Negli ultimi tempi l’attenzione
dei media si è concentrata sui numerosi casi di suicidio imputabili alle difficili
condizioni economiche che si protraggono ormai da oltre 4 anni: la mancanza di
lavoro o l’incapacità di saldare i debiti della propria azienda porta i
lavoratori (siano essi dipendenti o autonomi) e gli imprenditori alla
disperazione, e spesso al suicidio. Analizzando i dati disponibili (come viene
lucidamente fatto in
questo articolo), si può vedere con chiarezza come vi sia stato un
incremento netto dei suicidi a partire dalla crisi economica. Non si tratta quindi
di un fenomeno mediatico, anche se mi infastidisce molto (come ex aspirante
giornalista) la scelta della tempistica da parte dei media: perché ora? Perché
non quando il fenomeno è iniziato? Perché? Ma andiamo oltre.
Avevo da tempo l’intenzione di
scrivere qualche riflessione su questa catena di suicidi (che purtroppo continua
e spesso coinvolge altre persone), cercando come sempre di offrire un’umile lettura,
svolta su vari livelli: etico (la questione del significato e delle cause del
suicidio), antropologico (il valore assoluto della persona umana di fronte la
contingenza economica) e teologico (la vita come proprietà -e dono- di Dio, da
preservare sempre e comunque). Ma, come disse l’Amleto di Shakespeare, “ci sono
più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”! E,
tra le cose in cielo e in terra, che ogni tanto allietano, vi è stata la potente
reazione di una
figlia che ha salvato il padre dal suicidio. Una notizia carica di gioia e
di speranza, ma anche di spunti di riflessione.
Ci si può chiedere quali
possano essere i pensieri e le inquietudini di chi, oppresso dai debiti o
disperato per il lavoro perduto, decida di compiere il gesto estremo, nella convinzione
(tragica quanto paradossale) che farla finita è meglio di continuare a vivere
in condizioni indegne (e per condizioni indegne intendo anche “indegnità” ben
peggiori, i lettori accorti avranno capito l’allusione). Personalmente penso
che la disperazione non derivi solo da un problema economico (i debiti da
pagare, la famiglia da mantenere), o psico-sociale (il disagio di essere
disoccupato, la vergogna di essere considerato un fallito), quanto dalla
solitudine che caratterizza questi momenti, quando ci si rende conto di non
avere sostegni, ed essere zoppi di fronte ai drammi della vita. Questo momento
storico (e in particolare questa crisi) mostra chiaramente quanto siamo tutti
più soli e quindi più fragili, incapaci di condividere (soprattutto in
famiglia) i momenti di difficoltà e di vuoto (a pensarci bene, questo è un
effetto o una causa della crisi?). Che la maggior parte dei suicidi abbiano come
protagonisti uomini con alle spalle un matrimonio fallito la dice lunga sulla loro
situazione di isolamento.
Però c’è un però. Fra i molti
casi tragici che abbiamo letto sui giornali, questo di Lecco mostra una figlia
che, nel periodo più bello, carico di novità e di speranze della propria vita, si
ritrova il padre appeso ad una corda e decide (ma si può parlare di decisione
in questi casi?) di salvarlo. E lo sostituisce di fatto nel suo ruolo di
educatore (ed anche qui si potrebbe aprire una questione infinita sul ruolo
dell’educatore - e del genitore - oggi). Chissà cos’ha pensato quel padre penzolante
che ormai credeva di aver chiuso! Avrà pianto per la tristezza del suo cattivo
esempio, o avrà gioito per la comprensione amorevole, magari immaginando che,
tra le grida e gli sforzi, la figlia abbia potuto pensare “Eh no papà, qua ci
sono io!”? È tutto qui il punto. Fa quasi sorridere l’articolo, quando mostra
la ricetta alla disperazione del padre: la psichiatria. Sarà sicuramente
d’aiuto, ma direi piuttosto che, se la solitudine uccide, solo l’alterità può
salvare, sia essa espressa da un familiare, un amico, o anche uno sconosciuto. La
presenza dell’altro e la possibilità di relazionarsi a lui è una fra le
soluzioni al problema della disperazione e della solitudine dei nostri tempi, un
rimedio all’indigenza dell’individuo, che solamente nelle persone che lo
circondano trova un senso, un qualcosa che gli manca per realizzarsi. L’uomo
nasce dipendente dagli altri non solo a livello biologico, ma anche psicologico
e sociale, e solo le relazioni, in particolare quelle di amicizia (di amore di
amicizia, come diceva Aristotele) permettono la realizzazione della persona,
perché impegnano il suo intelletto e la sua volontà, e la mettono al servizio
dell’apertura, della sovrabbondanza e della gratuità. Come diceva John Donne in
una sua famosa poesia, “Nessun uomo è un’isola”.
Pubblicato il 24 maggio 2012
Sempre ottimo Piazza!!
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