13 luglio 2019

Sinodo Amazzonia. La "mistica del dominio occidentale"

di Giorgio Salzano
A integrazione di quanto già detto sull’instrumentum laboris del sinodo sull’Amazzonia vorrei riportare una osservazione di Marshall Sahlins, notevole antropologo americano della seconda metà del Novecento ora sulla soglia dei novant’anni.

[…] per lungo tempo gli antropologi e gli storici sono stati tratti in inganno da una specie di mistica del dominio occidentale: la convinzione che l’espansione globale del capitalismo determinasse la fine delle altre storie culturali.

E così spiega in nota che cosa intende:

La «mistica del dominio occidentale» include un’intera serie di proposizioni collegate tra loro, che si rivelano assurde o false:
1) prima dell’espansione occidentale, gli altri popoli vivevano e si sviluppava «in isolamento» – il che significa semplicemente “noi non c’eravamo”;
2) l’adattamento storico reciproco di questi popoli non costituisce un precedente in tal senso, perché tutto era «primigenio» e «indigeno»;
3) la loro integrazione con l’Occidente è stata tuttavia un processo qualitativamente differente, poiché 4) il potere europeo ha distrutto le antiche armonie e la coerenza di queste culture esotiche e 5) nel processo di «acculturazione» o assimilazione all’Occidente la loro peculiarità culturale si è irreversibilmente estinta.
Storie d’altri, Napoli 1992, pp. 211-12

A quanto pare ora agli antropologi e agli storici dobbiamo aggiungere i teologi – sempre che si possa parlare in questo caso di teo-logi, data la loro avversione per il logos.
Che cosa posso aggiungere a quanto già detto dal cardinale Brandmueller a riguardo di questo instrumentum laboris? Che sarebbe forse il caso che i suoi estensori si leggessero Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss? Nel raccontare venti anni dopo le spedizioni di ricerca sul campo da lui compiute precisamente in Amazzonia negli anni trenta, egli esponeva a un certo punto il paradosso dell’antropologo in cerca dei “nativi”: quando entrava in comunicazione con loro, non poteva non lamentare il fatto di non averli incontrati quanto la loro cultura non era ancora stata intaccata da precedenti contatti con gli Europei; una volta però in cui incontrò un gruppo di indigeni che non aveva mai avuto a che fare con gli Europei, non seppe assolutamente come entrare in comunicazione con loro. La soluzione del paradosso stava nel riconoscere, attraverso il filtro della memoria, l’illusione di quella ricerca del nativo e del primitivo, poiché in ogni caso la società è fatta da individui e gruppi umani che comunicano tra loro, non separati da frontiere rigide, ma da soglie, contrassegnate da un indebolimento o da una deformazione della comunicazione, ed in cui questa pur senza scomparire passa a un livello minimo.

Non conosco particolarmente le problematiche ecclesiali in Amazzonia. Ma lo studio dell’antropologia socio-culturale mi ha fatto capire una cosa: che ovunque la definizione culturale di soglie necessarie affinché vi sia società, e non una semplice orda indifferenziata, le rende anche sempre luoghi pericolosi, poiché in esse ci mettiamo in gioco con altri del cui atteggiamento nei nostri confronti non abbiamo modo di essere certi, ma ci possiamo solo fidare, in base ai segni che danno di sé.
Perciò la definizione delle soglie, per un gruppo sociale più o meno coeso, termina a un confine oltre il quale regna l’incertezza completa. Michel de Montaigne, meditando in uno dei suoi Essais intitolato “Cannibali” sulle testimonianze che arrivavano dal Sud America, faceva osservare come a quel punto il riconoscimento dell’altrui umanità potesse assumere un carattere per così dire “culinario”, non nel senso di scambiare cibo, ma di diventare gli uni cibo per gli altri: gli uomini di un gruppo presi prigionieri da quelli di un altro venivano messi all’ingrasso, in attesa di essere mangiati; ma in tal caso essi facevano gli smargiassi, ricordando a coloro che li avrebbero mangiati tutti i loro parenti che essi avevano mangiato in precedenza.

La disgregazione culturale causata dai cattivi conquistatori europei era perciò anche effetto dell’impedimento da questi frapposto a una simile comunicazione “culinaria”. Pur con tutti i loro difetti, essi erano infatti portatori di una cultura, o religione che dir si voglia, per la quale non vi sono soglie che segnano una differenza di “amico” e “nemico” tale che al di là di esse non vi è altro riconoscimento dell’altrui umanità che cannibalesco.

Le “antiche armonie” che il moderno uomo occidentale ritiene di scorgere presso i “nativi”, lamentando di averle distrutte, non erano infatti né tanto antiche, né tanto armoniche: opera di bricolage ­– è ancora insegnamento di Lévi-Strauss – rappresentavano l’identificazione degli uomini nelle loro relazioni scambievoli sulla base delle immagini offerte dalla natura (in particolare con la classificazione delle specie animali e vegetali), in un continuo processo di disgregazione e riaggregazione dei gruppi umani, effetto dell’incertezza determinata dalle soglie da superare.

La «mistica del dominio occidentale», alla quale purtroppo sembra piegarsi tanta parte della gerarchia cattolica odierna, deumanizza i “nativi” che pur vorrebbe esaltare. Proiettando su di essi un pastoralismo fasullo finisce in effetti per escluderli dalla comunicazione. E quello che vorrebbe essere un atto di contrizione culturale si dimostra una forma di presunzione diabolica.



 

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