15 marzo 2020

La democrazia ha un futuro?

di Giorgio Salzano
Domanda: la democrazia ha un futuro? Risposta: c’è da dubitarne.
È un po’ che, con questa domanda e risposta in mente andavo meditando un articolo, con una alternativa, o un seguito, che in tal caso sarebbe: e la Chiesa la sta aiutando a ben morire.
Parlandone con un mio nipote quarantenne gli ho posto la domanda, e lui mi ha risposto con un’altra domanda che mi ha spiazzato: perché, forse esiste? Beh, la contro risposta a questa contro domanda dovrebbe essere sì, esiste, ma bisognerebbe, perché abbia senso, che definissimo, per quanto è possibile, l’oggetto della domanda e della risposta. Insomma, che cosa è questa benedetta democrazia?

Si suole definirla in base a due fattori principali, separatamente o congiuntamente: un sistema di voto popolare per l’elezione di un’assemblea legislativa e, per suo tramite o separatamente, del governo; l’uguaglianza degli uomini che individualmente formano il popolo. C’è però anche un terzo fattore, che non so bene come denominare, non menzionato in quanto tale, ma individuabile nel fatto stesso che della democrazia discutiamo, (più o meno) civilmente.
I due primi fattori sono quelli in base ai quali le due parti in contrapposizione all’epoca della guerra fredda si definivano entrambe “democratiche”. Si tratta di un’epoca lontana, che per tanti di noi è ormai storia, raccontata e non vissuta (come è per me l’epoca precedente dei totalitarismi fascista e nazista). Ci dividevamo dunque in Italia, come d’altronde nel resto d’Europa e del mondo, tra filoamericani e filorussi, dove “russi” stava a significare sovietici. (Per chi volesse avere un’immagine di quell’epoca da noi, forse il migliore ritratto è quello che ne ha fatto Giovannino Guareschi, di una generazione precedente alla mia, con i libri, e i film che ne furono tratti, su don Camillo e Peppone – popolano, quest’ultimo, da tenere distinto dal “tizio di città”, ossia dagli intellettuali e burocrati comunisti). Inutile dire che l’una parte accusava l’altra di non essere democratica. Il che era ovviamente vero per entrambe, dal momento che partivano da due definizioni diverse di democrazia.

Dalla parte diciamo filoamericana, perché ci fosse democrazia era necessaria una costituzione, che permettesse, come ho detto, l’elezione dell’assemblea legislativa e del governo, e richiedesse, per questo, libertà di espressione e di associazione, e libertà economica d’intrapresa (chiamiamolo pure capitalismo). Essenziale era ritenuta inoltre la così detta separazione dei poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario (per cui l’uno fa le leggi, il secondo governa in base ad esse, il terzo in base ad esse giudica). Per l’altra parte, invece, la democrazia così assicurata era solo formale, perché la libertà economica d’intrapresa impediva una effettiva eguaglianza degli uomini, condizionava tutte le altre libertà, ed andava perciò abolita a favore di una gestione amministrativa dell’economia (chiamiamolo pure comunismo o socialismo), assicurando così una democrazia sostanziale, nella quale le garanzie giuridiche della libertà di espressione e di associazione sarebbero state superflue.

Per estrazione sociale io appartenevo alla parte filoamericana, e cominciai a ragionare di politica prendendone le difese, allo stesso tempo in verità in cui tanti miei coetanei della stessa estrazione avvertivano la fascinazione dell’altra parte. Mi piaceva definirmi liberale, in suprema ignoranza di ciò che i liberali erano stati nella storia d’Italia. Mi ci sono voluti perciò un po’ di tempo e di studi, nonché le vicende che hanno portato dagli anni della mia giovinezza a oggi, per rendermi conto della debolezza intrinseca della democrazia definita essenzialmente come possibilità di libere elezioni: intesa, in altre parole, in un senso puramente procedurale. Già dire così è il frutto di quegli studi, che mi hanno fatto capire le ragioni di chi richiedeva una definizione non solo formale della democrazia. Sono arrivato anch’io alla conclusione che non bastano le procedure elettorali per definire la democrazia, ma che quelle procedure non si giustificano se non su basi non procedurali, attinenti all’essenza o sostanza politica delle cose. Che non poteva tuttavia essere quella di matrice socialisteggiante.

