di dr. Ilya Kotliar, U. Ghent; trad. dall'inglese Francesco Righini
Recentemente è diventata rilevante nella Chiesa la discussione circa obbedienza e disobbedienza. In che misura i fedeli sono obbligati ad obbedire ai loro pastori? Ho deciso di considerare quanto Tommaso d'Aquino dice al riguardo.
Innanzitutto intendo chiarire che il discorso si riferisce ai precetti amministrativi e disciplinari, non ai pronunciamenti magisteriali. Il “magisterium” è un concetto di sviluppo relativamente recente, che non esisteva ai tempi di san Tommaso. All'epoca le cose erano più semplici: c'erano la vera dottrina, e l'eresia. L'idea che si debba aver fiducia nella dottrina dei pastori in quanto pastori non era ancora stata sviluppata. Altrove ho spiegato cosa si intende per magistero: perlomeno, si ha magistero quando un pastore (papa o vescovo che sia) dice “la Scrittura o la Sacra Tradizione dice così, perciò dobbiamo credere/comportarci in questo o quel modo”. Non è questo il tipo di precetti di cui mi occuperò qui.
Dunque, qual è la posizione di Tommaso sulla (dis)obbedienza? Per quanto possa suonare sorprendente, potremmo chiamare la sua una posizione piuttosto liberale sotto molti aspetti.
San Tommaso vede la virtù dell'obbedienza come una parte della virtù cardinale della giustizia. Vi è un ordine e una gerarchia divinamente e naturalmente istituiti nella società: è materia di giustizia il rendere onore a coloro che sono costituiti nostri superiori in tale società, e obbedire ai loro precetti, sottomettendo la nostra volontà all'ordine divinamente istituito. Per quanto concerne l'obbedienza, Tommaso non distingue sostanzialmente fra superiori secolari ed ecclesiastici, fra papi, vescovi, abati, re, genitori, padroni: l'obbedienza loro dovuta è fondamentalmente della stessa natura, per quanto i loro poteri differiscano. Egli tratta dell'obbedire ai poteri secolari specificamente in II-II, q. 104 art. 6, ma distingue questo tema soltanto per rispondere al dubbio se i cristiani siano tenuti ad obbedire alle autorità secolari (dubbio cui risponde affermativamente). Per lui, non c'è differenza qualitativa fra l'obbedire ad un genitore, ad un ufficiale di polizia, o ad un papa.
Così come obbedienza significa voler soddisfare al precetto di un superiore, il peccato mortale di disobbedienza consiste nel non osservare (contemnere) il precetto del superiore, trattandolo con disdegno e disprezzo. Questo è molto importante: il semplice non osservare od infrangere il precetto non è disobbedienza! Essa infatti, per Tommaso, si ha soltanto quando si infrange coscientemente il precetto cui si è legati per necessità, diversamente tutti i peccati sarebbero disobbedienza, il che è assurdo (II-II, q. 105 art. 1).
Ed ancora, non tutti i precetti ci legano in modo tale che il non osservarli sia peccato di disobbedienza. Tommaso distingue a questo riguardo tre tipi di obbedienza (II-II q. 104 art. 5, resp. ad ob. 3): «i1) uno, sufficiente alla salvezza, consiste nell'obbedire quando si è tenuti ad obbedire; 2) l'obbedienza perfetta, che obbedisce in tutte le cose legali; 3) l'obbedienza indiscriminata, che obbedisce anche nelle cose illegali».
Cominciamo con l'ultima situazione, dell'obbedienza contro la legge. Innanzitutto, sono i casi in cui il comando va contro la legge divina, contro i precetti morali di Dio. In tale caso, poiché Dio è superiore ad ognuno, il suo comando ha una priorità assoluta (II-II q. 104 art. 4). Quando si è comandati a fare qualcosa anche lievemente peccaminosa, si deve disobbedire.
