di Andrea Virga

Era
una morte a lungo attesa, a giudicare dalla sua presenza nell’umorismo popolare
italiano: man mano che gli anni passavano ed altri grandi personaggi della
politica passavano a miglior vita, si susseguivano le battute, di vario gusto,
sulla sua longevità, o addirittura immortalità. Eppure, ora che Giulio
Andreotti è morto davvero, la prima reazione è per molti di noi quella
d’incredulità. Naturalmente, non sono mancati né gli sperticati elogi di rito
(fortunatamente, pochini) né le invettive e i cachinni post mortem. Tracciarne, tuttavia, un profilo, per quanto breve,
richiede una certa equanimità, essenziale per cogliere la complessità della sua
figura di statista.
Nato
a Roma il 14 gennaio 1919 e laureato in Giurisprudenza (1941), la sua carriera
politica ebbe inizio a partire dalla Federazione Università Cattolica Italiana,
di cui diresse la pubblicazione “Azione Fucina” (1939), per poi presiederla dal
1942 al 1944, succedendo ad Aldo Moro. Amico di De Gasperi, partecipò alla
stesura del Codice di Camaldoli (1943), e venne poi designato dal politico
trentino alla Consulta Nazionale (1945) e all’Assemblea Costituente (1946). Dal
1948 ad oggi, prima eletto come deputato poi nominato senatore a vita (1991),
era sempre stato ininterrottamente membro del Parlamento italiano. Esordì in
incarichi di governo come Segretario del Consiglio dei Ministri (1947 – 1954),
per poi diventare il più giovane Ministro degli Interni (1954). In questo
periodo, presiedette sette Governi (1972 – 1973, 1976 – 1979 e 1989 – 1992) e
ricoprì per ventuno volte la carica di Ministro, in particolare alla Difesa (sette
volte, 1959 – 1966 e 1974) e agli Esteri (cinque volte, 1983 – 1989).
In
questo mezzo secolo d’attività, fu quindi uno dei protagonisti della politica
italiana. A voler individuare la cifra del suo agire politico, la si può
esprimere in un realismo politico, del tutto in linea con la tradizione non
solo italiana, ma più in generale cattolica, da Machiavelli a Schmitt, dai Papi
ai Savoia. Questo realismo nasce dalla consapevolezza della limitatezza degli
esseri umani e si traduce da una parte in un’umiltà e sobrietà personale,
dall’altra nel compimento del proprio dovere di servitore dello Stato, con
polso e freddo pragmatismo, fino al gesuitismo e al cinismo. In questo senso,
l’immagine positiva di un Andreotti modesto, schivo degli onori e lontano dai
riflettori mediatici combacia perfettamente con l’immagine negativa di un
Belzebù della politica, “scatola nera” di tutti gli intrighi di potere della
Prima Repubblica.
Un
esempio preclaro di questo realismo ci è dato dal suo rapporto con gli
avversari, che seppe osteggiare e combattere, senza affettare pregiudizi
ideologici. Si oppose al fascismo, durante la guerra civile, e ancora più
tardi, declinò sempre alleanze con il MSI, in quanto inopportune, ma senza
nutrire mai quell’antifascismo ideologico proprio delle sinistre. Al tempo
stesso, pur operando sempre all’interno di una politica atlantista, volta al
contenimento dei comunisti, restò comunque alieno da certo rabbioso
maccartismo, tipico delle destre, al punto da arrivare a sostenere un governo
di compromesso storico, ma secondo la “politica dei due forni”, ossia
l’appoggiarsi al PSI o al PCI a seconda delle convergenze. Era la vecchia
politica della sinistra democristiana di governare l’Italia, mantenendosi il
più possibile autonoma sia dagli agenti di Mosca sia dai camerieri di
Washington. Andreotti, Ministro della Difesa ai tempi di Fanfani e Ministro
degli Esteri sotto Craxi, seguì questa strada, conducendo una politica
mediterranea filoaraba e parzialmente autonoma rispetto alle direttive NATO.
L’altra
faccia di questo pragmatismo resta però oscura. Ciò non dipende, però, tanto
dai suoi coinvolgimenti con personaggi quali Licio Gelli o Michele Sindona, o dai
suoi effettivi rapporti con Cosa Nostra, di cui costituì plausibilmente uno
degli interlocutori istituzionali: la stessa Repubblica Italiana – dallo sbarco
in Sicilia alla repressione dei moti contadini e operai e al mantenimento
dell’egemonia elettorale democristiana – è stata del resto fondata con il
concorso della mafia, della massoneria e dei servizi segreti stranieri. Questa
sporcizia scandalizza i paladini della legalità borghese, esportatori di
democrazia e diritti umani a suon di bombe, ma è il prezzo che un popolo deve
pagare per aver perduto la propria sovranità; insieme alla sua dose di bombe
(da Gorla e Via Rasella a Bologna e Capaci), naturalmente. Chi ne tocca i fili,
da Mattei a Dalla Chiesa a Falcone, muore, e Andreotti era troppo furbo per
morire.
Il
vero lato oscuro del realismo democristiano, da lui incarnato, è tuttavia un
altro, in parte legato a quanto detto sopra, ossia la lenta ma inesorabile
secolarizzazione, anzi scristianizzazione, dell’Italia, a cui un partito
dichiaratamente cristiano presiedette senza mai reagire, come un topo
ipnotizzato da un serpente. La ricerca accurata della stabilità politica, la
gestione misurata del consenso e degli equilibri, l’abdicazione ad un ruolo
formativo dello Stato nei confronti della Nazione e il fallimento nel
coinvolgimento delle masse avevano indebolito man mano le nuove generazioni di
elettori cattolici, anche per colpa di un clero travolto dagli entusiasmi
conciliari e ridotto a inseguire pateticamente lo spirito del mondo. Gli eventi
cruciali di questa discesa agli inferi sono stati la legalizzazione del
divorzio (1970) e dell’aborto (1978), a cui fece seguito il fallimento dei
relativi referendum abrogativi (rispettivamente 1974 e 1981).
Andreotti, che firmò di persona la legge sull’aborto,
e con lui l’intera classe politica democristiana, permise e tollerò questi
crimini. In nome di questo realismo, non solo si è retto lo Stato, ma si è dato il via alla
disgregazione delle famiglie italiane e sono stati condannati a morte milioni
di bambini non nati. Di questo, ancora oggi, dovrebbero tenere conto quei
cattolici che ancora straparlano di male minore e di voto utile: quel
pragmatismo che può essere positivo in fatto di politica estera, economica e
sociale, non lo è quando si tratta di principi non negoziabili.
Pubblicato il 09 maggio 2013
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