Il documento finale del sinodo dei giovani ha lanciato l’appello: servono dei nuovi santi! Giustissimo. Come “coltivare” questa santità, però, è rimasto un vero enigma. Eppure, i 167 paragrafi del documento avrebbero potuto essere del tutto inutili: se la necessità è quella di avere dei nuovi santi, un sinodo rivolto ai giovani non avrebbe potuto far altro che indicare la via tracciata dagli innumerevoli santi giovani, da san Luigi Gonzaga a santa Maria Goretti, da santa Gemma Galgani a san Domenico Savio.
Proprio in riferimento a quest’ultimo, mi sia permessa una digressione personale. La mia famiglia ha ospitato, nelle scorse settimane, una ragazza giapponese. Mia moglie aveva in casa un vecchio libriccino su san Domenico Savio, scritto in giapponese e presumibilmente rivolto a chi sa poco o niente della Chiesa Cattolica. La ragazza l’ha letto con vivo interesse, scoprendo qualcosa a lei completamente sconosciuto: non conosceva don Bosco, non conosceva i rudimenti della fede cattolica. Leggere la vita di quell’umile ragazzo del Piemonte ottocentesco le ha lasciato qualcosa di positivo: ha scoperto l’assiduità ai sacramenti, la serietà, la fedeltà di un ragazzo, la sua devozione, l’orrore che provava per il peccato. Sarebbe bastato il motto di questo santo giovanissimo (“la morte, ma non il peccato”) per dare un vago senso al Sinodo 2018.
Invece, niente di veramente profondo ed utile traspare dalla (scontata) lettura del documento sinodale. Si dà importanza all’ascolto, «un incontro di libertà, che richiede umiltà, pazienza, disponibilità a comprendere» (§ 6), che ha «valore teologico e pastorale» (§ 9). Si sostiene la «necessità che la Chiesa si schieri coraggiosamente dalla parte [degli emarginati] e partecipi alla costruzione di alternative che rimuovano esclusione ed emarginazione» (§ 11). Il testo analizza a volo d’uccello i problemi di oggi, dall’esclusione sociale ai rischi del web, dalla sessualità disordinata al precario mondo del lavoro, concedendo (ovviamente) ampio spazio al fenomeno migratorio, vera pietra angolare del pontificato in corso: essi costituirebbero «un “paradigma” capace di illuminare il nostro tempo e in particolare la condizione giovanile» (§ 25).
Tutto bellissimo. Ma la profondità del documento sinodale è pari a quella del “tema libero” di liceale memoria: si parla di argomenti triti e ritriti, senza fornire alcuna risposta convincente o utile a dimostrare che il documento sinodale è stato scritto da cristiani e non da un’associazione umanitaria a caso. Perché è vero che «in generale i giovani dichiarano di essere alla ricerca del senso della vita e dimostrano interesse per la spiritualità» (§ 49), ma è anche vero che la spiritualità è ormai scomparsa da quella vita della quale essi (e tutti noi) cercano il senso; e il testo sinodale non dà indicazioni serie per ritrovarla. Usando le classiche parole-chiave della “neo-lingua cattolica”, dispensa discernimenti a tutto andare, ma non sa cogliere il nocciolo della situazione: a che pro discernere, se manca la sostanza? E la sostanza è una sola: il riconoscimento della regalità di Cristo, centro della vita umana.
Non è un concetto difficile. Lo avevano capito benissimo i nostri grandi santi giovani, ma di loro non c’è traccia nel documento sinodale. Invece, c’è la «Chiesa che accompagna» e la «Chiesa quale ambiente per discernere». Invece, ci sono le solite affermazioni che hanno il sapore del malcelato slogan politico, ad esempio: «Migranti: abbattere muri e costruire ponti», §147) o della più totale edulcorazione («integrare sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità, crescendo nella qualità delle relazioni e camminando verso il dono di sé», § 150).
Dopo aver letto questi paragrafi fumosi, intrisi di una mentalità edulcorante, che ha orrore delle tinte forti e che si esprime con una neo-lingua macchinosa e inespressiva, si rimpiange la schiettezza dei vecchi libretti delle vite dei santi, che in poche pagine, con pochi esempi significativi, sapevano indirizzare sulla retta via. Altro che “accompagnamento” e “discernimento”. Sono sicuro che in quel libretto scritto anni fa in giapponese, la vita di san Domenico Savio è scritta in modo chiaro, senza pudori dettati dal politically correct e senza strizzate d’occhio alla filosofia del mondo. Se è di santi che abbiamo bisogno, i cristiani dovrebbero avere orrore delle parole vuote e iniziare davvero a cercare di farsi santi secondo il motto di san Domenico Savio: “La morte, ma non il peccato”.
Pubblicato il 03 novembre 2018

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