Ma c'è di più. L'obbedienza è meritoria solo se si sottomette liberamente il proprio volere a quello altrui, per amore di giustizia e di carità, e tuttavia ciò non supera automaticamente tutte le altre virtù. Per cui, Tommaso dice: «Vi è ciò cui siamo tenuti di necessità, per esempio amare Dio, e in nessuno modo un tale bene può venire accantonato in virtù dell'obbedienza» (II-II q. 104 art. 3 resp. ad ob. 3).
Così, se siamo tenuti ad una qualche virtù per necessità (i.e. peccheremmo mortalmente rinunciando a tale virtù), anche i comandi altrimenti obbligatori di un superiore devono essere disobbediti. Anche se il superiore non comanda direttamente di peccare, non si può obbedire al suo precetto se l'obbedienza ad esso ti impedirebbe di amare il bene ed evitare il male o di tributare al Signore il dovuto culto (e questa è una virtù preferibile a tutte le altre, II-II q. 81 art. 6), ciò infatti sarebbe d'ostacolo alla tua crescita nella virtù e nella perfezione.
Per quanto invece riguarda l'obbedienza “sufficiente per la salvezza”? Dov'è il limite fra lo stretto dovere d'obbedire e l'obbedienza supererogatoria?
Il criterio è quale potere il superiore abbia rispetto al suddito. Nessun essere umano è soggetto ad un altro in tutte le cose. Alcune, come il moto interiore della volontà, appartengono per loro natura a Dio soltanto (II-II q. 104 art. 5). Così, nessun uomo è strettamente obbligato ad obbedire a precetti sul come pensare, cosa amare etc. Per di più, nessuno è vincolato ad un altro uomo in ciò che concerne “la natura del corpo”, come il mangiare per supportare il corpo, l'avere figli, lo scegliere chi sposare o se rimanere celibe. Tuttavia, rispetto alle azioni esteriori, un uomo può essere legato all'obbedienza nei confronti del suo superiore. Un impiegato è tenuto ad obbedire al suo capo in ciò che riguarda il suo lavoro, un soldato deve obbedire al generale nella conduzione della guerra, un bambino è tenuto ad obbedire ai suoi genitori in ciò che riguardo la sua condotta e sviluppo. In queste materie, il superiore è posto fra Dio e il suddito; il suo precetto deve venire trattato come il precetto di Dio stesso! (II-II q. 104 art. 5 resp. ad ob. 2) Disprezzare un tale precetto è peccato mortale di disobbedienza.
Una questione da porsi qui è quale sia l'esatto potere amministrativo che i pastori della Chiesa, vescovi e papi, hanno su di noi. Si tratta di una grossa questione teologica, ma come ne parla san Tommaso nella sua Summa Theologiae? Ho trovato alcuni passaggi estremamente interessanti in cui Tommaso tratta di tale questione. Egli sembra toccare il tema in II-II q. 186 art. 5, dove paragona il generale dovere d'obbedienza all'obbedienza conseguente ad un voto religioso. È «comune a tutti – dice – obbedire al proprio superiore nelle materie essenziali alla virtù (ad necessitatem virtutis)» (II-II q. 186 art. 5 resp. ad ob. 1). Questa nozione di “essenziale alla virtù” rimanda al luogo in cui Tommaso parla della funzione della legge umana, di reprimere i vizi più distruttivi e creare il generale ordine teso alla crescita della virtù nella società (I-II q. 96 artt. 2-3). Si noti che il diritto canonico della Chiesa è per lo più legge umana, legislazione di pastori terreni! Così, san Tommaso sembra intendere che i pastori della Chiesa possono comandare ai fedeli e al clero secolare solo fintantoché sia necessario a disporre l'intera comunione ecclesiale alle virtù teologali e morali. Tutto ciò che superi questa minimale necessità è dunque al di là del potere dei pastori.
