di Paolo Maria Filipazzi
E’ morto Ciriaco De Mita. Riposi in pace.
Potremmo anche chiudere qui il necrologio. De Mita, infatti, tutto ha fatto nella vita fuorché suscitare in noi qualche entusiasmo. In primis, perché siamo cattolici ma certo non democristiani, e non solo per banali ragioni anagrafiche, ma per motivi culturali e politici. E non nascondiamo che fra i personaggi del Novecento italiano, quelli che più apprezziamo sono quasi sempre non democristiani. Per esempio, a noi piace molto di più Craxi e qualunque cultore della Prima Repubblica avvertirà immediatamente quanto forte sia una simile presa di posizione inserita all’interno di un necrologio di De Mita…
Se poi dovessimo proprio scegliere all’interno della Dc, ce ne sono diversi che passano nettamente davanti al Nostro, al quale mancavano l’odor di santità di De Gasperi, l’aura shakespeariana di Andreotti, la visione politica e lo spessore culturale di Fanfani, la tragicità del fato avverso di Moro.
La sera della sua dipartita, più o meno tutti i telegiornali hanno sciorinato la solita manfrina di quando muore un vegliardo democristiano: la definizione di statista, l’elogio della sua cultura, la citazione di qualche frase “spiritosa” (o presentata come tale) a sottolinearne la fine arguzia, l’amarcord della classe politica “di una volta” tanto superiore a quella attuale (almeno questo è vero, ma allora Tangentopoli…).
A rompere il coro, Piero Sansonetti, ospite al TG 4, ha così dichiarato: “Quando muore una persona, un grande personaggio come De Mita, se ne parla bene. Io non ho una grande idea di De Mita, invece. Io penso che non è stato un grande statista. E’ stato statista, è stato politico in un periodo molto difficile in cui era circondato da giganti. Fanfani è stato un grande statista riformista. Moro è stato un grande statista conservatore. Craxi aveva un’idea fortissima in mente: quella di liberalizzare l’Italia. Berlinguer aveva una grande idea: quella di rendere l’Italia più giusta e più uguale. De Mita aveva il “patto della staffetta”, che non è un’idea geniale, è “politica politica”. Nella “politica politica” era bravissimo, forse era il più bravo di tutti, ma in quel periodo la politica non era quella di oggi: era una politica di idee, di valori, di principi, di progetti, di visione. Lui lì ha perso. Era fortissimo nella tattica ma mancava di visione, mancava di progetto per l’Italia. Poi c’è chi ha vinto e chi ha perduto, chi è riuscito a realizzare le sue riforme e chi non c’è riuscito. Moro è stato ucciso dalle Brigate Rosse. Craxi è stato schiantato dalla magistratura e mandato in esilio. Ognuno ha avuto la sua vicenda. De Mita no, ha avuto una vicenda tranquilla ma secondo me non lascia un’enorme eredità” .
I pessimi necrologi di solito sono particolarmente meritevoli di essere letti o ascoltati, essendo quelli più veritieri. E’ quindi da qui, dal “patto della staffetta”che dobbiamo partire per il nostro necrologio che sarà, se possibile, perfino peggiore di quello di Sansonetti.
Dunque.
Ci fu in Italia un politico che aveva un disegno di enorme spessore: quello di far uscire l’Italia dalla “democrazia bloccata” imposta dalla Guerra Fredda e portarla ad un normale sistema di alternanza. Per arrivarci, riteneva che in Italia ci fosse bisogno di un forte partito socialista ancorato all’Occidente, che strappasse a quello comunista l’egemonia della sinistra e, in tal modo, potesse porre fine al monopolio democristiano, diventando riferimento credibile per coloro che fino a quel momento avevano votato Dc “turandosi il naso”, per dirla con Indro Montanelli.
Questo politico non era Ciriaco De Mita, ma Bettino Craxi. Sulla sua strada, però, Craxi incontrò De Mita.
