di Paolo Maria Filipazzi
Fare necrologi orrendi è un lavoro duro ma qualcuno lo deve pur fare. E’ uno degli aspetti più sgradevoli e sgraditi del dovere di dire la Verità…
Eccoci, dunque, a parlare del defunto Eugenio Scalfari.
Nel 1943 il giovane Eugenio è fascista, milita nei GUF e scrive sul giornale Roma Fascista alcuni articoli in cui denuncia speculazioni da parte di alcuni gerarchi sulla costruzione del quartiere dell’ EUR. Il vice segretario del PNF, Carlo Scorza, intenzionato a perseguire gli illeciti, vuole parlare con lui e gli chiede più informazioni. Il Nostro risponde di non avere in mano nulla e di avere scritto per sentito dire. Scorza lo prende a schiaffi e gli strappa le mostrine. Scalfari viene espulso dal PNF e dai GUF.
Rimasto nascosto per tutta la guerra civile, riemerge nel 1945 prendendo contatti con il Partito Liberale Italiano e nel 1946 vota per la Monarchia. 70 anni dopo spiegherà: “Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano”. Da quel momento l’avversione alla Chiesa sarà il vero filo conduttore di tutto il suo operato.
Inizia a scrivere su Il Mondo di Mario Panunzio e L’Europeo di Arrigo Benedetti: siamo nell’ ambito di quel pensiero “liberalsocialista” o azionista che rappresenta la punta avanzata del laicismo, avversa non solo al cattolicesimo ma a tutto ciò che assomiglia alla religione. In campo politico, questo si traduce nell’avversione non solo alla Democrazia Cristiana, ma a tutti i “partiti chiesa”, a partire dallo stesso Partito Comunista Italiano.
Nel 1955 Scalfari prende quindi parte alla fondazione del Partito Radicale ma, soprattutto, del settimanale L’Espresso. La nascita di questa testata segna l’esordio di un nuovo modo di intendere il giornalismo: lo scopo non è più fare informazione ma perseguire obiettivi politici.
Un esempio di questo sarà, nel 1967 l’inchiesta giornalistica sul cosiddetto “Piano Solo”, vale a dire una macchinazione che, a detta di Scalfari, sarebbe stata ordita tre anni prima dal comandante dell’ Arma dei Carabinieri, Giovanni De Lorenzo, per attuare un colpo di stato militare al fine di impedire la nascita del secondo governo Moro, a partecipazione socialista. La cosa non ha senso, dato che il centro-sinistra è visto di buon occhio da Casa Bianca e Vaticano, in quanto considerato utile per isolare il PCI e, infatti, in seguito, un’inchiesta parlamentare escluderà ogni scenario golpista. L’obiettivo di Scalfari, in realtà, è intromettersi nella dialettica interna alla Dc screditando la corrente dorotea, più conservatrice, che avversa le aperture a sinistra.
Inseguito da una denuncia per diffamazione, nel 1968 Scalfari si candida e viene eletto alla Camera dei deputati nelle file, ovviamente, del Partito Socialista, che in tal modo gli ricambia il favore permettendogli di beneficiare dell’immunità parlamentare.
Tornerà al giornalismo nel 1976 per fondare Repubblica, la creatura con la quale potrà finalmente perseguire al meglio i suoi piani, il “giornale partito” che sviluppa una propria linea e riesce a imporla grazie all’abilità di manovra del proprio direttore.
Il target è la borghesia ipercapitalista e quindi individualista, progressista e snob, che non si può certo riconoscere nella Destra ma cui, al tempo stesso, non può che stare stretta la retorica operaista de l’Unità. Il successo è travolgente: leggere Repubblica significa essere cool, per il professionista e l’imprenditore è sinonimo di essere ben inseriti, per il piccolo borghese con diploma, posto da impiegato e moglie casalinga vuol dire potersi dare un tono da persona istruita. Il gioco è facile: basta bersi tutto quello che passa su Repubblica e ripeterlo nelle proprie conversazioni.