Per quanto riguarda i religiosi ed i monaci, che emettono un voto di obbedienza, essi donano interamente la loro vita al servizio di Dio e del prossimo, quindi la loro obbedienza ai pastori è «universale» (II-II q. 186 art. 5 resp. ad ob. 1). E tuttavia, secondo la visione di san Tommaso, anche la loro obbedienza non si estende a cose casuali, non relative alla religione e alla vita consacrata, «quali lo sfregarsi la barba, l'alzare da terra un bastone, e così via» (II-II q. 186 art. 5 resp. ad ob. 3). A maggior ragione quindi noi fedeli laici non siamo tenuti ad obbedire simili comandi casuali dei vescovi e del papa. Inoltre, i religiosi sono tenuti a disobbedire se il precetto di un pastore va contro la regola della loro professione monastica (II-II q. 104 art. 5 resp. ad ob. 3).
Consideriamo ora per confronto il moderno Codice di Diritto Canonico. Vi troviamo che tutti «i fedeli cristiani sono tenuti a seguire con cristiana obbedienza quelle cose che i sacri pastori, in quanto rappresentano Cristo... stabiliscono come governanti della Chiesa» (can. 212 § 1). Da parte sua il clero, sia secolare che religioso, «è tenuto da speciale obbligazione a mostrare... obbedienza al sovrano pontefice e al proprio ordinario» (can. 273). Queste formulazioni non si allontanano molto, secondo me, dalla visione di san Tommaso. La generale obbedienza ai pastori quali «governanti della Chiesa» significa obbedirli nelle materie che già pertingono al potere amministrativo e disciplinare della Chiesa – i.e. nelle cose «essenziali alla virtù», come abbiamo detto sopra. Una «speciale obbligazione di obbedienza» sembra significare che vi è un ambito «speciale» nella vita di un chierico in cui egli è pienamente soggetto al potere del superiore: un religioso è soggetto nella sua intera vita religiosa, mentre un chierico secolare è soggetto rispetto al suo ministero sacerdotale. E.g. un prete è tenuto ad obbedire al suo vescovo circa il dove e quanto celebrare la santa Messa. Se il chierico disobbedisce e persiste nella disobbedienza anche dopo l'ammonizione del superiore, egli può essere punito per un crimine canonico secondo il canone 1371 del CJC. Tuttavia, il prete non può obbedire, per esempio, ad un totale divieto di celebrar Messa (a meno che questo non sia imposto in virtù di punizione canonica per un crimine commesso), poiché l'intero ministero del prete è divinamente fondato ed incentrato sulla Messa e persino celebrare peccaminosamente è meglio che non celebrare affatto (S. Th. III q. 82 art. 10).
Ed ancora, anche in cose che pertingono al potere del superiore, non siamo obbligati ad obbedire a tutti i precetti. L'esempio tipico è quello dei precetti ingiusti, che possono essere disobbediti (II-II q. 104 art. 6 resp. ad ob. 3). Il dovere di obbedire trae la sua origine dall'ordine di giustizia. Ma la giustizia non può vincolare alcuno a commettere ingiustizia! L'Aquinate elenca tre modi in cui un precetto può essere ingiusto: «D'altro canto le leggi possono essere ingiuste... essendo contrarie al bene umano... o rispetto al fine, come quando un'autorità impone ai suoi soggetti leggi insopportabili che conducono non al bene comune ma piuttosto alla sua cupidigia e vanagloria, o rispetto all'autore, come quando un uomo fa una legge che travalica il potere che gli è commesso, o rispetto alla forma, come quando dei pesi vengono imposti inegualmente sulla comunità, perquanto in vista del bene comune. Tali atti sono atti di violenza più che non siano leggi... per cui tali leggi non obbligano in coscienza, a meno forse che per evitare scandalo o perturbazione, per la quale causa un uomo dovrebbe persino abdicare al proprio diritto» (I-II q. 96 art. 4).
Così un precetto può essere ingiusto per l'avere un fine ingiusto, per l'andare oltre il potere del pastore o per il tentare di ottenere il suo fine con mezzi ingiusti. Esso obbliga i soggetti solo «accidentalmente» (II-II q. 104 art. 6 resp. ad ob. 3), cioè se la disobbedienza potrebbe rovinare l'autorità del pastore e provocare altre persone a disobbedire anche i precetti legittimi.
