In ogni Parrocchia ci sono svariate catechiste, persone dolci e preziose, che con passione cercano di tramandare il messaggio di Gesù e della Chiesa a reggimenti di bambini, spesso indisciplinati. Tra le catechiste, però, se ne annida sempre una brutta. La catechista brutta è solitamente bassa e rotondetta, con i capelli biondo tinti, i modi esuberanti come il vestiario e un tono di voce capace di stordire le orecchie di un sordo. La catechista brutta è la tipica villana, che sopperisce alla sua mancanza di educazione con un entusiasmo fastidioso e fuori controllo, ripetendo frasi fatte e modi di dire in occasioni opportune, ma soprattutto inopportune.
La catechista brutta la si riconosce, oltre che per la sua grettezza e piccineria, per il nome che finisce quasi sempre in “ella”: Lorella, Raffaella, Gabriella, Antonella, Donatella, Ornella, Gisella, Marinella… Ma quella catechista lì era davvero un concentrato di bruttezza e, siccome omen nomen, il chiamarsi Lella confermava appieno la teoria succitata. Il pretone da quando era in città non si preoccupava più della catechista brutta, sperando non solamente di non incontrarla ma, nel malaugurato caso accadesse, di non averci a che fare. Nonostante, per sicurezza, don Camillo redivivo se ne stava lontano da tutte le catechiste della Parrocchia, l’incontro avvenne e non indolore. Si sa: l’uomo propone e Dio dispone e, pertanto, fece conoscenza suo malgrado della Lella alias la catechista brutta che più brutta non si può.
Era una domenica mattina e in quella Parrocchia era via il pretino giovane dell’Oratorio, quello insomma che aveva il compito di seguire da vicino i ragazzi e accompagnarli nel loro cammino di fede. E fu chiesto di celebrare al povero don Augusto. I bambini gli mettevano allegria, un po’ meno presiedere un rito caotico e confusionale, come capitava in quasi tutte le Messe con la presenza massiccia di ragazzi. Tutto, però, filò via liscio, tranne quando arrivò il momento delle preghiere dei fedeli: un fila innumerevole di bambini si accingeva a leggere, perlopiù sillabando e incespicando, un insieme di preghiere da far accapponare la pelle a ogni buon cattolico, tranne ovviamente alle catechiste e alle nonne che riconoscevano gli sventurati nipoti e nipotine proclamare malamente cose illeggibili e non solo per grammatica. Il povero prete sospirò e tenne duro e la Messa, Deo gratias, si concluse senza altri intoppi liturgici. Giunto in sacrestia uno scambio di battute col gioviale Parroco sulla funzione appena celebrata fu fatale per don Augusto.
Poco dopo come una bestia scappata dal circo si fiondò in sacrestia la catechista brutta piena di sorrisi e di cattive intenzioni. Il pretone se ne accorse e fece di tutto per andarsene via indenne, ma si sa: l’uomo propone e Dio dispone. «Cosa c’è che non è andato in questa bellissima celebrazione?», chiese viscida e all’apparenza gentile la catechista brutta, che davanti al “Niente” di risposta non si arrese e incalzò.
«Sono venuta qui per imparare, Reverendo», sibilò, «ci deve dire se abbiamo sbagliato in qualcosa, mi pare di aver intuito una sua lamentela sulle preghiere scritte e lette dai bambini». Don Augusto non capiva come quell’arpia avesse saputo subito la cosa.
“Forse il Parroco gioviale nella sua giovialità aveva spifferato qualcosa”, pensò con malanimo. Del resto è risaputo che a pensar male si fa peccato ma ci si indovina. A pensarci bene, poi, non era tanto lontano dal vero che non poteva soffrire di per sé la cosiddetta preghiera universale. In realtà, non aveva nulla contro questa antica forma di orazione, ma il suo odierno uso lo infastidiva quando, per esempio, venivano proclamati palesi errori teologici. Il più ricorrente riguardava la prima invocazione, abitualmente per la Chiesa, presente nei vari e orribili formulari preconfezionati. In questi libretti disseminati in giro un po’ dappertutto non si distingueva mai in modo esatto la Chiesa in quanto santa, intesa cioè come communio sanctorum e Corpo mistico di Cristo, dalla gerarchia istituzionale e dagli uomini che la compongono in statu viae. Il rischio era quello di lanciarsi in preghiere, a dir poco ardite, per la conversione della Chiesa o perché potesse restare fedele al Vangelo, e via discorrendo, con l’effetto di ingenerare nei fedeli ancora più confusione in materia ecclesiologica, come se non ce ne fosse già abbastanza.
«Nelle otto che avete letto, vi siete dimenticati un’invocazione sulla Chiesa, che invero dovrebbe esserci sempre», rispose vago don Augusto.
«Abbiamo pregato per il mondo», ribatté l’altra con tono cattivo.
«Già», sospirò in risposta il prete, «e da come avete dimenticato di pregare per la “Chiesa” e il modo in cui l’avete fatto per il “mondo”, l’impressione che i due vocaboli, “mondo” e “Chiesa”, rispetto all’uso corretto si siano semplicemente scambiati di senso. Ad ascoltare la vostra preghiera per il “mondo” viene da domandarmi perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la “Chiesa”, peggiorando notevolmente le cose».
