di dr. Ilya Kotliar, U. Ghent; trad. dall'inglese Francesco Righini
Finora ho tratto per lo più di obbedire a precetti individuali dati ad uno specifico soggetto. Un caso particolare è invece quello delle leggi. Una legge è definita «un'ordinanza di ragione per il bene comune, fatta da colui cui la comunità è affidata, e promulgata» (I-II 1. 90 art. 4). La principale caratteristica che distingue la legge dagli altri precetti è che essa ha la forma di regole generali, che regolano una molteplicità di azioni di una molteplicità di persone nella comunità, con il fine del bene comune di quella comunità. Il bene comune non può per sua stessa natura venire posto da parte in virtù di un bene privato (I-II q. 97 art. 4 ob. 1). Una legge giusta è intesa al bene comune finale della comunità, mentre un precetto individuale del superiore è solitamente inteso ad un bene comune intermedio, o ad un bene privato, o ad alcunché che non sia affatto di per sé un bene (II-II q. 105 art. 2). Ne consegue logicamente che, per regola generale, se un precetto individuale confligge con la legge emessa dal superiore dello stesso livello, la legge deve venire preferita.
Tommaso sembra confermare questa precedenza delle leggi allorché concorda con Aristotele che «è meglio che tutte le cose siano regolate dalla legge, e non che siano lasciate alla decisione dei giudici». Le leggi generali sono migliori nel governo che i decreti individuali, poiché esse vengono prima considerate e sviluppate, talvolta dal genio di molte generazioni di vescovi, papi, monarchi, legislatori, giuristi, etc. Per di più, esse vengono considerate in una forma astratta, non influenzata da amore, odio, corruzione ed altri vizi del singolo superiore (I-II q. 95 art. 1 resp. ad ob. 2). Solo i casi individuali non coperti dalle leggi dovrebbero essere lasciati alla discrezione dei giudici (I-II q. 95 art. 1 resp. ad ob. 3).
Tommaso ha un approccio piuttosto “tradizionalista” alla produzione di leggi e al loro mutamento: la forza dell'uso è un elemento importante nella forza della legge, quindi «le umane leggi non dovrebbero mai essere cambiate, a meno che, in un modo o in un altro, il benessere comune venga compensato in proporzione all'estensione del danno inflitto in tale rispetto. Tale compensazione può sorgere o da un beneficio molto grande ed evidente che consegua dal nuovo arrangiamento, o dall'estrema urgenza di un caso» (I-II q. 97 art. 2). Così, ogni nuovo incombente nell'ufficio di legislatore, che sia un re, un vescovo o un papa, dovrebbe seguire le leggi dei suoi predecessori, piuttosto che governare sulla base del suo personale discernimento.
Inoltre, il governante stesso è vincolato dalla legge! Il supremo governante è libero dal potere coercitivo (vis coactiva) della legge, poiché nessun uomo può giudicarlo o punirlo ma soltanto Dio. E tuttavia il governante è vincolato dal potere direttivo della legge (vis directiva) con cui la legge dirige l'umano comportamento. Il governante deve adempiere alla legge sulla base della propria libera volontà, non per costrizione «debet voluntarius, non coactus, legem implere» (I-II q. 96 art. 5 resp. ad ob. 3).
Questo corrisponde esattamente alla virtù d'obbedienza, come si è visto sopra: l'obbedienza vincola una volontà libera, non una volontà forzata. Benché Tommaso non lo dica espressamente, consegue logicamente dal suo testo che un governante che violi la legge dalla quale è vincolato commette peccato di disobbedienza! Ciò può suonare controintuitivo, ma sembra confermato da Tommaso allorché questi dice che un governante è vincolato dalla legge rispetto al giudizio di Dio (I-II q. 96 art. 5 resp. ad ob. 3). Ciò diventa anche più logico se consideriamo che un governante non disobbedisce, strettamente parlando, a sé stesso, ma all'ordine e alla gerarchia divinamente istituiti, che comprendono i doveri associati all'ufficio di governante. E ciò si applica anche ai pastori della Chiesa: ne consegue che anche il papa stesso pecca allorché violi la legge canonica senza essersene prima garantito la dispensa.
La posizione di san Tommaso è applicata dalla legge canonica, sia quella a lui contemporanea che la moderna. Una decretale di papa Innocenzo II del 1204 (X.2.22.8) dispone che una lettera papale contraddicente alle norme generali della legge vada presunta falsa e da non applicare nella pratica: bisognava consultare il papa sulla sua autenticità. Il canone 21 del moderno CJC dispone che le nuove leggi debbano essere interpretate in accordo con le leggi vecchie e riconciliate con esse per quanto possibile; il canone 18 dispone che le eccezioni alla legge generale siano soggette ad interpretazione restrittiva. Secondo il canone 38 del CJC, gli atti amministrativi individuali sono inefficaci se contrari alla legge, a meno che contengano una valida clausola derogatoria; e ciò vale anche per gli atti del papa! Se un rescritto, anche papale, è basato su false informazioni, esso è invalido (can. 63). Evidentemente, se il papa conferma un documento “in forma specifica”, un giudice ecclesiastico non può decidere della validità di tale documento senza uno speciale mandato papale (can. 1405 § 2); ma anche in tale case un documento può rivelarsi essere legalmente invalido! Tutto ciò mostra esservi una forte tradizione nel diritto canonico a mantenere la forza delle leggi generali, anche contro gli atti imprudenti od opportunistici del pontefice incombente.
