,
figura dai risvolti mistici, che nel suo utopismo assesta un colpo micidiale
alla concretezza delle architetture istituzionali liberali, come la
montesquieuviana teoria della separazione dei poteri – non stupisce che, al
contrario, per il Ginevrino la sovranità sia inalienabile e indivisibile.
Ma ciò che lascia più perplessi è
il capitolo sui «limiti del potere sovrano»: di nuovo, limiti fittizi. È vero
che per Rousseau «quanto, col patto sociale, ciascuno aliena del proprio
potere, dei propri beni, della propria libertà, è solo la parte di tutto ciò il
cui uso importa alla comunità», però subito dopo egli stabilisce che «solo il
sovrano è giudice di questa importanza». Un insulto all’intelligenza: il Souverain rimane arbitrio persino dei
diritti che sarebbe lecito conservare.
Rousseau è stato variamente
interpretato come pensatore totalitario (Talmon), apostata della modernità
(Bedeschi), teorico di una democrazia «radicale», impegnato a decostruire il
modello giusnaturalista borghese a partire dai suoi stessi strumenti
concettuali – Hegel gli rimprovererà proprio di aver conferito un fondamento
individualistico (il contratto) allo Stato razionale, realtà ideale assoluta.
Basterebbe
forse interrogare la Storia
e individuare le filiazioni intellettuali del Ginevrino: Robespierre,
protagonista del Terrore giacobino; il giovane Marx, che comunque maneggiò le
sue opere con scarsa cura filologica. D’altronde
Rousseau è sembrato sempre del tutto incosciente dei pericoli che si annidavano
nella sua stessa dottrina. Il Ginevrino è, insomma, uno di quegli autori
che va letto, perché ci si possa difendere dalla seduzione che esercita. Della
serie: se li conosci li eviti.
Pubblicato il 26 giugno 2012
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Il suo pensiero politico non è forse influenzato anche dal suo pensiero filosofico, il sensismo, secondo cui l'uomo nasce buono per natura ma poi "incattivisce" con la civiltà?
RispondiEliminaOttima osservazione, Riccardo. Peraltro era uno che predicava bene nelle sue opere sulla pedagogia e razzolava malissimo, visto che tutti i suoi cinque figli vennero abbandonati alla ruota di Parigi.
RispondiEliminaMolto interessante!
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