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19 novembre 2019

Celebrano il nulla al posto degli eroi

di Tommaso Lupica
Ogni epoca ha bisogno dei suoi eroi. I giorni nostri non fanno eccezione. Molte persone mancano di punti di riferimento, di grandi uomini e donne che insegnino come agire nei momenti di crisi. Di conseguenza, avere un’occasione per conoscere e interrogare questi personaggi è utile non solo al singolo individuo, ma, di riflesso, anche all’intera società. Questo pensiero vale soprattutto per quel fenomeno commerciale che è la festa di Halloween, da poco passata.
Non farò una rassegna dei pro e dei contro della festa, né la sua storia, né dei legami con altre pratiche di carattere occulto (se non propriamente satanico). Tutto il contrario. Voglio invitare a riflettere su quanto la festa di Halloween sia inutile (quando non dannosa) se posta in rapporto alla festa di Ognissanti. Ma, ci tengo a sottolineare, da un punto di vista civile e laico.

La festa di Halloween è sfruttata abilmente, come tante altre occasioni, in un’ottica principalmente commerciale, mentre la sua origine interessa, in realtà, solo i pochi addetti del mestiere. Per poter sfruttare questa ricorrenza è necessario abituare la gente a festeggiarla e a farlo in un determinato modo. Vi è dunque un’accurata preparazione, un coinvolgimento di tutte le attività commerciali, la partecipazione dell’autorità civile. Il tutto davanti ad uno sfondo macabro, perché, seppur in forme fantasiose o divertenti, i soggetti della festa appartengono alla sfera della morte e del truculento.

I bambini la percepiscono come un evento giocoso, e passano alcune settimane avvolti da queste eccentriche ambientazioni. Andando in su con l’età, adolescenti e giovani la sfruttano come occasione per fare festa, con il particolare della mascherata e del costume da qualsivoglia creatura delle tenebre. Se vista su un piano superficiale, la festa ha una sua facciata caratteristica, ma null’altro. Il suo significato interessa a pochi, ed è normale dato che non appartiene alla nostra tradizione. Se poi si va ad approfondire il  valore che la ricorrenza ha per il mondo dell’occulto si scopre ben altro, ma di questo non verrà discusso qui.
Dunque il giorno dei santi e dei morti ha ormai preso questa caratterizzazione. Anche se non ci venisse detto nulla, capiremmo benissimo che si tratta degli ultimi giorni di ottobre da tutte le decorazioni che tappezzano. La festa ormai è diventata questo.

Dove sta il male? A cosa si è sostituita? Non alla festa dei morti, poiché in un certo senso li richiama esplicitamente, bensì alla festa dei santi.
Mettendo per un momento da parte l’aspetto religioso, i santi si potrebbero definire uomini e donne che hanno costituito eccezionali esempi di virtù: nella carità, nell’ascesi, nel prendersi cura del prossimo, nello studio, fino all’estrema e fatale coerenza dei martiri. Esempi di virtù che hanno colpito non solo i credenti, ma anche i non credenti e gli appartenenti ad altre religioni. La festa di Ognissanti ricorda dunque questi grandi uomini e donne. Anche per un non credente dovrebbe essere evidente il patrimonio di cultura e di insegnamenti che queste persone hanno lasciato (e continuano a lasciare) a noi contemporanei.

Ogni età ed ogni categoria ha i suoi santi. San Domenico Savio e sant’Agnese per i bambini; il beato Carlo Acutis e Chiara Luce Badano per i ragazzi; i coniugi Martin per i genitori; santa Monica per le madri; san Giuseppe per i padri; san Giorgio e san Michele Arcangelo per i combattenti. Si potrebbe andare avanti per moltissime pagine. Vi sono esempi per tutte le età, per tutte le categorie, per tutti i mestieri. Esempi di virtù per ogni persona. Un immenso patrimonio di comportamenti virtuosi da cui attingere. E sono questi i protagonisti di Ognissanti.

