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05 dicembre 2017

LA FRONT PORCH REPUBLIC HA BISOGNO DI TE!/2


(OVVERO RIFLESSIONE SOVVERSIVA SULLA DISTRIBUZIONE DELLE VERANDE E LE PROSPETTIVE URBANE)

«la malattia del carattere moderno è la specializzazione»
(Wendell Berry)
(prima parte qui)

di Matteo Donadoni

Wendell Berry (1934), scrittore e agricoltore americano, individua la principale responsabilità della distruzione delle comunità moderne nella specializzazione.
Se è per questo, non è una novità, perché già il professor Guarnieri al liceo non mancava mai di farci sonore tirate in merito. Non senza esempi interessanti come quello di Napoleone e la palla asburgica.
«Vado a spiegarmi con un esempio storico: prendiamo la battaglia di Austerlitz. E nella fattispecie un ipotetico Jaques Dupont, soldato semplice in forza al 2° battaglione di fanteria, 3° reggimento, 4° plotone, 1a squadra, 3° in fondo a sinistra, addetto specialisticamente alla premitura del grilletto del suo fucile, cosa che del resto non riuscì mai a fare perché centrato da palla austriaca 8 secondi dopo l'inizio della suddetta battaglia. E prendiamo, con lui, Bonaparte Napoleone, generalissimo in capo nella stessa circostanza, addetto genericamente all'impostazione della pugna e sopravvissuto vittoriosamente alla medesima. Quantunque indubbiamente meno specializzato del primo, il secondo è storicamente ritenuto dotato di una quantità maggiore di generica genialità. Orbene riesce difficile pensare che, se la surcitata palla austriaca avesse centrato il generico Napoleone piuttosto che lo specializzato Dupont, l'esito della battaglia sarebbe stato il medesimo. E questo, mi pare, a prescindere da qualsiasi pregiudizio classista».
L’ascesa incontestata dello specialista, “sua maestà lo specialista”, rappresenta culturalmente la vittoria della conoscenza settoriale sulla conoscenza olistica. Denota uno scarto filosofico sostanziale con effetti devastanti, la cui deflagrazione ha scagliato il povero uomo non in alto, ma nel piccolo, nel chiuso, e nell’ovattato. Nello sgabuzzino della vita. La differenza tra i due approcci alla realtà è sorprendente: il primo nello sforzo di voler controllare tutte le variabili, cosa impossibile, circoscrive completamente l'oggetto d’indagine o il problema; il suo lavoro ci ha permesso traguardi medici impensabili, ma ahinoi, ci ha chiuso le porte della saggezza, e il risultato è un ottuagenario infelice e incontinente. Il secondo è aperto all'esperienza, sa di non poter comprendere tutto, ma osserva dall’alto il massimo panorama possibile. Cerca sempre di capire, ma contento anche del fatto che qualcosa sfugga, che rimarranno sempre dati residui disordinati. Il primo è caratterizzato dal desiderio di dominare un problema, esserne il padrone e il controllore, di controllare in definitiva la realtà stessa, mentre il secondo è caratterizzato da umiltà e amore. Umiltà e amore costituiscono la saggezza e costruiscono la comunità. La visione super specialistica, perciò parziale (guardo solo ciò che mi piace, mi interessa, in cui sono bravo) della vita, invece, frammenta la comunità.

Secondo Berry, «la corruzione della comunità ha la sua origine nella corruzione del carattere». Ritorniamo al carattere, perché questa corruzione di carattere è il risultato dell'incapacità, ma più spesso, direi, della mancanza di volontà di comprenderne l'insieme complesso e apparentemente disordinato della realtà. Ne consegue, quindi, che «la malattia del carattere moderno è la specializzazione». La specializzazione frammenta i compiti, frammenta le competenze, frammenta il carattere individuale e infine frammenta l'idea di comunità.

