di Marco Ferraresi
Di recente i cattolici c.d. tradizionalisti (più spesso, spregiativamente, “ultra cattolici” o di “estrema destra”) hanno guadagnato ampio spazio su testate giornalistiche locali e nazionali. Non capita spesso e, se accade, è perché l’hanno fatta grossa. Per meritare simile attenzione occorre ad es. che la “Messa in latino” sia rilegittimata; che dei Cardinali si oppongano alla Comunione dei pubblici concubini; o che ci siano di mezzo le associazioni LGBT.
E’ successo che – mentre si organizzavano manifestazioni di orgoglio per tendenze carnali di vario tipo, rivendicare il “matrimonio” egualitario e l’introduzione del reato di eteropinione – gruppi di fedeli decidessero di reagire con momenti di preghiera di riparazione. Ora, pregare in riparazione, per i cattolici, è diventato come applicare le terapie riparative, per gli psicologi. Ordini professionali e Ordinari locali, a seconda dei casi, non sempre gradiscono, perlopiù si dissociano, talora sanzionano. Per questo, i laici che si imbarcano in simili esperienze, probabilmente, devono avere molta fede o assumere il rischio come mestiere, secondo la parola di San Paolo: “pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli da parte di falsi fratelli” (1Cor 11,26).
I tre eventi di preghiera pubblica – Reggio Emilia (3 giugno), Pavia (10 giugno), Varese (17 giugno) – hanno presentato aspetti in parte diversi e in parte analoghi. L’evento reggiano, con il Comitato Beata Giovanna Scopelli, si è distinto per la sua ampia capacità di aggregazione (come era opportuno in reazione a un gay pride di rilievo nazionale) e per l’abilità nel volgere a proprio favore la risonanza ostile dei grandi media. Quello pavese, con il Comitato Beata Veronica da Binasco, per essersi realizzato essenzialmente in Cattedrale e in liturgie d’orario, con una difesa da parte del Vescovo, pur estraneo all’organizzazione. Quello di Varese, per il buon seguito numerico nonostante la dimensione meramente cittadina. A Reggio e a Varese l’opposizione del clero è stata più o meno evidente, ma i fedeli hanno potuto contare sull’appoggio dei sacerdoti della Fraternità San Pio X.
In tutti i casi, gli organizzatori hanno subìto valanghe di insulti, di violenza verbale inaudita. Ma, in tutti i casi, non hanno ceduto di un passo, portando a termine l’iniziativa, pur con le modifiche di programma costrette dalle reazioni interne o esterne alla Chiesa (si pensi, a Varese, alla proibizione di calcare il sagrato della Basilica di San Vittore, con conseguente trasferimento ai piedi del Sacro Monte).
Indubbiamente la processione di Reggio Emilia ha avuto un ruolo chiave, anche di traino, incoraggiando il coming out di chi non si rassegna alla omosessualizzazione della società e delle sue istituzioni, convinto che le relazioni omosessuali costituiscono “gravi depravazioni” e che gli atti relativi sono “intrinsecamente disordinati”, “contrari alla legge naturale”, perché “precludono all’atto sessuale il dono della vita” e dunque “in nessun caso possono essere approvati” (Catechismo della Chiesa cattolica, par. 2357).
Lo si è detto con lo strumento più umile: la preghiera. Ecco perché, per screditare i partecipanti, occorre inventarsi – giudicando i cuori – intenzioni provocatorie e sentimenti di odio. Eppure, pregare per la grazia della conversione propria e altrui è l’atto di amore più vero che si possa immaginare.
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