Non trovo modo più appropriato per segnalare il libro edito da Àncora (2019) di Silvana Carcano, Tremila anni e non sentirli. Una lettura sorprendente dei Dieci Comandamenti , se non riproponendo l’intervento tenuto il 28 febbraio a Milano durante la Presentazione del volume.
Quando Silvana Carcano mi ha chiesto di partecipare a questa Presentazione del suo libro non ho potuto rifiutare l’invito. In realtà, l’avrei fatto molto volentieri, perché da anni coltivo la pigrizia, quale – come l’ha definita il cardinal Giacomo Biffi – «tenue e misconosciuta virtù» (1). Ma come avrei potuto declinare questa richiesta non solo a causa dell’amicizia che ci lega, ma soprattutto per la bellezza e l’originalità di questo libro (davvero un unicum nel panorama letterario)? Ho detto, allora, all’Autrice di Tremila anni e non sentirli che avrei, però, parlato di quello che più mi sarebbe aggradato, non riprendendo necessariamente ciò che c’è scritto nella mia intervista del libro. Invero, se non avevo assolutamente voglia di rileggere ciò che in quella occasione avevo detto, tuttavia, superata la maligna sensazione, ho ripreso tra le mani il capitolo e mi sono meravigliato nel riguardare quelle righe. Chiedo venia per questo mio pubblico compiacimento, ma, ogni tanto, è un toccasana, essendo il solo a prorompere verso me stesso in traboccanti in elogi. D’altronde, sono consapevole del rischio di cui parlava Oscar Wilde, secondo cui «a volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio». Ciononostante, mi sono ricordato di quando, negli ultimi anni di vita, il già citato Cardinale, con cui ho condiviso una profonda amicizia, rileggeva i suoi libri e mi confidava di sentirsi non soltanto in piena sintonia con l’autore (che era lui!), ma pure il piacere immenso che gli procurava quella lettura.
Alla fine Silvana si è lasciata convincere (facilmente, aggiungerei), forse perché consapevole che – come ha detto Woody Allen – «il vantaggio di essere intelligente è che si può fare anche lo stupido, mentre è del tutto improbabile il contrario». A mio modesto avviso, come avrete capito da questo incipit, dopo la bellezza di dostievskijiana memoria (2) e la gioia, secondo la trasposizione di Ermanno Olmi a riguardo di Bud Spencer e Terence Hill (3), il mondo può essere salvato dall’umorismo, che – secondo Giovannino Guareschi (il “papà” di Don Camillo) – «è il nemico dichiarato della retorica perché, mentre la retorica gonfia e impennacchia ogni vicenda, l’umorismo la sgonfia e la disadorna, riducendola con una critica spietata all’osso» (4). Conversando con Giacomo Poretti, l’attore del famoso trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, ho capito che – sono parole sue – «l’umorismo è mettere in discussione ogni cosa che appartiene agli esseri viventi, all’uomo. L’umorismo, tra le tante cose, è anche un bagno di umiltà…» (5). A questo punto, senza remora alcuna, mi sono convinto: l’umorismo salverà il mondo.
Non posso che partire, quindi, se non da una frase umoristica di un politico, visti i trascorsi dell’Autrice del libro che stiamo presentando. Si tratta di Konrad Adenauer (1876-1967), il quale disse: «Capisco perché i dieci comandamenti sono tanto chiari e privi di ambiguità: non furono redatti da un’assemblea». Si deve, però, anche fare autocritica cristiana: uno dei Padri del deserto, abba Sisoes, aveva, infatti, affermato che «se Dio avesse chiesto il parere ai teologi della scuola di Alessandria d’Egitto per elaborare il Decalogo, noi oggi invece di dieci avremmo mille comandamenti». Del resto, si legge nell’Enrico V di Shakespeare «Men of few words are the best men (Gli uomini di poche parole sono gli uomini migliori)». Sicché, scrive Gianfranco Ravasi – autore ripreso più volte nel volume come punto di riferimento –: «Davanti a noi stanno, invece, quelle “dieci parole”, siglate dal dito di Dio, come dice la Bibbia, un esempio di limpidità, di concisione e di precisione impositiva» (6).