Il primo, e più noto, rischio del sistema specialistico è che produce specialisti. Questo non è un simpatico postulato tautologico, atto a suscitare ilarità, ma è una denuncia di una scuola che promuove un’epidittica del professionista e non la naturale antropologia dello speculativo. Addestriamo un numero sempre maggiore di persone in modo sempre più elaborato e soprattutto sempre più costoso per fare una sola e unica cosa. In questo modo si rischia di scivolare rapidamente nell'assurdità sistemica. Ci sono, ad esempio, educatori che non hanno nulla da insegnare, secondo il vecchio adagio “chi non sa insegna”, comunicatori che, parlando per ore, non hanno nulla da dire, ma soprattutto – e lo abbiamo provato sulla nostra pelle, medici di base, magari bravissimi ginecologi, ma che non distinguono una ciste da una verruca, e pregate il Signore di non essere affidati ad esperiti neurologi che vi faranno morire di tubercolosi, perché non sanno cosa sia dato che non l’hanno mai vista neanche in fotocopia.
«I pensatori generici quindi (i filosofi, per esempio, o gli scrittori e i poeti, certo tipo di scienziati o i matematici puri e così via) oggi più di ieri han fatto la fine che stan facendo pure i medici generici, ridotti a “medici di famiglia”, confortevoli e consolatori, o a quei tali medici a cui puoi giusto affidare le sorti d'un'improvvisa dissenteria senza complicazioni. Per il resto ancora e sempre vige Sua Maestà lo Specialista».
Questo specialista moderno, dal momento che è succube della tecnica, tende a essere consumato dall'idea di progresso. A me personalmente è capitato di parlare con ingegneri che avrebbero voluto abbattere il Colosseo per farci un parcheggio, infatti, dal punto vista di congerie mentali di questo genere è un fatto assolutamente normale pensare che il passato sia, per definizione, un luogo arretrato popolato da disgraziati e miserabili. Mentre il presente, anzi, meglio, il futuro avrà i mezzi per adeguare la realtà alle agognate lubriche novità immanentistiche o alle bizzarre velleità superomistiche. Come dice Berry: «la mente moderna desidera ardentemente il futuro poiché la mente medievale desiderava il Cielo». Proporzionalmente. Pretendiamo di forzare il cielo nella materialità del presente fenomenico, come un pomodoro maturo in una latta di birra.

C’è un ambito in cui la disgrazia specialistica si abbatte a pioggia sui giusti e sui malvagi: l’urbanistica.
Quando lo specialista si chiama architetto, allora la malattia si chiama alienazione dall’ambiente umano.
I cittadini moderni vivono spesso in zone urbane che in realtà non sono altro che ghetti di lusso, a fianco di sconosciuti presumibilmente della loro stessa specie, in case ricche di comodità che a volte nemmeno sfruttano, ma che sono segno di status e hanno quella funzione ansiolitico consolatoria surrogato della vera libertà. Una cucina automatizzata, un bagno scintillante e inodore, tutto l'anno l'aria condizionata e la poltrona massaggiante per guardare la smart-tv ultrapiatta con le cuffie wifi per essere totalmente isolati dal mondo. Infatti il risultato è l’isolamento.
L’isolamento e la lontananza. Altro aspetto dell'influenza distruttiva della casa moderna è la sua lontananza dal lavoro: la casa è costruita intorno all'idea di una facile mobilità e alla disintegrazione di vari aspetti della nostra vita. Le nostre condizioni lavorative comportano la necessità di guidare sempre per maggiori distanze e questo stile di vita ha favorito paesaggi devastati, una profonda dipendenza da potenze straniere per i rifornimenti e alloggi privi di una vera comunità. Nel frattempo, il nostro mondo "pubblico" è sempre più privo delle voci dei cittadini, completamente attenuate nel declino della capacità delle località di governare i propri destini. Le vie di scorrimento veloce e i grandi centri commerciali hanno disidratato i vecchi centri delle comunità locali, spesso spazi semideserti occupati da serrande chiuse, clandestini e malaffare.
Ne “La morte e la vita delle grandi città americane” Jane Jacobs (1916-2006) criticò fermamente il modello di sviluppo delle città moderne e fu accesa sostenitrice del recupero a misura d'uomo dei nuclei urbani, enfatizzando il ruolo della strada, del distretto, dell'isolato, della vicinanza e soprattutto della eterogeneità degli edifici.  L’antropologa americana sostiene che le città sane sono caratterizzate da quartieri che presentano una varietà di usi in grado di rendere le strade vivaci e sicure, e la possibilità di soddisfare molte delle attività quotidiane in un unico luogo. Non è difficile comprendere che le strade sicure sono una condizione necessaria per un quartiere sano, ma le strade possono essere rese sicure solo dall'attenta presenza di residenti che provino un senso di appartenenza alla strada e siano disposti ad intervenire se necessario. Jacobs chiama questo: "sguardo sulla strada". Questa presenza umana è favorita massimamente dalla distribuzione delle verande sul davanti e dall’eterogeneità d’uso. La Jacobs tenta di mostrare come la diversità di utilizzo sia necessaria per un quartiere sano e sicuro: ad esempio, se un distretto è dedicato esclusivamente ai negozi al dettaglio, allora quel distretto sarà praticamente privo di persone dopo il normale orario di lavoro. L'assenza di persone crea un terreno fertile per la criminalità e il malaffare. Di contro le singole case ormai sono concepite come ritiro privato o addirittura celle dormitorio. D'altra parte, un distretto composto da una miscela di usi, tra cui residenziale, vendita al dettaglio, ristoranti, intrattenimento e forse anche l'industria leggera, vivrà un costante afflusso di persone.
Ma tutto il mondo urbanizzato milita contro la formazione e il sostentamento di solide comunità locali.