Con questo potere immenso, che non gli sarebbe derivato da nessun ruolo politico, Scalfari porta avanti la propria agenda. Il suo modello è quello di un superamento della classe politica tradizionale e la sua sostituzione con una nuova elite finanziaria di tecnici cosmopoliti rispetto a cui i politici siano solo esecutori di ordini. Eccolo quindi sostenere (e influenzare) Berlinguer nel porre la “questione morale” e nel fondare l’ Eurocomunismo, facendo slittare il PCI dal marxismo classico ad una nuova forma di progressismo il cui obiettivo non è l’emancipazione dei lavoratori ma l’affermazione dei “diritti civili”.
Nel mentre Repubblica diventa praticamente anche l’organo di stampa di Ciriaco De Mita, che pensa di servirsene nella lotta interna contro Andreotti e in quella esterna contro Craxi, quest’ultimo anche bestia nera dei comunisti. In realtà è Scalfari che muove le pedine: se il sostegno alla sinistra DC è necessario per garantirne la contiguità al PCI (e il progressivo dissolversi tanto del cattolicesimo che del marxismo), la lotta accanita contro Craxi è la lotta ad una leadership politica forte che non può che cozzare con la visione tecnocratica.
E’ Repubblica a fare da apripista alla violentissima campagna che accompagna Tangentopoli, per poi proseguire la guerra contro Craxi, senza soluzione di continuità, nella guerra contro Berlusconi. Non a caso nel 1998 entra in redazione un certo Marco Travaglio, da tre anni senza fissa dimora dopo il naufragio de la Voce di Montanelli. Nel 2001 un Travaglio ancora sconosciuto presenta il suo nuovo pamphlet antiberlusconiano L’odore dei soldi alla trasmissione di Rai 2 Satyricon, condotta da Daniele Luttazzi. Il seguito lo sappiamo.
Anche se Travaglio poi navigherà verso altri lidi, la nascita del suo personaggio e della sua metodica demonizzatrice si deve a Scalfari, e del resto negli anni successivi Repubblica non sarà seconda a nessuno in una guerra personale spietata, che non attacca Berlusconi per le sue idee, ma cerca di annientare l’uomo, spingendosi fino a scavare nella sua vita privata.
Del resto, la caduta di Berlusconi, nel 2011, segna, finalmente, la nascita della tecnocrazia che Scalfari tanto aveva agognato.
Ovviamente, Scalfari e Repubblica non possono che essere fieri avversari di Giovanni Paolo II e del cardinal Ratzinger, poi Benedetto XVI, ma Scalfari sa che non è sufficiente la contestazione frontale. Ecco quindi l’adulazione per il cardinal Martini, lo spazio dato a Vito Mancuso e, dulcis in fundo, le farneticanti interviste a papa Francesco. I diretti interessati, solleticati nella vanità, entrano estasiati nella cerchia dei pensatori da salotto. Il prete di campagna con qualche difficoltà a controbattere agli atei del paese, ha finalmente argomenti. L’impiegato e la moglie casalinga “che vanno in chiesa”, possono finalmente dire al conoscente “hai visto?”. E tutto ciò che, all’interno della Chiesa e del mondo cattolico tende alla dissoluzione di questi ultimi, vince…
Sulla Bussola quotidiana, Eugenio Capozzi scrive : “ Gli va però riconosciuto, anche da parte di chi lo ha sempre avversato , di aver spesso saputo leggere in anticipo le svolte della storia, sfruttandole con grande capacità per costruire consenso intorno ai suoi disegni. Capacità che mancano totalmente ai suoi pallidi eredi, ridotti a un conformismo avvilente e servile, non più mefistofelici manovratori ma passivi strumenti manovrati dall'alto.” . A nostro avviso, però, anche il patetico stato del giornalismo italiano è diretta eredità di Scalfari: una volta affermato il predominio delle èlites finanziarie sulla politica servendosi del giornalismo, a quest’ultimo non resta altro che farsi servo sciocco di quelle stesse èlites. E’ il suicidio della Rivoluzione, baby…
0 commenti :
Posta un commento