Ma non è tutto qui. In II-II q. 104 art. 3 resp. ad ob. 3, Tommaso dice: «Come rimarca san Gregorio (Moral. XXXV), “colui che proibisce ai suoi soggetti di attingere un singolo bene, deve consentirne loro molti altri, cosicché le anime di coloro che obbediscono non muoiano affamate dalla deprivazione di ogni bene”. Così la perdita di un bene può venire compensata dall'obbedienza e da altri beni (Et sic per obedientiam et alia bona potest damnum unius boni recompensari)». San Tommaso sembra suggerire qui che il vietare ad un soggetto il conseguimento di un bene sia potenzialmente di per sé ingiusto, e che il superiore debba “compensare” il soggetto offrendogli un “bene sostituto”! La logica è che la virtù dell'obbedienza non compensa pienamente la privazione di un bene cui il soggetto deve rinunciare, poiché egli obbedisce con riluttanza. Per cui, il pastore deve sempre offrire al suo gregge qualcosa accanto all'obbedienza. Per esempio, se egli proibisce ad un monaco una particolare devozione, deve offrirgliene una simile ed alternativa; o può provare a giustificare il divieto con riferimento al bene comune ottenibile attraverso la cessazione di tale devozione. Ciò significa che il soggetto può rifiutare di obbedire alla proibizione di perseguire un bene se il superiore non gli offre un “bene sostituto”? San Tommaso non lo dice espressamente, e tuttavia credo che una tale situazione sia teoreticamente possibile. Il dovere di obbedire deriva dall'ordine di giustizia, e la giustizia non può obbligare alcuno a soffrire un'ingiustizia. Ovviamente un tale caso richiede molta cautela.
Un altro caso in cui Tommaso ritiene che il precetto di un superiore possa essere disobbedito è quando sia abbia impossibilità. Egli menzione in II-II q. 105 art. 1 resp. ad ob. 3 che nessuno è tenuto a fare ciò che è impossibile, dunque un superiore deve evitare di emettere una moltitudine di precetti, altrimenti i soggetti disobbedirebbero senza peccare per via dell'impossibilità di adempiervi integralmente. Attenzione: non è che l'impossibilità fisica di adempiervi tolga semplicemente la responsabilità! Uno non è obbligato a tentare di esaurirsi fino al proprio limite prima di giudicare che il precetto sia impossibile da eseguire: come è già stato detto, la virtù d'obbedienza non costringe la volontà come un robot, essa richiede invece la libera cooperazione della volontà. Quindi, se uno giudica innanzitutto che i precetti siano impossibili da obbedire, egli può scegliere a quali adempiere e a quali no, o di posporne altri: tutto ciò non sarà peccato di disobbedienza. Inoltre l'impossibilità ad obbedire non è solo fisica ma anche morale, od ogni altro tipo di ostacolo che, in giudizio di coscienza, impediscano a taluno di adempiere ad un precetto!
Per di più, i precetti di uno stesso superiore possono contraddirsi l'uno con l'altro, o essere impossibili da adempiere contemporaneamente. Quale di essi deve dunque essere adempiuto? Tommaso dice: «... la persona che comanda non desidera egualmente l'adempimento di tutti i suoi comandi, dal momento che una tale persona desidera innanzitutto il fine, e ciò che ad esso fine è più vicino. Per cui la disobbedienza è tanto più grave quanto il comando inadempiuto è voluto da colui che lo comanda» (II-II q. 105 art. 2).
È chiaro che bisogna dare preferire l'adempimento di quei precetti che sono più vicini all'intenzione finale del superiore. Fintantoché uno faccia tutto quanto può per aiutare il superiore ad ottenere il suo fine, il non osservare i suoi precetti di mezzo al fine è scusabile.
(1 di 2 - continua)
Pubblicato il 12 gennaio 2022
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