I Dieci Comandamenti, in una visione cattolica, non sono delle regole imposte da Dio per limitare la libertà umana, ma al contrario sono quelle norme che aiutano la libertà a raggiungere il suo fine ultimo, quella felicità che ogni uomo ricerca e desidera. D’altro canto, a fianco al tema della libertà, si inserisce immediatamente quello del male. Un cuore credente si domanda subito, difatti, come un Dio buono e onnipotente possa permetterlo. Ci vorrebbe tanto tempo per rispondere a questo interrogativo (senza poterlo mai esaurire). Accenno, allora, a un tentativo di soluzione prendendo a prestito alcune parole di Charles Journet, tra i teologi più profondi e acuti del secolo scorso: « Dio ha voluto lasciare le sue creature libere di scegliere per lui o contro di lui , e correre così il rischio di essere da loro respinto, piuttosto che rinunciare ad attendere da esse quell’amore di preferenza alla quale tiene sopra ogni cosa» (7).
Ciò mi permette di entrare nel tema di cui vorrei trattare: l’ amore cristiano (tema che ha tranquillizzato Silvana dinnanzi alla mia scelta anarchica e un po’ ribelle di parlare di quello che avrei voluto). Non riesco, però, neppure ora, a trattenermi e mi sento in qualche modo costretto a un’ulteriore frase umoristica, in questo caso di Leo Longanesi (1905-1957), il quale diceva di sé di essere «un conservatore in un paese come l’Italia in cui non c’è niente da conservare», perché è una terra abitata da «un popolo buono a niente e quindi capace di tutto». Questo giornalista, disegnatore e scrittore, in modo lapidario, sostiene che «l’amore è l’attesa di una gioia che, quando arriva, annoia». A tal proposito scrive ancora Ravasi: «la debolezza umana riesce a ridurre il fuoco dell’amore a una brace che lentamente si estingue. Il grande nemico dell’amore non è il tradimento, ferita che può essere sanata, ma la noia» (8). L’amore cristiano, al contrario, non è statico (noioso e annoiante), ma dinamico.
Per questo rispondevo all’ultima domanda rivoltami nel volume, Quindi i comandamenti liberano l’uomo?, in questo modo: «Certo, permettono all’uomo di comprendere il vero significato di amare: Dio, innanzitutto, ma anche me stesso e l’altro, e di non confondere l’amore con il mero desiderio egoistico di possessione. Questo comando chiede che si viva amando in maniera pura e limpida, come Gesù Cristo ha insegnato. È il dono di Dio, che Gesù consegna alla Samaritana: è cioè l’unico modo per essere dissetati in eterno, diversamente saremmo continuamente in cerca di fonti d’acqua che, di volta in volta, non calmerebbero i nostri sensi. Questi precetti dei desideri chiudono le dieci parole perché ambiscono all’unico e vero desiderio d’amore per Dio, a cui possiamo arrivare con la fede e la grazia. Rimane la consapevolezza dei nostri limiti terreni, che permangono, ma è ben più forte la capacità di oltrepassarli per ottenere la gioia eterna, quella che qui ci è stata solo anticipata per amore. Quell’amore che è disio e moto, direbbe Dante, perché è l’amor che move il sole e l’altre stelle» (9).
Da quest’ultimo riferimento, se voglio o devo parlare dell’amore cristiano mi viene subito in mente la Divina Commedia, ma in questo momento mi sovviene anche una frase di Victor Hugo sul vero amore: «la vecchiaia lo rende ancor più forte, la morte lo consacra, l’eternità lo fa continuare». Questa associazione di idee è dovuta proprio a Dante, che è l’emblema dell’uomo innamorato: «innamorato di tutto – scrive l’amico e maestro Franco Nembrini –: della sua città, dei suoi amici, dello studio; innamorato di Beatrice e della poesia; e, per tutto questo e dentro tutto questo, innamorato di Dio» (10). Questo essere “innamorato” è ben visibile nella Vita nova, che può essere intesa come una sorta di premessa rispetto all’esplosione poetica della Commedia. Dante, infatti, nello scritto giovanile (11) – concluso l’ultimo sonetto e dopo aver ricevuto una mirabile visione –, fa il proponimento rispetto a Beatrice «di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei» (12). Ciò avverrà quando il Poeta racconterà il viaggio in cui Beatrice ha un ruolo determinante, perché quella donna è – afferma ancora Nembrini – «l’incarnazione stessa del Mistero» (13).
Sicché – rispondevo a una domanda di Silvana –, «lo stesso Dante, nella Vita nova, intende dare un senso alla morte di Beatrice, la donna che non è semplicemente l’oggetto del desiderio, ma fonte di salvezza che conduce a vita nuova e fa emergere il nobile proposito di condividere con gli altri il bene ricevuto, un amore, cioè, che supera il limite dell’altro» (14). La morte di Beatrice (15), pertanto, non è stata la fine di “tutto”, poiché «esiste un senso ulteriore, altro, trascendente, che Dante – dopo un lungo viaggio – disvela. Amare quella donna è stato, dunque, amare Dio» (16).