Ho accennato al potere di dispensa: il governante può dispensarsi dall'osservanza della legge. San Tommaso tratta anche di questo potere, in I-II q. 96 art. 6 e q. 97 art. 4. Tale potere deriva dal fatto che le leggi generali sono intese ad applicarsi ai casi tipici comunemente occorrenti nella società. E tuttavia, in talune rare situazioni, può accadere che l'applicazione delle leggi generali sia ingiusta o rechi danno al bene comune. Per esempio, nelle comunità di cacciatori, nelle quali la carne è una delle principali fonti di cibo, sarebbe ingiusto vincolare le persone all'astinenza dalla carne per lunghi periodi di tempo. In un esempio più recente, sarebbe ingiusto e contrario al bene comune vincolare i fedeli ad andare a Messa di domenica in regioni fortemente affette dalla pandemia di CoVid. In tali situazioni, il governante può dispensare dalla regola generale. Evidentemente, il legislatore può validamente dispensare anche sé stesso ed emettere precetti specifici che deroghino esplicitamente dalle regole della legge. Se i pastori garantiscono una dispensa senza sufficienti ragioni, la garantiscono illecitamente, come «un dispensatore infedele o imprudente: infedele, se non ha in vista il bene comune; imprudente, se ignora le ragioni per garantire le dispense» (I-II 1. 97 art. 64).
Ciò va posto nel conteso del diritto canonico per meglio chiarire le ragioni sufficienti ad emettere una valida dispensa. Al tempo di san Tommaso, la comune autorità in materia era la decretale Magnae devotionis di papa Innocenzo III, emessa nel 1198 (X.3.34.7). Essa disponeva che, prima di emettere una dispensa, un pastore avrebbe dovuto stabilire che essa fosse 1) giusta 2) appropriata/decente e 3) conveniente. Il moderno Codice di Diritto Canonico disponde che una dispensa richiede una giusta e ragionevole causa «iusta et rationabilis causa» (can. 90 § 1), laddove l'esigenza di “ragionevolezza” sembra includere le tradizionali “decenza” e “convenienza”. Il Codice dispone che una dispensa priva di tale causa sia illecita e, a meno che non sia emessa dal legislatore stesso, come il papa, sia anche invalida. Così, il diritto canonico sembra confermare l'approccio di san Tommaso: il legislatore agisce illecitamente e quindi pecca (contro la giustizia o contro la prudenza) con il dispensare senza una causa sufficiente. Poiché la mancanza di “giustizia” nella dispensa può significare che il precetto del pastore è ingiusto, non siamo in tale caso obbligati ad obbedire a simili precetti del pastore non canonici.
San Tommaso nota che la deviazione dalle leggi generali in casi eccezionali può avvenire non solo grazie alla dispensa del governante. Infatti, se l'applicazione letterale della legge in un raro caso particolare può causare ingiustizia o danno al bene comune, ed il caso è urgente, i giudici ordinari e persino i soggetti stessi possono deviare dalla lettera della legge in favore dell'intenzione finale del legislatore, fintantoché tale intenzione sia chiara (I-II q. 96 art. 6). Per esempio, se uno sta portando in ospedale un paziente morente con un'automobile privata, egli può disosservare le regole del traffico fintantoché ciò non crei pericolo agli altri guidatori e pedoni. Tali azioni non sono un peccato di disobbedienza e non sono nemmeno, tecnicamente, “contrarie alla legge”, quanto piuttosto “oltre la lettera della legge” «praeter verba legis», poiché non è ovviamente nell'intenzione del legislatore di lasciar morire una persona semplicemente a causa delle regole del traffico.
San Tommaso identifica addirittura una speciale virtù di «equità» od «epieikeia», che permette ai governanti, giudici, e comuni persone di applicare le leggi generali ai casi particolari e di identificare l'intenzione finale del legislatore nei casi in cui le leggi generali siano inapplicabili (II-II q. 120).
Per riassumere, un cattolico commette il peccato di disobbedienza allorché non osservi coscientemente il precetto del superiore, che sia 1) non contrario alla legge divina, 2) non di impedimento alla sua crescita nella virtù, 3) riguardante le cose che ricadono nel potere del superiore (tenendo anche conto dello status del soggetto), 4) non ingiusto rispetto al suo fine e alla sua forma, 5) con il quale il superiore compensi il soggetto del bene di cui lo priva, 6) non impossibile in alcun modo, 7) non contraddicente la legge generale, a meno che il superiore non ne dispensi validamente e lecitamente; ed egli può inoltre non osservare senza peccato le leggi generali in speciali e rari casi di emergenza purché in vista dell'obiettivo finale del legislatore.
(2 di 2 - fine)
Pubblicato il 16 gennaio 2022
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