Nel momento del bisogno, perché non sfruttare le esperienze di vita di queste persone straordinarie e ricavare qualcosa di buono anche per i giorni nostri? Questa è la vera domanda che dovremmo porci. Difronte alla possibilità di ricordarli ( e quindi di conoscerli), perché sprecare questo tempo prezioso nel vortice consumistico e aperto all’occulto di Halloween? Non è mai semplice ribaltare una consuetudine, ma capire gli assoluti benefici che la vera festa può dare, è un notevole passo avanti.

Cosa poter fare dunque per tornare a valorizzare Ognissanti? Intanto attuando un notevole sforzo educativo nel mostrare come sia molto più conveniente avvicinare le persone alle figure dei santi piuttosto che alla vuota e macabra manifestazione di Halloween. Partendo dall’infanzia, facendo conoscere a bambini e giovani la loro storia e ciò che hanno realizzato. Togliere tempo ad inutili decorazioni, dedicandosi piuttosto a progetti che mettano al centro santi vicini ai bambini e ai ragazzi, per mostrare come la virtù sia tutt’altro che un’utopia. Per gli adulti si potrebbero creare momenti di approfondimento, soprattutto di temi come l’immensa produzione letteraria, religiosa, storica e filosofica che i santi hanno lasciato. Altra proposta possibile: il ruolo dei santi e delle sante nelle grandi battaglie sociali. Incontri, cicli di conferenze, percorsi tematici. Potenzialmente le iniziative sono numerosissime, e i benefici, credo, evidenti. 

Riappropriarsi della festa di Ognissanti non può assolutamente definirsi “una cosa da bigotti”, né la riproposizione di una ricorrenza ormai priva di significato. Al contrario, essa può rivelarsi una grande fonte di benefici per l’intera società, sia per i credenti che per i laici. Inoltre le verrebbe nuovamente attribuito il profondo significato che le spetta e di cui godeva in passato; cosa utile per toglierla dal cortocircuito commerciale e occulto in cui è ormai scaduta.
Non vi sono controindicazioni nel tornare a guardare ai santi. Tornare a dar loro valore non è un peso, ma una delle cose di cui avremmo più bisogno.


 

08 novembre 2019

Dagli Hobbit, una visione per il futuro


di Tommaso Lupica
Quando si parla del Signore degli Anelli, si fa riferimento a un fenomeno globale. Chiunque ha potuto leggere il libro o vedere, almeno una volta nella vita, i film di Peter Jackson. Nato nel corso del secolo scorso, l’universo di Arda, di cui il Signore degli Anelli è solo la punta dell’iceberg, offre una chiara e limpida immagine di quello che è il mondo in cui viviamo. Nello specifico le profonde analogie che legano i protagonisti dell’opera a noi, gente del XXI secolo, sono pressoché disarmanti.
Partendo da una visione d’insieme, le razze che popolano l’universo di Arda altro non sono che una sublimazione, o un’estremizzazione, delle capacità umane.

I leggendari elfi, protagonisti indiscussi di un’altra opera tolkeniana, il Silmarillion, rappresentano le virtù elevate al massimo grado: una sorta di superuomini. Controparte di questo enorme potenziale è, in alcuni, l’arroganza smisurata, frutto della consapevolezza della loro innata superiorità.

Completamente opposti sono i nani, il popolo rachitico, come vengono chiamati all’inizio del Silmarillion proprio dagli stessi elfi. Essi sono l’esatto opposto: rappresentazione della praticità, del materialismo, lavorano la pietra (proprio dalla pietra sono nati). Un materialismo portato allo stremo, che in taluni casi spinge a una vita d’isolamento pressoché totale, alla costante ricerca di sempre maggiori ricchezze fini a sé stesse.

Se questi due popoli, uniti agli uomini, sono la rappresentazione dell’animo dell’essere umano, l’esatto contrario sono gli orchi. Questi, per definizione, nascono come oltraggio, una caricatura dei bellissimi elfi, che il signore del male crea. Ne è un esempio il linguaggio: Tolkien, in una delle sue lettere, parlerà del lingua degli orchi, dicendo come lo avesse creato con suoni per certi versi opposti, storpiati, e di come richiamasse la lingua elfica, ma rovinata e distrutta nelle sue armoniosità (il concetto, appunto, di caricatura).

