Nel sesto secolo ci sono vari temi su cui potremmo concentrare l’attenzione, come quello della espansione dei barbari, o quello del sorgere di grandi figure come i filosofi Boezio e Cassiodoro, grandi riformatori come Benedetto da Norcia e grandi pontefici come Gregorio Magno; non dimentichiamo che al tempo la peste mieteva numerosissime vittime e che Roma come sede dell’impero era in una fase di enorme decadenza e viveva il passaggio dall’essere città imperiale a essere città papale. E la Chiesa non limitava la sua opera alla città eterna ma mandava monaci ad evangelizzare le genti, come nel caso di Agostino che fu spedito da Gregorio Magno ad evangelizzare gli angli.
Una figura importante fu quella di Boezio (475-526), un funzionario alla corte di Teodorico. Il De Consolatione Philosophiae fu il suo lavoro più noto, ma nek suo De Institutione Musica stabilisce importanti principi educativi, cioè il quadrivium, le scienze che conducevano alla vera conoscenza e che erano aritmetica, geometria, astronomia e musica, che quindi era non soltanto e non principalmente un suono piacevole ma una via che avvicina alla vera sapienza.
Dividerà la musica in mundana (l’armonia dell’universo), humana (le relazioni tra anima e corpo) e instrumentalis (prodotta da voci e strumenti), con le,prime due che avevano una maggiore impoetanza rispetto alla terza. La vera sapienza musicale è quella del teorico che era in grado di fare senso del fenomeno della musica, con la sua base matematica. L’influenza di Boezio sul pensiero medioevale sarà enorme. Cassiodoro riprenderà alcune delle idee principali di Boezio e enfatizzerà l’importanza del fatto musicale come espressione dei moti interiori dell’essere umano.
Il ruolo di San Benedetto da Norcia fu fondamentale. Nella regola benedettina esiste un passaggio che è importante per il canto liturgico: “Sic stemus ad psallendum, ut mens nostra concordet voci nostrae”. La frase in questione significa “e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l'intima disposizione dell'animo si armonizzi con la nostra voce”, In effetti quel “mens” è importante, vuol denotare l’adesione del nostro essere a ciò che viene cantato nei salmi. Cosa significa tutto questo? Se si seguisse San Benedetto dovremmo capovolgere tanto soggettivismo delle moderne teorie di certi liturgisti. Quello che ci chiede è l’adesione del nostro essere ad una verità che è esterna al nostro essere ma in certo qual modo, agostinianamente, lo abita in modo profondissimo. Ci si chiede la docilità di fronte alla Parola di Dio e il farsi parlare da essa, piuttosto che cercare di sovrasignificarla con i nostri pensieri.
Penso sia importante questo richiamo all’oggettività della verità, quando noi viviamo un tempo in cui si pensa che tutto debba essere “nuova creazione”, si pensa che nella liturgia non si celebra validamente se non si introducono parti al di fuori del rito, se non si è spontanei, se non si abbassa il livello. No, siamo chiamati prima ad ascoltare e dopo aver ascoltato per lungo tempo, forse possiamo parlare. Questo perché, come insegna la prima parte della frase citata in precedenza, “Ergo consideremus qualiter oporteat in conspectu divinitatis et angelorum eius esse” (Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli). Non stiamo cantando o celebrando noi stessi, ma siamo alla presenza di Dio e dei suoi Angeli ed è nostro dovere ascoltare. La scolastica ci insegna che la verità è “adaequatio rei et intellectus”, adeguamemento dell’intelletto all’oggettività della cosa. Non celebriamo con voce arrogante, “sed in lacrimis” come ben ci dice il trattato del 1858 Monasteriologiae edito da Maurus Czinár, che poi aggiunge: “Servite Domino in timore”, richiamando la lezione salmodica. Della frase di Benedetto viene commentato che “ciò dicono tutti i Santi, de’ quali non fa bisogno recare altre sentenze, essendo la cosa abbastanza da sè chiara” (Dissertazione sopra il grave disordine od abuso della moderna musica vocale ed instrumentale che si è introdotta e si usa a’ nostri dì nelle chiese e nei divini uffizii, 1821).
Ma il capovolgimento di questo principio ben lo vediamo all’opera oggi, quando ciò che cantiamo non si fa provenire dalle esigenze della liturgia, ma dalle “nostre” esigenze, dalla smania di sentirci i protagonisti. Mi si potrebbe dire che io voglio il gregoriano e la polifonia perché piacciono a me e quindi non sono diverso da coloro che vogliono la pop musica cristiana perchè piace a loro. In realtà sono molto diverso, in quanto non tutto ciò che mi piace lo ritengo adeguato alla liturgia e il canto gregoriano e la polifonia sono stati ritenuti adatti alla liturgia non soltanto da me, ma dal magistero della Chiesa.
Oggi siamo schiavi della nostra soggettività, quel testo benedettino per alcuni dovrebbe essere scritto come “affinchè quello che cantiamo si adegui a quello che pensiamo”. Il ritorno del soggetto preconizzato da Michel Foucalt non è stata una riconsiderazione del ruolo del soggettivo sullo sfondo dell’oggettivo, ma una schiavitù, ancora più crudele perchè auto inflitta. Siamo soli con noi stessi mentre il cielo sembra sempre più vuoto.
Pubblicato il 03 maggio 2019

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