All'inizio del XXI secolo l'America non è né più né urbana né rurale, ma un curioso miscuglio tra i due che è il suburbano, con l’aggravante del fatto che il moderno sobborgo spesso condivide gli svantaggi di entrambi. Ciò è dato dal fatto che il piano d’urbanizzazione non è più concepito a misura d’uomo (tanto meno di Dio) ma d’automobile. L'automobile rende possibile una tale disposizione urbanistica, ma ci sono delle conseguenze. Ad esempio i sobborghi creano una situazione in cui è necessario l'accesso a un'auto per partecipare alla vasta gamma di attività umane non incluse o non consentite nello sviluppo suburbano. In un contesto di questo tipo bambini e anziani si trovano prigionieri virtuali in una bolla residenziale priva di molte sfaccettature della vita umana.
La separazione è il risultato della specializzazione - in questo caso dei luoghi - della progettazione di una città in base a zone distinte designate dall'uso. La separazione è frutto di una mentalità individualista, il cui eccesso non rende indipendenti, rende ciascuno più debole, rende soli. La comunità infatti non è una merce che può essere commercializzata, non è un cartone della pizza, un contenitore, ma un organismo vivo, basato su interdipendenze, su vite intere, passioni e dolori che si intrecciano e si condizionano.
Qui siamo di fronte a un'ironia: il successo della specializzazione porta alla scomparsa di comunità sane, ma la distruzione delle comunità locali lascia un vuoto culturale che viene riempito con una cultura omogenea tanto blanda (liquida) quanto ampia, detta globalizzazione, ovvero l’equivalente del fritto in cucina. Assistiamo al paradosso per cui l’eccessiva specializzazione porta all'omogeneizzazione. E l'omogeneizzazione porta alla noia, all'apatia e ad una diminuita attenzione ai veri valori della vita o alla responsabilità.

Che fare? Si può intervenire certamente a livello comunale, il comune è in un certo senso il “portico” fra la famiglia e la nazione. Raramente consideriamo il modo in cui il nostro ambiente è costruito, anche qualcosa di così semplice come un portico frontale può costituire una delle condizioni necessarie per l'autogoverno.
Ignoriamo il modo in cui gli spazi ci modellano, preparandoci anche a una vita di cittadinanza responsabile, di comunità, senza trascurare i sacrosanti diritti di proprietà. Invece, spesso desideriamo ritirarci nelle presunte libertà del regno privato, considerando l'entità pubblica al di fuori della nostra attenzione, come un governo distante e inaccessibile. Tentazione fortissima in uno Stato sadico come quello italiano. Per quanto riguarda il movimento americano è semplice comprenderne l’appello: «Per coloro che vogliono resistere e difendere il futuro della Repubblica, un buon punto di partenza sarebbe quello di far rivivere la nostra tradizione di costruire e possedere case con portici anteriori». Ma in Italia? Tutto da cominciare.
La cosa più importante deve essere il recupero dell’indipendenza della famiglia (tradizionale scilicet) e con essa l’amore per la comunità. La cosa pubblica locale amata e trattata con competenza dalla sua gente, che individualmente riconosce il proprio interesse con l'interesse dei propri vicini. Allora dobbiamo rivolgere la nostra attenzione alla conservazione della cultura locale, dei costumi locali, delle bellezze locali, delle economie locali, delle famiglie e dei ricordi.  Se in Italia non c’è stata la cultura della veranda sul davanti, non è un buon motivo per non incominciare. Anche se temiamo che senza un cambio radicale della politica tutto il discorso sia carta straccia, non perdiamo la serenità, perché le “cose sono per noi, ma con calma”. Serve infatti che la politica torni ad esser fatta dai politici. Solo un politico “generico”, non il tecnico, può avere una visione d’insieme del Paese. Ma per formare un politico del genere serve una scuola che abbia una visione olistica della cultura, affinché formi la persona e non solamente il professionista. Qui il cerchio si chiude come il cofano della bara sulla salma del pensatore generico.
«Oh mio buon pensatore generico, il mondo ti dice: ti venero e ti rispetto, ti copro di tarli e muffa, ti giudico un vecchio eroe improduttivo utile come lo stregone prima della penicellina. Ma occupa se puoi il meno spazio possibile».
Bene. Occupiamo, con calma da veranda, il nostro spazio.