Ancora mancano i cari hobbit. Per definire gli hobbit, l’autore diceva semplicemente che erano il riflesso di se stesso. La semplicità, la vita ritirata, l’amore per la campagna sono alcuni tratti caratteristici del professore inglese. Ha destinato per sé una sorta di posto d’onore, un marchio ancora più personale in un’opera che di personale ha già molto.
Seppur definiti l’alter ego dell’autore, gli hobbit sono un popolo dalle grandissime potenzialità, nascoste sotto determinate caratteristiche che solitamente passano in secondo piano, e che, a mio avviso, avvicina moltissimo noi a loro più di quanto si creda.

Lo hobbit è per definizione una creatura estremamente abitudinaria. Vive immersa nel proprio piccolo mondo, che a ragione lo si può assimilare alle realtà di paesello di campagna. Al centro della sua vita sta il lavoro agricolo, e uno dei punti maggiori aggregazione è la locanda (Il drago verde di Hobbville, il villaggio di Frodo Baggins).Questa dimensione quotidiana è gelosamente custodita, e tutto ciò che potrebbe turbarla viene sistematicamente ignorato. Giungono si notizie dall’esterno, alcune buone, altre meno, ma comunque tutte vengono etichettate come “guai”, ed è bene tenersene lontani e non invischiarsi. “Non andare in cerca di guai, e i guai non verranno da te”, è una frase gli hobbit ripetono un paio di volte nel film, e riflette alla perfezione l’attitudine di questo piccolo popolo delle campagne.

Ebbene, è su questo aspetto che voglio invitare a riflettere. Si perché, dopotutto, la grande società globalizzata, volta alla creazione del cittadino del mondo, ha prodotto in realtà l’opposto, individui non tanto differenti dai cari hobbit, e questo è a dir poco paradossale.
Questa apertura al mondo ha posto all’attenzione di tutti eventi di grandissima portata, che spaziano dalle guerre, ai mercati, alle battaglie ideologiche all’ambiente e così via. Tutto ciò ha in parte creato negli individui una maggior consapevolezza, ma per lo più questa visione degli eventi ha fatto ripiegare le persone all’interno della propria Contea, un piccolo spazio sicuro dove i grandi problemi del mondo non sono contemplati.

E’ difficile prevedere le reazioni dei singoli difronte a fatti come i massacri di civili in Medioriente o altri fatti simili. Mettendo da parte la comune indignazione, ciò che resta si può dividere essenzialmente in tre atteggiamenti: azione, indifferenza e chiusura. L’azione è ad appannaggio di pochi, mentre ai più si addicono le due rimanenti, entrambe frutto di un potente senso di inutilità che invade il singolo, posto di fronte alla soverchiante mole di problemi apparentemente irrisolvibili. Basta guardare fenomeni come il disinteresse per la politica. Si ha un ambiente tacciato come sistematicamente corrotto, nel quale a nulla vale l’opinione del singolo cittadino. Vi regna ormai una sfiducia atavica, e la bassissima percentuale di partecipazione di giovani alla vita politica ne è una prova. Lo stesso vale per le guerre, che in maniera preoccupante stanno riaffiorando ai margini del continente, se non nella stessa Europa (il timore che le braci dell’est riprendano vita è molto più che una paranoia).

La consapevolezza che nulla dipende dal singolo, lo portano a fuggire da tutto ciò, a ritagliarsi una dimensione serena, quotidiana, che chiude fuori dalla porta le grandi questioni, lasciando gli altri, i diretti interessati, ad affrontare a turno i propri orchi o i cavalieri neri. In questo gli hobbit e i contemporanei sono speculari, entrambi intimoriti, entrambi che hanno fatto dell’ignoranza il loro meccanismo di difesa: basti pensare che nel momento in cui Frodo e gli altri hobbit tornano nella Contea al termine della loro avventura, praticamente nessuno sapeva che c’era stata una guerra. Allo stesso modo, quante persone non sono a conoscenza di ciò che accade in casa propria e nella propria nazione... Ci si limita a voci, ai discorsi che si fanno, tra una pinta di birra e l’altra, ai tavoli del Drago Verde. E tutto muore lì.