«Reverendo, il suo ragionamento non mi convince, noi viviamo nel mondo… la prossima volta comunque saremo più attenti».
Il “non mi convince” diede il “là” al nostro don Camillo che partì sparato. «Noi viviamo nel mondo, ma siamo o dovremmo essere Chiesa: nel mondo, ma non del mondo, ricorda la Lettera a Diogneto?».
Davanti alla palese ignoranza iscritta sulla brutta faccia della catechista brutta, don Augusto proseguì, «Rammenta la parola di Gesù? Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia?».
L’unica risposta fu una desolante scrollata di spalle, che innervosì il pretone.
«Per quanto riguarda l’attenzione», riprese pertanto serio, ormai inarrestabile, «ricordatevi anche che l’Eucaristia è rendimento di grazie, ossia atto di ringraziamento al Padre per mezzo del Figlio nell’unità dello Spirito Santo. Non si deve utilizzare come ringraziamento proprio uno dei pochi spazi della Liturgia finalizzati per chiedere, salvo poi trasformare in modo bislacco il ringraziamento in preghiera, con un’acrobazia sintattica, per giustificare la risposta Ascoltaci, Signore. Peggio ancora, quando non avete ringraziato più neanche Dio, bensì il vostro Gruppo, i vostri genitori, amici, coloro che vi permettono di fare esperienze di fede e così via, avendo forse compreso male il momento: l’Eucaristia è il luogo in cui si deve ringraziare sempre e solo Dio, mai se stessi!».
La catechista brutta accusò il colpo, ma non ebbe il tempo di replicare.
«In secondo luogo», proseguì il pretone come un caterpillar, «non costruite più le preghiere mediante la struttura Per…, affinché…: Dio non ha bisogno di essere istruito sul da farsi, quasi fosse troppo distratto o, peggio, incompetente. Inoltre, la preghiera universale non è una piccola omelia in cui si commenta il testo biblico appena letto né si devono elencare i fatti di cronaca come avete fatto voi (Nella nostra Parrocchia in questi giorni…) o spiegare reconditi significati della stessa Messa (Oggi abbiamo ascoltato… e quindi dobbiamo…). Infine, dovete evitare l’eresia modalista…».
Dinnanzi all’espressione del viso a forma di domanda, che risultava orribile come la faccia della catechista brutta, don Camillo redivivo spiegò: «L’eresia modalista è quella che nega la distinzione reale delle Persone divine concependo la Trinità come un modo diverso di manifestarsi di Dio, dove ciascuna Persona dell’essenza divina può esistere solo in una forma alla volta».
Si schiarì la voce, notando l’interlocutrice sempre più spaesata, ma un poco rincuorata dall’arrivo del gioviale Parroco.
«Dicevamo», continuò il pretone, «la gran parte della liturgia è indirizzata al Padre e, dunque, non sarebbe male che anche le preghiere dei fedeli rispettassero questo principio. Certamente possono essere rivolte anche al Figlio e allo Spirito, ma oggi, in ossequio al moderno dogma della par condicio, io ho fatto, come doveroso, un’introduzione presidenziale rivolta al Padre, mentre le preghiere le avete dirette al Figlio e nell’ultima vi siete rivolti pure allo Spirito Santo. Una bel casino, con rispetto parlando».
La catechista brutta poteva solo grugnire dinnanzi a quei ragionamenti e rimase lì impassibile davanti a questioni che neppure capiva né poteva comprendere il suo cervello fatto perlopiù di osso duro come il marmo. Intervenne allora il gioviale Parroco, che tentò di salvare il salvabile, peggiorando notevolmente le cose.
«Beh, dai… in questo modo le preghiere dei fedeli sono più coinvolgenti, con i bimbetti che le leggono con tanto sforzo di volontà… a me piace!».
La catechista brutta si riscosse con un mezzo ghigno della faccia taurina e il povero don Augusto, “con tanto sforzo di volontà” si trattenne ed ebbe soltanto la forza di dire: «Amen», allargando le braccia sconsolato. Davanti al “mi piace”, quale criterio veritativo, il pretone poteva divenire pericoloso: a lui sarebbe infatti “piaciuto” in quel momento tirare un pugno alla Bud Spencer all’uno e uno sganassone alla Terence Hill all’altra e buttare la discussione in rissa. Per fortuna nella sua condotta morale il criterio principe da seguire non era il piacere. Si limitò quindi a formulare un pensiero tra sé e sé, che non ebbe il coraggio di dire a nessuno dei due interlocutori, più che altro perché non sapeva a chi rivolgere la famosa frase di Oscar Wilde che gli era venuta in mente. Sennonché, a ponderare bene le cose, era adatta sia al Parroco gioviale sia alla catechista brutta.
Allontanandosi dalla sacrestia sconfortato, infine sorrise mentre ripeteva nella sua mente le parole del poeta irlandese:
“A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio”. Pubblicato il 21 giugno 2017
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