di Giorgio Enrico Cavallo
Soffriva, poveretto. Tanto, prima o poi sarebbe morto comunque. No all’accanimento terapeutico. Ne abbiamo sentite tante, sulla storia di Charlie Gard. Troppe: contro chi prendeva le difese di questa creatura innocente condannata a morte, è stata sfoderata la più classica delle antologie della cultura (?) contemporanea. Che senso ha vivere quando si soffre? Perché negare un gesto di misericordia ad un bimbo che tanto morirà? Perché accanirsi su di lui? Guai a rispondere parlando di diritto alla vita. Guai a rispondere che la vita è sacra. Guai, soprattutto, a rispondere che per i cattolici ci sono dei comandamenti da rispettare, tra i quali il quinto che più o meno (cito a memoria, eh) dice così: “non uccidere”. Non: “non uccidere le persone sane, ma uccidi pure i malati”. No: c’è scritto proprio non uccidere.
Siamo arrivati a questo punto. Siamo uomini che si credono colti, istruiti, sapienti, perché abbiamo studiato nelle università, abbiamo fatto i master, siamo il top. Ma a differenza dei nostri avi, che erano rozzi, ignoranti e analfabeti, noi uomini di scienza, di lettere e dall’intuito fino abbiamo dimenticato l’importanza della vita e della morte. E l’abbiamo dimenticato – pensiamoci bene – perché abbiamo rimosso chi ci abbia messo a questo mondo, oppure perché abbiamo deliberatamente scelto di porci dall’altra parte della barricata. Quella del male. Avete presente la scena de “I demoni” di Dostoevskij, nella quale Aleksej Kirillov si suicida per dimostrare l’inesistenza di Dio? Un suicidio educativo, il suo: perché, secondo una frase che Dostoevskij userà anche ne “I fratelli Karamazov”, se Dio è morto, tutto è possibile. Anche ammazzarsi o, per estensione, anche ammazzare il prossimo. Chi ti fermerà? Uccidendo Dio, portandolo lontano dalla nostra società, dalla nostra casa, dalla nostra anima, credevamo che tutto fosse possibile. Ci credevamo degli eroi. Invece, è possibile soltanto scegliere la morte: la propria o quella altrui. Ma mai scegliere la vita, perché la vita è Cristo.
Dunque, signori, la questione è tutta qui: o torniamo a Cristo, o altri Charlie saliranno sul patibolo. E mica i criminali: no, per loro c’è la comprensione della società. C’è il pubblico perdono. C’è il “chi sono io per giudicare”. Non che si debba condannare a morte un criminale: anche per loro vale il diritto alla vita. Ma per Charlie non c’è stata comprensione. Non c’è stato perdono. Non c’è stato nessuno che si sia chiesto: “chi sono io per giudicare se una vita deve essere vissuta o no?”. I giudici l’hanno detto: quel bambino deve morire, i genitori devono rassegnarsi. Possono sempre farne un altro, di bambino, no? Tanto, i bambini sono degli usa-e-getta, alla stregua degli oggetti che si comprano e se si rompono, pazienza. Ne compri un altro.
L’amoralità dell’Occidente è tutta condensata nella storia di Charlie. La mostruosità del suo apparato giuridico è tutta qui. Perché quel bambino poteva avere una possibilità di guarire, seppur remota. Perché quel bambino era amato dai genitori. Perché quel bambino era vivo. Lo hanno condannato perché chi ha la morte nel cuore non può far altro che scegliere la morte. Si dirà: ma la sofferenza? Si dovrà rispondere: ma la vita? Cos’ha più valore: la sofferenza o la vita? Cos’è preferibile: la morte o la vita? Chi è che scegliamo: il Nemico o Cristo?
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