Non è un quadro, insomma, che potremmo definire incoraggiante. Eppure, chi salverà le genti dell’ovest da Sauron, l’oscuro signore, giunge proprio da qui. A riportare la vittoria finale sul male non sono stati potenti eserciti o eroi leggendari. Sono stati due hobbit. Un orfano e il suo giardiniere. Mentre l’attenzione di tutti era rivolta ai campi di battaglia, Frodo e Sam, passo dopo passo, all’insaputa di molti, arrivano, insieme, a gettare l’anello nel monte Fato.
Anche in questo gli hobbit ci sono maestri, e a noi toccherà imitarli. Ovviamente non si parla di gettare anelli in montagne di fuoco, ma di prendere coraggio, lasciare il proprio cantuccio, partire, e affrontare la propria Mordor, la propria oscurità.

Ognuno dovrebbe fare una parte del proprio viaggio con questi due hobbit, per imparare da loro, dai loro gesti, dalla loro avventura. Bisogna mettersi in cammino per Mordor (e ora è più necessario che mai, perché le nubi del male si addensano sempre di più) per riscoprire i propri limiti, diventare più consapevoli, ma non meno coraggiosi.
Per ritrovare il valore dell’amicizia (ognuno di noi dovrebbe avere al proprio fianco un Sam, oppure esserlo a sua volta!). Un’amicizia che non può essere idilliaca, ma vera e fedele.
Per riscoprire il valore dell’altruismo, perché ricordiamoci che gli hobbit partono per salvare la Contea, finendo per salvare anche tutta la Terra di Mezzo. L’immensa gioia di saper donare gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio, dando contro a un mondo che dà pure alle persone un valore monetario.
A nessuno è richiesto di risolvere i grandi problemi del mondo, ma come cita una canzone, un uomo nuovo è un nuovo inizio.
E’ grazie ai piccoli hobbit che Sauron è stato sconfitto. Sarà anche grazie al loro esempio che impareremo a combattere le nostre ombre.
Dopotutto siamo fortunati: abbiamo una grande Luce che ci guida: Mordor non trionferà.



 

04 novembre 2019

La "zona grigia" del relativismo


di Tommaso Lupica
Si assiste oggi ad una progressiva e aggressiva distruzione di ciò che, fino a non molti anni fa, era percepito come un valore o una semplice evidenza, se non realtà naturale. Vengono messe in discussione moltissime questioni o, per meglio dire, ogni questione che abbia anche un vago sentore di “tradizionale”, termine utilizzato (a sproposito) per definire ogni elemento che non corrisponda alla nuova religione del politicamente corretto.
Il tradizionale va dunque abbattuto, cancellato. E’ tutto da riscrivere, nel nome di un essere umano ormai emancipato da dogmi e superstizioni di sorta. Si tratta di una distruzione fondamentale per l’imposizione del nuovo modello di società veramente degna dell’uomo, fondata sul distorto valore della libertà intesa come semplice e pura “assenza di limiti o barriere”; desideri che diventano diritti. Ciò che spaventa ancora di più è la totale assenza di valori alternativi che andrebbero a rimpiazzare ciò che l’uomo ha da sempre creduto. Come dicevo poc’anzi, non vi sono più solide certezze, bensì pura assenza di limiti. Tutto è dunque lecito? No. Per il momento. Il relativismo regna sovrano, perché ciò che ora non è accettato magari potrà esserlo in futuro. Un tempo non si sarebbero mai sognati l’aberrazione della teoria gender, eppure oggi è un’ideologia estremamente difficile da estirpare. Chi può escludere che in un futuro l’attrazione fisica verso un infante non possa essere riconosciuta come comune orientamento sessuale?