Citiamo dall’intervita rilasciata da Claudio Martelli a il Giornale in memoria del Nostro: “Nel 1983 la Dc subì un tracollo elettorale da due milioni di voti. De Mita, che la aveva portata al voto con uno strano programma ibrido a metà tra il rigorismo thatcheriano in salsa avellinese e le aperture al Pci, era debolissimo. E, proprio per evitare di essere fregato all'interno dalle manovre dei vari Forlani, Piccoli e Donat Cattin, fu lui - con abile trasformismo - ad aprire la strada di Palazzo Chigi al Psi” . Fu così, da un gioco di correnti non proprio edificante, che nacque l’esperienza importantissima del Governo Craxi.
De Mita era, però, convinto che a metà legislatura Craxi avrebbe lasciato a lui la presidenza del Consiglio, in virtù di un presunto “patto della staffetta”. A tal proposito sempre Martelli da una versione del tutto diversa: “La staffetta è una di quelle fortunate leggende che poi diventano luogo comune. Non c'era nessun patto in carta da bollo, al massimo l'idea di ridiscuterne a un certo punto del cammino. Poi De Mita piantò la bagarre, Craxi gli rispose ma che staffetta d'Egitto e il segretario Dc aprì una surreale crisi di governo che finì con l'esecutivo elettorale di Fanfani su cui i democristiani di astennero” . E fu così che, per un’ancor meno edificante questione di rivalità personale, De Mita mandò a casa Craxi.
La rivalità con Craxi fu una costante della politica di De Mita e anche in quest’ottica va letto il “dialogo” con i comunisti, di cui De Mita non fu certo l’inventore, ma che nondimeno coltivò. Sempre Martelli: “c'era una sorta di attrazione fatale della sinistra Dc per i comunisti. Ma anche un calcolo cinico: meglio dialogare con un Pci handicappato dal fattore K e dall'ipoteca moscovita, che quindi doveva moderare le pretese, che dover fare i conti con un Psi che aveva le carte perfettamente in regola in Europa e in Occidente” .
Il quadro si fa sempre più chiaro, ma nel ricordo di Martelli, si fa strada un elemento ancora più inquietante: “Furono i suoi uomini, come Biagio Agnes alla Rai, ad aizzare le campagne denigratorie contro Craxi, usando ad esempio Beppe Grillo” . Beppe Grillo…
Ovviamente, quando arrivò la tempesta di fuoco di Tangentopoli, la sinistra Dc, e con essa De Mita, si salvò “perché era contigua al Pci”.
Dunque, De Mita fautore del compromesso cattocomunista ben oltre la caduta del muro e la fine della Dc. Quel compromesso che ci ha dato l’ Ulivo di Romano Prodi e il Partito Democratico, che hanno proseguito e compiuto quel processo di rivoluzione antropologica, segnato dalla scristianizzazione della società italiana, già denunciato da Augusto Del Noce e Pier Paolo Pasolini, processo di cui le unioni civili, il testamento biologico e chissà cos’altro in futuro rappresentano solo la punta legislativa dell’ iceberg.
Non solo: De Mita e il suo seguito all’origine della mitologia anticraxiana che darà linfa al giustizialismo più barbaro nei decenni successivi, giustizialiamo che ancora oggi non accenna a sparire. Addirittura qui si situa l’origine della carriera di fustigatore anti-politico di Beppe Grillo.
Entrambi i filoni, il cattocomunismo e l’antipolitica, non a caso, hanno marciato uniti nel portarci verso quel sistema tecnocratico, segnato dalla resa della politica, cioè della democrazia, ad una élite di tecnici apolidi e non legittimati dal consenso popolare, realizzando pienamente le previsioni di Del Noce. Quando vediamo Draghi, dovremmo pensare che è un’eredità anche di De Mita.
Il tutto come risultato non di chissà quale visione progettuale, ma di una politica tesa per lo più all’autoconservazione, al gioco delle correnti, alle rivalità personali.
Non c’è male, vero?
Ciriaco De Mita è morto. Riposi in pace.
Ma quanto era meglio Craxi…
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