E' Bernardo di Chiaravalle, ultima guida del Poeta in Paradiso, a suggerire al protagonista della Commedia di ammirare Beatrice nella fila formata dai terzi seggi. Senza rispondere, l’altro alza gli occhi e la vede riflettere i raggi della gloria. Era lontano da lei più che – secondo una suggestiva immagine – la distanza che intercorre tra la zona alta dell’atmosfera, dove rumoreggiano i tuoni (da quella regïon che più sù tona), e la profondità del mare (qualunque in mare più giù s’abbandona). Ebbene, tale lontananza non impediva di vederla, perché la sua immagine discendeva a lui senza essere «offuscata dall’aria che doveva attraversare (normalmente un oggetto quanto più è lontano tanto più è confuso, perché la sua immagine viene offuscata dall’aria che c’è in mezzo): no, questa apparente infinita distanza è anche la suprema vicinanza» (17). Dante, e sono le sue ultime parole a lei dirette nel poema, rivolge una preghiera a Beatrice, la quale – nonostante gli apparisse così lontana –, di rimando gli sorride e lo guarda per poi volgersi nuovamente a Dio, l’eterna fonte della beatitudine.
«È forse – confida Nembrini – la più bella immagine che io abbia trovato di che cosa sia […] l’amore vero. L’amore che guarda l’amato da un’infinità distanza, perché in mezzo c’è l’infinito, cioè Dio, il destino infinito dell’altro, stimato, venerato e amato come ciò per cui vale la pena dare la vita. E questa infinita distanza, per la quale uno non stringe, non pretende di afferrare e di ridurre l’altro a se stesso e alla propria misura è insieme il possesso vero, la vera prossimità » (18).
L’amore insegnato da Gesù è, dunque, un amore totale, gratuito, disposto al dono di sé e al sacrificio («Nel giorno del giudizio / verranno pesate solo le lacrime», ha scritto Emil Cioran (1911-1995), parole che, se vogliamo, richiamano il Salmo 56, 9: «Le mie lacrime, o Dio, nell’otre tuo raccogli: non sono forse scritte nel tuo libro?»). Ma è anche il modo pieno e completo di dare senso all’esistenza, di viverla appieno, di entrare nell’eterno: Gesù disse – secondo il Vangelo apocrifo di Tommaso –: «Il mondo è un ponte. Attraversalo, ma non fermarti lì!». Questo non significa rinunciare a vivere dell’esistenza terrena, perché – come ha scritto Simon Weil – «quello che mi fa capire se uno è passato attraverso il fuoco dell’amore divino, non è il suo modo di parlare di Dio, è il suo modo di parlare delle cose terrene».
Qui ci innalziamo in quello che la teologia cattolica denomina cristocentrismo, cioè «il convincimento che nel Redentore crocifisso e risorto – pensato e voluto per se stesso entro l’unico disegno del Padre – è stato pensato e voluto tutto il resto; sicché, sia per quel che attiene alla dimensione creaturale sia per quel che attiene alla dimensione redentiva ed elevante, ogni essere desume da Cristo la sua intima costituzione, le sue intrinseche prerogative, la sua sostanziale e inesorabile vocazione» (19). Nella carità, infatti, Dio – scrive Clive Staples Lewis – «può risvegliare nell’uomo un “amore di apprezzamento” soprannaturale verso di lui. Questo, di tutti i doni, è quello che dovremmo desiderare maggiormente. È qui, e non nei nostri affetti naturali – nemmeno nell’etica – che risiede il centro della vita umana e angelica. Se possediamo questo, tutto ci sarà possibile» (20). Ammette, inoltre, l’autore de Le cronache di Narnia che «Dio soltanto sa se io sia effettivamente arrivato a gustare di questo amore: io non posso saperlo. Forse, ho solo immaginato di averne gustato. […] Forse, per molti di noi, tutte le esperienze servono soltanto a definire i contorni di quell’abisso che dovrebbe essere colmato dal nostro amore verso Dio. Non è abbastanza, ma è già qualcosa. Se non siamo capaci di “praticare la presenza di Dio”, sarà pur sempre qualcosa praticare l’assenza di Dio, divenire sempre più consapevoli della nostra inconsapevolezza, fintanto che continueremo a sentirci come uomini che, in piedi accanto a una cascata, non ne sentono il rumore […] o come quell’uomo che in sogno allunga le braccia verso gli oggetti che vede, e non percepisce, al tatto, alcuna sensazione. Sapere di stare sognando già significa non essere più completamente addormentati. A pensatori migliori di me il compito di illustrarvi il mondo del completo risveglio» (21).