Ho cominciato i miei studi superiori dal diritto, e, per quanto mi abbia interessato e mi sia diciamo pure piaciuto, vi ho trovato, così come veniva presentato, qualcosa che mi disturbava profondamente, laddove mi si diceva che esso ha a che fare esclusivamente con la legalità e non con la giustizia: che sono le leggi a definire il giusto e l’ingiusto, e che quindi non si può giudicare se esse siano a loro volta giuste o ingiuste. Voleva dire che tutto il parlare di giustizia che facciamo non rientra nel dominio del diritto, e che quindi è al di fuori di esso che va cercato un terreno di discussione al riguardo. Che è ciò che feci, non rendendomi inizialmente conto delle implicazioni distruttive che questo ha per lo stesso diritto.

Mi spiego. Ho premesso nell’accennare alla separazione dei poteri un “così detta”. All’origine della riserva così espressa c’è l’osservazione che la separazione che il barone di Montesquieu credette di rilevare nella costituzione inglese, così proponendola come modello largamente accettato, è in effetti ingannevole. Dovremmo semmai parlare di una distinzione dei tre poteri, legislativo esecutivo giudiziario, a cui corrisponde una (parziale) separazione del personale preposto all’esercizio di ciascuno di essi. Tale era nel Settecento britannico, e tale rimane ancora oggi: allora la pacificazione raggiunta dopo la guerra civile dei secoli precedenti aveva portato a un diffuso consenso culturale “anglicano” (o in Scozia “presbiteriano”) attorno alla monarchia vincitrice; oggi i partiti in competizione nella formazione del consenso cercano di esprimere il personale di ciascuno dei tre poteri.

Non riconoscere che questo è il caso, con la pretesa di isolare un potere legislativo quale base degli altri due, distrugge il diritto perché lo fa dipendere da una formazione previa del consenso, da esso cioè svincolato, di cui anche coloro che sono chiamati all’applicazione delle leggi partecipano.
Anche io allora, insoddisfatto dallo status quaestionis su legalità e giustizia, mi volsi dunque allo studio delle più varie discipline, da sociologia ed antropologia alla filosofia ed alla teologia, in cerca di lumi sul momento politico (di competizione nella formazione del consenso) previo alla legislazione, per ritrovarvi il criterio di giustizia a cui essa dovesse obbedire. Mi portavo, in questo senso, sul terreno della parte avversa, che protestava contro la democrazia formale perché ingiusta, e opponeva quindi ad essa la democrazia sostanziale fondata sulla giustizia. E la giustizia veniva da essa identificata, come lo è ancora da tanti, con l’uguaglianza. Ma questo solleva un duplice ordine di problemi. Anche Alexis de Tocqueville, aristocratico francese nato ai tempi della Rivoluzione, aveva ne La democrazia in America concepito la storia come un movimento verso la democrazia, ossia verso l’uguaglianza di condizione tra gli uomini, e la vedeva realizzarsi appunto in America. Proprio quell’America campione del capitalismo che veniva indicato da parte comunista come regno delle discriminazioni e delle disuguaglianze.

Abbiamo dunque qui il primo problema: l’uguaglianza deve essere assicurata nella distribuzione, diciamo così, delle carte, una uguaglianza cioè di opportunità di cui sta poi a ciascuno avvalersi; o deve essere piuttosto coattivamente implementata dallo stato? Le due risposte alternative caratterizzavano le parti contrapposte all’epoca della guerra fredda, fino alla caduta del muro di Berlino. Chi difendeva la prima poteva opporre ai difensori della seconda che grazie ad essa si garantiva insieme l’uguaglianza e la libertà garantita dalla democrazia formale. Nel frattempo, tuttavia, lo scenario è cambiato: i difensori della democrazia sostanziale hanno accettato la democrazia formale, concentrandosi nella ricerca del consenso al fine di usarla come veicolo per implementare l’uguaglianza legislativamente, esecutivamente e giurisprudenzialmente.

