Come è noto, questo blog non è
solito dare spazio alle vicende di cronaca nera, che occupano invece con sempre
maggiore frequenza le prime pagine dei quotidiani e i palinsesti delle
televisioni. Questa volta ce ne occuperemo, seppure per vie traverse.
Mi è passato sotto mano un commento pubblicato sull’Huffington Post da tale Deborah Dirani, intitolato "Non esistono mamme buone e mamme cattive". Non so bene
chi sia questa Dirani: nel suo spazio all’interno del noto quotidiano on line si definisce
“donna, prima, giornalista, poi”. E tutto sommato dobbiamo riconoscerle una
certa sincerità, perché di giornalismo, a scorrere i suoi contributi, vediamo
veramente poche tracce. Due commenti indignati su due fatti che nelle settimane
scorse hanno fatto molto discutere: il prof che avrebbe picchiato un alunno
gay a Perugia e Casapound che avrebbe impedito ai figli dei rom di recarsi a
scuola. Un episodio abbastanza strano il primo, sul quale forse sarebbe stata
necessaria maggiore cautela prima di sbattere il mostro in prima pagina; una
clamorosa bufala il secondo, come dichiarato dalla stessa Questura nel giro di
qualche ora. Insomma, niente male per una sedicente giornalista. Chiude il
quadro la lettera a una figlia immaginaria sulla violenza maschile contro le
donne, in cui ovviamente si ripropone l’immagine unilaterale dell’uomo carnefice
e della donna vittima. Tant’è.
Il post sul quale volevo attirare
la vostra attenzione, però, riguarda l’omicidio del piccolo Loris Stival, di
cui è accusata la madre Veronica Panarello. Tutto l’articolo va letto con
attenzione, ogni paragrafo merita di essere assaporato. Scrive dunque Deborah:
“Le mamme non nascono buone e non nascono mamme. L’errore di fondo sta tutto
qui, o almeno sta qui nella società occidentale contemporanea che ha fatto
dell’istinto materno una sorta di replica dell’Immacolata Concezione”. Ora, noi
pensavamo che, più che di Immacolata Concezione, si trattasse del semplice
istinto di protezione che qualsiasi animale nutre nei confronti dei propri
cuccioli. O, che so, un basilare senso di umanità, del tipo “Quale padre tra
voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un
pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà
uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai
vostri figli", etc. etc. etc. (Lc 11, 11-13). “Se dunque voi, che siete
cattivi”: altro che Immacolata Concezione. Il Cattolicesimo, che considera la
natura umana (maschile e femminile) ferita dal peccato originale, non si lascerebbe mai andare a una
visione così naif. L’essere umano – uomo o donna che sia – non è completamente
buono per natura, ma nonostante questo può distinguere il bene dal male e decidersi a favore
del bene, soprattutto se è sostenuto dalla Grazia. Non si capisce,
dunque, dove voglia arrivare la Dirani: il fatto che la donna non sia né "santa" né "puttana", ma un "semplice essere umano", giustifica forse un infanticidio?
Così sembra di leggere tra le
righe: “le mamme sono persone e le persone commettono errori incomprensibili”,
“la nostra società non le aiuta in alcun modo”, anzi presume che “se sei mamma
dentro di te hai la risposta ad ogni problema, anche a quel dolore che ti
accompagna da sempre, anche a quella rabbia che ti porti dentro fin da quando
sei venuta al mondo”. Ma queste sono “palle” – continua indignata Deborah:
“palle di una società antropocentrica [sic! semmai “androcentrica”, cara
Deborah] e maschilista, che si scrolla le spalle davanti all'inevitabile peso
della genitorialità e ne fa una questione di istinto femminile. Perché quando
un padre uccide un figlio è solo un uomo violento, un barbaro osceno ma
accettabile. Ci sta, è nel conto delle cose: il maschio ammazza, la donna
cura. E se non lo fa è un mostro incomprensibile, inaccettabile.”. Questo sì
che è parlare: par condicio, anche l’infanticidio materno diventi “socialmente
accettabile”! (ma poi, quando mai lo è quello compiuto dai padri?) In un simile
delirio si comincia a perdere un po’ la bussola, prima ancora che la pazienza.