C’è un bellissimo libro dal titolo Oscar e la dama in rosa in cui si accenna a questo risveglio. Si racconta di Oscar, un bambino di soli dieci anni, che è consapevole di stare per morire a causa della leucemia. Pur avendone cognizione, non può parlarne con nessuno, perché i grandi per paura fanno finta di non saperlo. Nell’ospedale in cui passa le sue giornate, solo l’anziana signora vestita di rosa, che va sempre a trovarlo, intuisce la sua voglia di risposte. E gli suggerisce un gioco: fingere di vivere dieci anni in un giorno e scrivere a Dio per raccontargli la sua vita. Oscar si lascia convincere e si immagina di vivere tutto quel tempo: dieci, venti, cinquanta, ottant’anni… A centodieci, dieci giorni dopo l’inizio del gioco, si addormenta, ma già tre giorni prima aveva lasciato un biglietto sul comodino: «Ci aveva scritto: “Solo Dio ha il diritto di svegliarmi”» (22).
In questa attesa verso il compimento non manca la visita di Dio, come scrive Oscar in una delle sue ultime lettere nel romanzo che lo vede protagonista.
« Caro Dio, grazie di essere venuto. Hai scelto davvero il momento giusto, perché non stavo bene. [...] Quando mi sono svegliato, […] ho girato la testa verso la finestra per guardare la neve. E allora ho indovinato che venivi. Era mattino. Ero solo sulla terra. Era talmente presto che gli uccelli dormivano ancora, che persino l’infermiera di notte […] aveva dovuto schiacciare un pisolino e tu cercavi di fabbricare l’alba. Facevi fatica, ma insistevi. Il cielo impallidiva. Tingevi l’aria di bianco, di grigio, di azzurro, respingevi la notte, risvegliavi il mondo. Non ti fermavi. È stato allora che ho capito la differenza fra te e noi: tu sei un tipo infaticabile! Uno che non si stanca. Sempre al lavoro. Ed ecco il giorno! Ed ecco la notte! Ed ecco la primavera! Ed ecco l’inverno! […] Ed ecco Oscar! Ed ecco Nonna Rosa! Che salute di ferro! Ho capito che eri qui. Che mi rivelavi il tuo segreto: ogni giorno guarda il mondo come se fosse la prima volta. Allora ho seguito il tuo consiglio con impegno. […] Contemplavo la luce, i colori, gli alberi, gli uccelli, gli animali. Sentivo l’aria che mi passava nelle narici e mi faceva respirare. Udivo le voci che salivano nel corridoio come nella volta di una cattedrale. Mi trovavo vivo. Fremevo di pura gioia. La felicità di esistere. Ero incantato. Grazie, Dio, di aver fatto questo per me. Avevo l’impressione che mi prendessi per mano e che mi conducessi nel cuore del mistero a contemplarlo. Grazie » (23).
Davvero, come ha scritto quell’ateo di Ludwig Feuerbach, «Dio è una lacrima d’amore nel più profondo nascondimento, versata sulla miseria umana». Del resto, si legge nel Talmud ebraico «la parola di Dio è come l’acqua. Come l’acqua, essa discende dal cielo. Come l’acqua, rinfresca l’anima. Come l’acqua non si conserva in vasi d’oro o d’argento ma nella povertà dei recipienti di terracotta, così la parola divina si conserva solo in chi rende se stesso umile come un vaso di terracotta».
Chiudere in questo modo il mio intervento potrebbe ridurlo a qualcosa di molto serio – e si sa, come diceva Gilbert K. Chesterton, «la serietà non è una virtù» –, ma almeno mi salva da chi potrebbe pensare a questo intervento come un divertissement letterario. Del resto, come dicevo alla Carcano, in una frase attribuita ad Arthur Schopenhauer, «il talento coglie un bersaglio che nessuno riesce a colpire. Il genio coglie un bersaglio che nessuno riesce a vedere». È, forse, l’insegnamento de Il Piccolo Principe, quando si ricorda nel racconto che «non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». Grazie!
NOTE:
(1) G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico a «Le avventure di Pinocchio» , Jaca Book, Milano 2002, p. 171.
(2) «è stato detto con profonda intuizione che “la bellezza salverà il mondo” [F. Dostievskij, L’idiota, p. III, cap. V, Milano 1998, p. 645]» (Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999).