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02 dicembre 2017

La Front Porch Republic ha bisogno di te

(OVVERO RIFLESSIONE SOVVERSIVA SULLA DISTRIBUZIONE DELLE VERANDE E LE PROSPETTIVE URBANE) 

di Matteo Donadoni
Oggi mi sento un po’ commissario di polizia. Quindi faccio come il commissario Charìtos quando è in difficoltà e apre il vocabolario:

comunità (ant. communità) s. f. [dal lat. communĭtas - atis «comunanza», der. di communis«comune1»]. – 1. non com. Carattere, stato giuridico di ciò che è comune;
Carattere di ciò che è comune. Il carattere. Siamo da capo, mi sembra di essere in balìa del vento freddo che confonde la mente.

Cambio pagina:
caràttere s. m. [dal lat. character -ĕris, gr. χαρακτήρ -ῆρος, propr. «impronta»] Segno tracciato, impresso o inciso, a cui si dia un significato…
l’accezione che mi interessa è la terza:
3. a. Segno distintivo, qualità propria che contraddistingue una persona, un organismo, un fenomeno collettivo, una cosa, da altri: i c.di un genere di piante; i c.comuni di un gruppo di lingue; i c. della letteratura contemporanea. Per estens., qualità, natura, in quanto si manifesta con determinati aspetti: tendenze di c.non ancora ben definito; la malattia si presenta con c.benigno; e in senso anche più generico: un discorso di c.politico; una festa, una riunione a c. familiare.

La riflessione intorno al carattere, non di una persona, ma di una società - o per fare i populisti, di un popolo - è interessante e la tengo da parte. In comune dunque abbiamo la stessa impronta culturale, la stessa civiltà, siamo fratelli e dovremmo saperlo. Almeno per averlo evinto dall’osservazione di quella impronta. Ma allora come mai ogni anno, quando si avvicina il Natale, c’è sempre qualcuno che tenta di cancellare una parte di quell’impronta?

Il declino della comunità è un tema attuale indipendentemente dall’invasione islamica dell’Europa, riguarda la crisi identitaria dei popoli europei. Una parte di noi non si riconosce più nell’impronta lasciata dai nostri avi e, come un cane dall’olfatto guasto, vaga in crisi incapace di ritrovare la strada di casa. Siamo in crisi. Tutti ne parlano, nessuno sa come risolvere.

I popoli, come sappiamo, sono comunità ampie, a loro volta costituite da piccole comunità locali, legate fra loro da tradizioni, usi e costumi, lingua ed etnia uguali, simili o compatibili, il cui nucleo è in ogni caso, senza eccezioni, la famiglia. Data la crisi della famiglia, si deduce in conseguenza logica la crisi della comunità. Ma cos'è esattamente una comunità per noi oggi?
Un gruppo di individui che vivono in stretta vicinanza l'uno con l'altro costituiscono una comunità? Basta la contiguità ambientale? E ancora, una comunità sana esiste più facilmente in un ambiente urbano, suburbano o rurale?
Forse qualcuno, come me, ricorda i cenacoli di canute signore, alcune con velo nero o argentei chignon, radunate per recitare il rosario nelle prime tiepide sere di maggio, quando noi bambini cominciavamo mettere i calzoni corti e a scalpitare per le vacanze. Tempi non lontani, ma altri tempi. Erano reliquie del mondo piccolo, il modo agricolo della vecchia Europa, della vecchia Italia, fondato sull’aia e sul cortile, attorno al quale ruotava la vita contadina. Tutti si conoscevano, tutti sapevano tutto di tutti e ciascuno ne sparlava. Il cortile fra la casa e le stalle era il luogo di passaggio e il luogo della comunità, soprattutto se c’era un pozzo o una fontana. Ci si malediceva e perdonava, si condivideva il poco sale che restava in dispensa per la rara minestra. Si sgranava il granturco di giorno e il rosario la sera.
Oggi lo stile di vita è totalmente cambiato. Ora, non scendo in giudizi di valore, ma è un fatto che oggi si viva in appartamenti, o villette a schiera, in quartieri dormitorio, nei quali capita di conoscere il vicino dopo mesi o anni, in alcuni casi solo a seguito della sparatoria per fatti di droga o di travestiti. Tutto ciò fa parte dello sfaldamento della comunità. Ognuno assapora il tramonto non più da un ballatoio, ma da una frazione di finestra, di sbieco dietro una tenda, come una spia. Perché non è solo il tramonto di un giorno, è il tramonto di un popolo. Pensare che il mero vivere vicino ad altre persone costituisca una comunità equivale all’illusione del convivere, vivere sotto lo stesso tetto con una persona credendo che sia sufficiente a formare una famiglia.