Si è venuta così affermando la concezione esclusivamente procedurale della democrazia, perciò detta in quanto tale laica. Ma in effetti anche la pura proceduralità rappresenta un’istanza di democrazia sostanziale, poiché presuppone l’irrilevanza di qualunque differenza tra gli esseri umani. La diversità, rispetto al socialismo ed al comunismo d’antan, è che questo mirava soprattutto all’uguaglianza economica, mentre ora, pur non trascurandola completamente, l’egualitarismo si è appuntato in prevalenza su altri campi, in particolare quello della sessualità: per cui, pur non potendosi negare la differenze di maschio e femmina, la si priva di ogni rilievo nella formazione dell’identità personale, rispetto alla quale il numero dei sessi viene moltiplicato. Un simile egualitarismo consegue, accentuandola, alla negazione delle differenze culturali e religiose, con conseguente svalutazione di tutte le tradizioni, le quali avevano ciascuna a suo modo disciplinato l’appartenenza degli uomini, sempre maschi e femmine nel succedersi delle generazioni, alla società. Solo resta un astratto “uomo senza qualità”, illusoriamente identificato con qualunque individuo umano. E quindi, mentre posizioni diverse sono formalmente tollerate, nella formazione del consenso sostanziale esse vengono dichiarate intollerabili, e bollate con epiteti infamanti quali “fascista” o “nazi”, o “razzista” o a qualunque riguardo “fobico”.

Il secondo problema, dunque, posto dall’uguaglianza degli esseri umani è che cosa li renda tali, malgrado le innegabili differenze. E questo ci porta al terzo fattore a cui ho accennato all’inizio, necessario affinché vi sia democrazia, così come ne parliamo assumendo che sia cosa buona. Ricordiamo che i contributi alla discussione sulla democrazia non sono soltanto di propaganda, ma si presentano anche in veste di disquisizioni con pretese di scientificità. Chiamerei perciò questo terzo fattore non con il nome più usato di cultura, sibbene con quello di scienza: un sapere concernente la società e la politica, e più in generale l’essere umano e il suo mondo, che sia davvero sapere, ossia, appunto, scienza. Ma bisogna per questo che riconduciamo il discorso sull’uomo alle testimonianze degli uomini, il che significa, all’inverso, che non interpretiamo queste testimonianze sulla base di un astratto discorso sull’uomo. Riconosceremmo allora nelle variazioni che esse presentano delle costanti, che ci darebbero il senso di ciò che rende gli uomini uguali.

Lo studio della società che nell’Ottocento ha preso il nome di sociologia acquista lo stato di scienza a cui aspira solo se lo riguardiamo come socio-logia, riflessione sulla logica delle relazioni scambievoli tra gli uomini osservabile in qualunque società: logica del dare e del ricevere, la cui equiparazione costituisce quello che i latini chiamavano jus, concetto nel quale giustizia e diritto fanno una cosa sola. Anche il potere legislativo della moderna teoria giuridico-politica sarebbe, per una simile scienza della società, un potere giurisdizionale: di ricognizione della realtà per giudicare in termini generali ciò che si richiede per una giusta disciplina dei rapporti tra gli uomini; ovvero, in altre parole, per riconoscere in essi quello che veniva tradizionalmente chiamato diritto naturale, lo stesso che dovrebbe dirigere l’azione di governo e presiedere ai giudizi di applicazione delle leggi.
Solo scientifico è il riconoscimento dell’uguaglianza degli uomini nella loro capacità di interagire, ossia nel loro essere consapevoli di se stessi in quanto partecipi della società come di un tutto che li trascende, manifestazione di un più grande principio all’origine di quella capacità, e che li regge nel loro reciproco affaccendarsi. La conclusione a cui sono così giunto è esattamente l’opposto della concezione non scientifica corrente nelle nostre democrazie così dette laiche: esse hanno cercato l’uguaglianza al di fuori di ogni discorso teologico, mentre invece al di fuori di Dio l’uguaglianza è come un letto di Procuste.


 

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