E dire che in
fondo si potrebbe anche essere d’accordo con lei: è vero che “ipoteticamente potrebbe succedere ad ognun[o] di noi”. E’ vero che nessuno di
noi sa cosa sia passato nei pensieri e nel cuore di quella madre, quando ha
deciso – ammesso che lo abbia fatto, come fa notare la stessa Deborah con un
ostentato garantismo di cui non aveva dato prova in altri suoi articoli – di
ammazzare il proprio bambino. Nessuno di noi conosce gli abissi nei quali può
sprofondare ogni essere umano, soprattutto quando la sofferenza, il dolore, la
frustrazione prendono il sopravvento. E ciascuno di noi è come Amleto: “virtuoso
abbastanza, e tuttavia mi potrei incolpare di tali cose, da pensar che sarebbe stato meglio che mia
madre non m’avesse partorito”.
Proprio per questo la Chiesa
Cattolica, nella sua millenaria saggezza, ha sempre praticato l’intransigenza
verso il peccato ma la misericordia verso il peccatore; ha sempre rifuggito il
moralismo giustizialista di certo puritanesimo o di certo giacobinismo.
Soprattutto, essa ha sempre educato gli esseri umani a disciplinare i propri
istinti, a tenersi lontani dal ciglio del burrone, a evitare non solo il
peccato, ma – come si recita nell’Atto di Dolore – persino “le occasioni
prossime di peccato”. Un insegnamento di saggezza, di prudenza, di realismo,
spazzato via dalla civiltà dell’edonismo di massa, improntata – per dirla in
termini freudiani – all’eliminazione di ogni residuo di Super-Io e al
prorompente emergere delle forze dell’Es, di un elemento dionisiaco sempre più
libero di spadroneggiare e di nuocere.
Dunque, si potrebbe quasi
concordare con Deborah, se solo non sbagliasse completamente la diagnosi. Il
male non sta nell’additare modelli positivi, o nell’incoraggiare la fedeltà al
proprio status, ma sta esattamente nell’opposto: in una civiltà che genera
aspettative destinate a rimanere in gran parte frustrate, nell’insoddisfazione
e nel senso di vuoto che ne derivano.
Soprattutto, potremmo essere
d’accordo se Deborah manifestasse la stessa comprensione verso, che so, qualche
femminicida. Se anche lì si dedicasse a rintracciare nella vita degli assassini
la sofferenza, il disagio, la depressione, l’amore frustrato, le umiliazioni
subite. Se evitasse di utilizzare i delitti contro le donne come un’arma
ideologica, volta a criminalizzare in blocco il genere maschile, considerato
“carnefice” per eccellenza”, e a santificare – questa volta sì – il genere
femminile, elevato al rango di “vittima” naturale e quasi metafisica. La compassione per l’essere umano, anche per
l’omicida, cara Deborah, va praticata sempre e non a seconda di chi sia
l’assassino. Altrimenti l’impressione che si ricava è quella di una discutibile
attenuante di genere, che farebbe il paio con la ridicola aggravante di
“femminicidio”.
E infatti, quasi quasi, anche la
morte del piccolo Loris è colpa degli uomini. Del padre in particolare, che
nell’articolo viene definito, non si sa sulla base di quali elementi, “assente”
(eh, questi padri che si ostinano a voler portare a casa il pane…). Si
comprenda dunque la povera Veronica, dal momento che nessuno “ha aiutato questa
donna a imparare a amare i suoi figli e il suo sfigatissimo destino”.
Per conto nostro, ci limitiamo ad
aggiungere che tanti altri hanno avuto le stesse sofferenze e le stesse
difficoltà, eppure non hanno ammazzato i propri figli. Che, se è vero che il confine tra buoni e cattivi è a volte più sfumato di quanto sembri, la differenza tra bene e male esiste ed esiste anche la malvagità pura, che come tale va considerata. E che questa ostentata
indulgenza verso il carnefice, a cadavere della piccola vittima ancora caldo,
ha un che di sgradevole. Ma si capisce: donna, prima, essere umano, poi.
Pubblicato il 18 dicembre 2014
Una volta ho subito l'isteria di una che non sopportò di sentirmi dire che sono stufo di essere considerato un potenziale stupratore solo perchè sono nato senza tette. Mi chiedo tale signorina cosa pensi di certe madri... Ah no, lo so: sono colpevoli di non avere abortito, quindi peggio per loro... PMF
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