In Italia, dato lo sviluppo industriale, tecnologico e urbanistico del secolo scorso, la piccola comunità agricola non dà più il carattere della società, e anche dove ancora sopravvive essa stessa va scomparendo. Un fenomeno analogo si è verificato negli Stati Uniti, dove tuttavia si è sviluppato un percorso che prevede un passaggio in qualche modo doppio, dal punto di vista edilizio si è verificato il trasloco dalla veranda di fronte al patio posteriore, per finire al conglomerato suburbano.

Esiste un saggio, semplice ma profondo, intitolato " From Porch to Patio " (in The Palimpsest, giornale della Iowa State Historical Society, nel 1975), in cui l’autore, Richard Thomas, esplora le implicazioni sociali della pratica architettonica di costruire portici sul davanti delle case e il suo progressivo abbandono a favore dei cortili dietro casa.
Individuando così nel suo studio questo moto architettonico come qualcosa di più che una semplice tendenza della moda o di un cambiamento di design: la transizione dal portico al patio è stata una delle più chiare e significative manifestazioni del cambiamento culturale in atto, da una società interessata al rapporto fra cose private e pubbliche - la res publica - a una preoccupata in primo luogo di aumentare la propria privacy. Il portico, come ponte fisico tra il regno privato della casa e il dominio pubblico della strada e del marciapiede, era lo spazio intermedio, in senso letterale, tra due mondi che sono stati via via sempre più separati.

Il portico «presentava opportunità di rapporti sociali a diversi livelli»:
«Quando un membro della famiglia era sotto il portico, gli era possibile invitare il passante a fermarsi ed entrare nella veranda per una lunga conversazione. La persona sotto il portico aveva il pieno controllo di queste comunicazioni, in quanto il portico era visto come un'estensione degli alloggi della famiglia. Spesso, una siepe o una recinzione separava il portico dalla strada o dal marciapiede, fornendo una barriera fisica per la privacy, ma abbastanza bassa da consentire la conversazione. Il portico serviva a molte importanti funzioni sociali oltre a render pubblica la disponibilità dei suoi abitanti. Un portico ben ombreggiato forniva un posto fresco nella calura del giorno per far riposare le donne dalle faccende domestiche. Dove avrebbero avuto l’occasione di scambiare pettegolezzi o condividere problemi senza dover organizzare un "caffè del quartiere" o una "festa del bridge".

Un ragazzo e una ragazza potevano essere vicini su un dondolo, ma ancora osservati, e molte proposte di matrimonio venivano fatte su un dondolo. Le persone anziane ricavavano un grande piacere sedendosi in veranda, osservando il mondo che passava, o vedendo giocare i bambini del quartiere».
La veranda sul davanti sembrerebbe un fatto superfluo, invece è una questione fondamentale, perché espressione spaziale di un modo di intendere la vita e lo Stato. Non vuol dire che tutti la dobbiamo averne per forza, o che debbano essere tutte grandi o tutte uguali, non sto dicendo questo. Sto dicendo che un sano distributismo delle verande sul davanti favorirebbe non poco una vita più felice, per noi, i nostri vecchi e i bambini. Sia essa una veranda povera ma elegante come quelle della terra del cotone, dove sentirsi i benvenuti mentre ci si dondola con un mint julep; buia come quelle spagnole, dove far festa sotto i vitigni cantando la famosa “Tarantella” di Belloc con mulattieri impietosi; o una luminosa, di quelle all’inglese, dove sedersi a parlare o star in silenzio e fumare, come Flambeau con Padre Brown ne “La forma sbagliata”, una veranda tale quale a quella in cui il suo ideatore si è sposato. Il 30 luglio 1922, infatti, i Chesterton dopo aver pranzato con padre O'Connor e padre Ignatius Rice, si diressero alla cappella abilitata nella veranda dell’hotel, la cui proprietaria era irlandese e la cedeva gratuitamente ai cattolici per cerimonie come quella.
Ecco, la Front Porch Republic è quella nazione che ama le cerimonie, le cerimonie vespertine e ricche di promesse degli innamorati freschi, le cerimonie quotidiane dei nostri bambini, che oggi giocano scalzi i loro riti sul pavimento di legno e domani già ci salutano per il lungo e affascinante viaggio della vita.
Lasciandoci lì a domandarci ad occhi aperti:
Cosa è andato perso? E per colpa di chi?
[continua…]
Matteo Donadoni
*le seguenti riflessioni considerano le idee di vari autori del sito



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