Ciò che è più pericoloso in questa tendenza è l’immenso vuoto lasciato dai precedenti valori, e che tale rimarrà perché non vi sarà nient’altro pronto a sostituirli. La “libertà”, o meglio l’anarchia, non è un valore, ma una sua conseguenza. La libertà è lo stato in cui quel valore, se sano, ti pone. Non è una dea, e non si autogenera.

Si opera dunque nelle persone un massiccio allargamento della zona grigia, fatta di incertezze e confusione, di mancanza di un qualsiasi riferimento o metro di misura. La prima vittima di tutto ciò è l’individuo. La sua identità viene letteralmente spazzata via e sostituita da slogan che, concretamente, sono privi di una qualunque sostanza. Non si è più uomini o donne, ma qualsiasi cosa si voglia essere; non più italiani, ma cittadini del mondo; non più cristiani, ma laici e aperti ad ogni religione. E’ evidente come ad una precisa identità (sociale, religiosa, sessuale) sia contrapposta una totale assenza di limiti che, sotto la promessa di liberare l’uomo dalle catene di un’ipotetica oppressione, ne annichilisce la persona gettandolo in una viscosa incertezza che di concreto, oltre i soliti paroloni, non ha nulla. Le conseguenze sono gravi, ma saranno nefaste per le generazioni future che nasceranno all’interno dell’oceano grigio che ancora, nei nostri giorni, va formandosi e perfezionandosi.

Un primo effetto evidente è l’alienazione dalla realtà vicina e immediata. Se ogni cosa viene puntualmente osservata sotto l’ottica relativistica, significa che non vi è nulla di certo, né vi sono modi e ragioni per renderla tale. Di conseguenza la realtà perde un qualsiasi valore oggettivo, e pure strumenti come la logica e la coscienza vengono ridotti a semplici inclinazioni personali. Questo non può che portare le persone a distaccarsi dalla realtà stessa, a cercare delle vie di fuga rispetto alla confusione e (conseguenza del caos) al male che ne scaturisce. Crolla dunque un qualsiasi impegno personale nella creazione di un proprio sistema di valori, poiché tanto sono tutti relativi e intercambiabili. Perché preoccuparsi di essere un vero uomo o una vera donna, se si può essere una versione mediocre di entrambi? Perché mettersi in gioco in un percorso di fede se si può scegliere le cose più accattivanti di tutte e crearsi un credo adatto alle proprie esigenze?

L’essere umano ama credersi adulto e maturo, ma in realtà è come un bambino. Se a questi si da sempre ciò che vuole non diventa responsabile, ma terribilmente viziato. Per contro un’educazione fatta di saldi principi tira su uomini sicuri di ciò in cui credono. Questa educazione viene oggi osteggiata in ogni modo, e purtroppo sta scemando sempre di più soprattutto fra le giovani generazioni. E’ necessario più che mai il ritorno alla famiglia come prima e più importante educatrice dei figli e veicolo di sani valori, mentre oggi è Internet ad avere questo monopolio. In secondo luogo l’emancipazione di una persona passa inevitabilmente dalla conoscenza critica, dallo studio, dalla prudenza e dall’attento vaglio di ciò che le moderne fonti di informazione propongono/impongono. Non si può essere tuttologi, ma basta focalizzarsi solo su un tema o un argomento, costruendo un’opinione sicura che, seppur limitata, almeno esiste. Ma soprattutto la conoscenza deve essere il primo strumento per riscoprire la propria identità, non per denigrarla. Capire prima cosa significa essere italiano/a, uomo/donna e cristiano/a invece di attaccare ciò che semplicemente non si conosce più.
In sostanza, è assolutamente necessario riacquistare la propria (vera) libertà, e l’unico modo per farlo è uscire dalla zona grigia; distaccarsi dalla mortifera visione relativista che, sotto le spoglie di un’illusoria libertà, distrugge la cosa più preziosa che si possiede: la propria soggettività e, per chi ha uno sguardo rivolto verso il cielo, la propria anima.