01 febbraio 2019

Appunti sulla storia della musica sacra/14

di Aurelio Porfiri
Certo quando si parla del quarto secolo si pensa soprattutto a Agostino, Ambrogio, Gerolamo e certamente con ragione. Eppure non sarebbe male anche riflettere sul pensiero di Atanasio, vescovo di Alessandria (296-373). La sua “Lettera a Marcellino sull’interpretazione dei Salmi” è una testimonianza preziosa che ci introduce nel mondo del quarto secolo in riferimento all’uso della salmodia. Eccone alcuni passaggi: “Ma non dobbiamo omettere di spiegare le ragioni per cui parole di questo tipo non debbano essere semplicemente dette ma rese con melodia e canto; perché effettivamente ci sono alcune persone semplici tra di noi che, sebbene credano che le parole siano ispirate, tuttavia pensano che la ragione per cui vanno cantate sia semplicemente per renderle più piacevoli all’orecchio! Non è affatto così; le Sacre Scritture non sono progettate per solleticare palati estetici, piuttosto è per il tornaconto dell’anima che vengono cantati i Salmi.

Questo è principalmente per due ragioni. In primo luogo, è opportuno che le sacre scritture debbano lodare Dio in poesia così come in prosa, perché la più libera, meno ristretta forma di verso con cui sono costruiti i Salmi, insieme ai Cantici e alle Odi, assicurano che attraverso di questi gli uomini debbano esprimere il loro amore verso Dio con tutta la forza e il potere che possiedono. In secondo luogo, la ragione risiede nell’effetto unificante che hanno i Salmi in coloro che cantano. Perché cantare i Salmi richiede tanta concentrazione dell’intera essenza di un uomo verso di essi che, nel farlo, la sua solita disarmonia mentale e la risultante confusione del corpo viene risolta, come se le note di diversi flauti sono unite dall’armonia in un unico effetto; di conseguenza non viene più scoperto a pensare bene e a fare male, come fece Pilato quando sebbene dicendo “non trovo alcuna causa di morte in Lui” tuttavia permise ai Giudei di fare come volevano; né desiderando il male sebbene incapace di compierlo, come fecero gli anziani nel loro peccato contro Susanna – o, per quel motivo, come fa ogni uomo che si astiene da un peccato e tuttavia desidera di compierne molti altri” (traduzione di Simone Caneparo reperibile online).

Quindi non cantiamo per procurarci un diletto puramente estetico (che se esiste è una conseguenza, non una causa) ma per rendere più efficace la preghiera svolta attraverso i salmi e per beneficiare anche dell’effetto benefico, “riarmonizzante” che i salmi stessi hanno sulla nostra persona. Poco più avanti Sant’Atanasio precisa un punto importante, che è quello che chi canta deve cantare con la lingua ma anche con l’intelletto, anzi vedremo nel seguito della riflessione sulla musica liturgica che l’intelletto, cioè la capacità di comprendere (non in senso semantico esclusivamente, ma nel senso di “prendere tutto”) sia a monte del piacere puramente estetico: “Bene, allora coloro che non leggono le Scritture in questa maniera, ovvero che non cantano le Canzoni Divine intelligentemente bensì solo per il proprio piacere, sicuramente sono da condannare, poiché la lode non si addice alle labbra di un peccatore. Ma coloro che cantano così come ho indicato, in modo che la melodia delle parole scaturisca naturalmente dal ritmo dell’anima e la sua propria unione con lo Spirito, costoro cantano con la lingua e anche con l’intelletto, e non solo loro né traggono beneficio ma anche coloro che vogliono ascoltarli.

Così fu con il benedetto David quando suonò per Saul: compiacque Dio e allo stesso tempo rimosse da Saul la pazzia e la rabbia e fece tornare la pace al suo confuso spirito. Alla stessa maniera, i sacerdoti con il loro cantare contribuirono a calmare gli spiriti della gente ed aiutarono a unirli con coloro che dirigono il coro celeste. Pertanto, quando i Salmi vengono cantati, non è da alcun semplice desiderio di ascoltare musica soave piuttosto l’espressione esteriore dell’armonia interiore che si ottiene nell’anima, perché tale recitazione armoniosa è in se stessa l’indice di un cuore pacifico e bene ordinato. Il rendere lode a Dio, armonicamente su di uno strumento come cimbali bene accordati, cetra o il salterio a dieci corde è come sappiamo, un segno esteriore che i membri del corpo e i pensieri del cuore sono, come gli stessi strumenti, in proprio ordine e controllo, ognuno di essi vivendo e muovendosi insieme dal grido e dal fiato dello Spirito. E similarmente, come è scritto che “dallo Spirito un uomo vive e mortifica le sue azioni fisiche” così colui che canta accorda la sua anima, correggendo gradualmente il suo ritmo fallace così che alla fine, essendo pienamente naturale ed integrato, non ha paura di niente, ma in pacifica libertà da tutte le immaginazioni futili può applicarsi con maggiore bramosia verso le cose buone prossime. Perché un’anima propriamente ordinata dal cantare le sacre parole dimentica le proprie afflizioni e contempla con gioia solo le cose di Cristo”. Insomma, già elementi importanti per una teologia della musica liturgica ci vengono dalla riflessione del grande vescovo di Alessandria.


 

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