(3) Dichiara Ermanno Olmi a riguardo dei film di Bud Spencer e Terence Hill: «Adesso, giunto a quell’età dove si può sostare quietamente sulla sponda del buon senso, mi sono fatto l’idea che a salvare il mondo non sarà soltanto la cultura, e neppure la bellezza, che pure e una piacevolissima opportunità, ma che potremo davvero scampare al declino di civiltà se sapremo praticare la strada maestra della gioia» (citato in S. Pinna, Spaghetti con Gesù Cristo! La «teologia» di Bud Spencer, Àncora, Milano 2017, p. 89).
(4) G. Guareschi, L’umorismo, a cura di Andrea Paganini, L’ora d’oro, Poschiavo 2015, p. 105.
(5) S. Pinna - D. Riserbato, Biffi: Quando ridono i cherubini. Conversazione con Giacomo Poretti , in Idd., Filastrocche e canarini. Il mondo letterario di Giacomo Biffi, Cantagalli, Siena 2019, pp. 221-243: pp. 224-225.
(6) G. Ravasi, Le parole del mattino. 366 riflessioni per un anno, Oscar Mondadori, Milano 20167, p. 162.
(7) C. Journet, Per una teologia ecclesiale della storia della salvezza, M. D’Auria Editore Pontificio, Napoli 1972, p. 472.
(8) G. Ravasi, Le parole del mattino, p. 59.
(9) S. Carcano, 9. Non desiderare la donna del tuo prossimo. Con don Samuele Pinna , in Ead., Tremila anni e non sentirli. Una lettura sorprendente dei Dieci Comandamenti , Postfazione di Elena Lea Bartolini De Angeli, Àncora, Milano 2019, pp. 180-200: p. 200.
(10) F. Nembrini, Dante una vita d’amore e di avventure. Beatrice i lupi e le stelle , con la collaborazione di B. Persico, Piccola Casa Editrice, Milano 2015, p. 4.
(11) «Composta probabilmente tra la fine del 1292 e gli inizi del 1293, o al più tardi nel 1294 (altri si spingono fino al 1295-’96), la Vita nuova è la storia ideale, “fervida e passionata” – come dirà l’autore stesso, ricordando l’operetta giovanile nell’esordio delConvivio (I, 116) –, dell’amore di Dante per Beatrice» (E. Malato, Dante, Salerno Editrice, Roma 20093, pp. 73-74).
(12) Dante Alighieri, Vita nova, 31, 1.
(13) F. Nembrini, Dante, poeta del desiderio. Conversazioni sulla Divina Commedia. Volume I - Inferno , con contributo di Maria Segato, Itaca, Castel Bolognese 2015, p. 28. D’altro canto, Étienne Gilson mette in guardia i teologi dal pericolo di voler metamorfizzare Beatrice in un’astrazione (cfr. É. Gilson, Dante e la filosofia, Jaca Book, Milano 1987, pp. 14-72; in particolare p. 56).
(14) S. Carcano, 9. Non desiderare la donna del tuo prossimo. Con don Samuele Pinna , p. 185.
(15) Cfr. S. Pinna, Amore e perdono nella poesia di Dante. Meditazione teologica sulla misericordia. Prima Parte, «Città di Vita» 72 (2017) 1, pp. 31-48: p. 32.
(16) Id., Saggio introduttivo. La figura di san Bernardo e la contemplazione della Vergine nella Commedia di Dante, in M. Arosio,La mariologia di san Bernardo, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum - IF Press, Roma 2016, pp. 27-76: p. 34.
(17) F. Nembrini, Dante, poeta del desiderio. Conversazioni sulla Divina Commedia. Volume III - Paradiso , con un intervento di Marco Bersanelli, Itaca, Castel Bolognese 2015, p. 128.
(18) Ibid., p. 129 [corsivo nostro].
(19) G. Biffi, Il primo e l’ultimo. Estremo invito al cristocentrismo, Piemme, Casale Monferrato 2003, p. 17. Tale è la definizione di cristocentrismo di Giacomo Biffi che, secondo Angelo Scola, è «rigorosa e, come sua consuetudine, limpida» (A. Scola, Il primo e l’ultimo. Estremo invito al cristocentrismo. Considerazioni dopo una lettura, in S. Pinna - D. Riserbato (curr.), Ubi fides ibi libertas. Scritti in onore di Giacomo Biffi, Cantagalli, Siena 2016, pp. 135-147: p. 139).
(20) C. S. Lewis, I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità , Jaca Book, Milano 20117, p. 126.
(21) Ibid., pp. 126-127.
(22) E-E. Schmitt, Oscar e la dama in rosa, BUR, Milano 2004, p. 90.
(23) Ibid., pp. 83-84 [corsivo nostro]. Pubblicato il 03 marzo 2019

Profondo e semplice come l'amore. Grazie bravo don.
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