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06 maggio 2018

E se nevica ad agosto. L'eucatastrofe di don Matteo

di Samuele Pinna
Si è conclusa l’undicesima stagione di Don Matteo tra successi di ascolto e apprezzamento del grande pubblico. Le puntate, davvero ben congeniate, hanno mostrato la bellezza di una storia che non stanca mai e che si rinnova continuamente, mantenendo alcuni punti fermi. Se, nel corso delle edizioni, la canonica è stata (e rimane) un porto di mare, dove non guasta qualche ospite raccattato in giro, la perpetua e il sacrestano, Natalina e Pippo, non mancano. Se cambia il PM e, persino, il Capitano, il Maresciallo Cecchini c’è sempre con la sua contagiosa simpatia, così come quel semplice eppure affabile carabiniere del Ghisoni. Frassica in questa stagione è spiccato in un ruolo ancor più di punta: lui ormai presente ovunque (e meritatamente), in televisione o nei film, a motivo della sua ironia delicata, quale nonsense davanti al quale non si riesce a non ridere.

E, poi, c’è Terence Hill, che è don Matteo! È lui a dare gusto con le sue profonde riflessioni verso quelle persone che hanno necessità di non perdere la speranza, sovente di perdono, quasi tutte di vedere che c’è un Oltre possibile se non proprio da raggiungere quantomeno da inseguire. È sempre lui che, di solito a fine puntata, tira fuori una morale non moralista, semplice eppure spessa com’era una volta la nebbia nella Bassa. Perché quel personaggio lì può stare pure in silenzio (e quanto parla il suo silenzio!) oppure dare brevi suggerimenti, può altresì rimanere muto, quasi impietrito, davanti alla telecamera (e al male che osserva), ma la sua presenza è ciò che sostiene tutta la storia, che dà senso all’intero sceneggiato. Quello sguardo, quella bontà non rarefatta, quei guizzi di simpatia alla Trinità, lo rendono quell’attore amato da sempre. Lui è don Matteo e don Matteo è un po’ lui! Ciò che traspare non è semplicemente un’abile recitazione, di chi sa interpretare correttamente una parte.

Quello che appare è, invece, un «uomo buono, molto buono», come lo descriveva l’amico Bud Spencer, che permette al personaggio di prendere vita, di incarnarsi in qualcosa di assolutamente positivo. È così per Terence Hill, lo è stato per Carlo Pedersoli e per pochi altri: persone che l’esistenza plasma, dove è l’arte che imita la vita. Ecco il segreto del successo: c’è una finzione che diventa realtà, perché contaminata dal reale. Si vede la finzione, ma questa trascende nella favola che, come deve essere, ha un happy ending. Si tratta di quello che il genio inglese J.R.R. Tolkien definisce “eucatastrofe” «o più esattamente la “buona catastrofe”, l’improvviso “capovolgimento” gioioso (perché in realtà nessuna fiaba ha una fine vera e propria)» (Albero e foglia, pp. 91-92). Riflessione interessantissima e pare anche completamente eseguita nell’ultima puntata di Don Matteo 11.

Tutto giunge alla fine, mostrandoci come invero sia un nuovo inizio: l’amore tra il Capitano Anna Olivieri e il PM Marco Nardi, l’affetto tra i ragazzini Seba e Sofia e il suo rapporto ritrovato con la madre Rita, e infine la figura del piccolo-grande Cosimo. Lui – il bambino che vive in canonica e che ha perso la mamma, mentre il padre è latitante – si ammala, proprio nell’ultima puntata, per una leucemia fulminante. E qui entra magistralmente in gioco, in tutti i sensi, il personaggio di Frassica: è agosto, ma deve essere Natale, lo deve essere per Cosimo, che è pronto a barattare tutti i suoi regali con il suo più grande desiderio, ossia quello di incontrare il papà! E, allora, il carabiniere dal cuore d’oro, come l’apostrofa don Matteo, si mette a convincere ogni abitante della città: quel ferragosto a Spoleto deve essere il 25 dicembre. La gente inizialmente fatica ad assecondare il Maresciallo, per poi dimostrare una certa distanza dinnanzi a quella strampalata iniziativa. C’è, forse, un legame tra le reazioni della popolazione e quella statua di Gesù bambino di grande valore (anche se un falso) prima rubata, dopo distrutta e infine amorevolmente aggiustata da don Matteo. Anche i sentimenti per diventare “buoni” hanno bisogno di un’assestata e di una piccola spinta, ogni tanto. E viene qui in mente il Peppone di Guareschi, quando, una volta pitturata la statuina principale del presepio, si libera la conoscenza con don Camillo e, uscito nella cupa notte padana, si sente tranquillissimo perché sente ancora nel cavo della mano «il tepore del Bambinello rosa» (Tutto don Camillo, Giallo e rosa, n. 46, p. 345).

Per Cosimo è, quindi, mobilitata la cittadina umbra: tutti devono essere presenti alla Messa di mezzanotte per stringersi intorno a lui. Intanto suo padre è arrestato e Cecchini lo conduce, derogando a una direttiva, in ospedale dal figlio che ormai potrebbe avere poco tempo da vivere, ma scappa via. I negozianti, inoltre, non sono disposti a rimanere aperti nei giorni dell’Assunta, la banda civica preferisce suonare altrove (perché retribuita) e la gente sembra non volerne più sapere di un Natale ad agosto. Una piccola speranza è data dal messaggio radiofonico del Maresciallo in chiesa, durante una Messa, con don Matteo che punta ancora sulla speranza. Nonostante questo, il progetto sembra destinato alla catastrofe.
E, al contrario, quando il carabiniere dal cuore grande va a prendere Cosimo in ospedale su una slitta natalizia per portarlo alla Messa, sul pazziale della chiesa è presente il paese intero. Si passa dalla tristezza del fallimento alla gioia, frutto della comunione. E ti viene un sospiro: c’è, allora, ancora del bene nel mondo! Lo capisci meglio quando il padre di Cosimo, ricercato a piede libero, arriva anche lui, toccato dalle parole di Cecchini, pronto a prendersi le sue responsabilità con la giustizia e come genitore.

Ecco l’eucatastrofe, ecco il rovesciamento della trama, l’arrivo della gioia. Anche il buon Dio fa la sua parte, evitando di far sfigurare un Suo ministro. Don Matteo ha e ha avuto costantemente una parola di speranza, rassicurandoci che Qualcosa di grande esiste, ci aiuta e ci attende! E così, proprio prima di dare avvio alla celebrazione eucaristica, su quel piazzale affollato, in pieno agosto, inizia a nevicare…
Nella mistica bellezza di quella favola moderna, si intuisce, in un attimo, troppo breve a volte, che l’uomo ha un cuore buono, perché creato da Dio, e che Lui c’è, sempre, perché quella bontà possa esplodere, superando il nostro nativo egoismo. Ci ricorda che Gesù si offre a noi per amore, per non farci smarrire la giusta via: è Cristo l’eucatastrofe vivente, come suggerisce di nuovo il grande Tolkien:«I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie, di un’artisticità particolare, belle e commoventi: “mitiche” nel loro significato perfetto, in sé concluso: e tra le meraviglie c’è l’eucatastrofe massima e più completa che si possa concepire. Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito alla subcreazione sono stati elevati al compimento della Creazione. La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo; la Resurrezione, l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, e mostra in maniera inequivocabile la “intima consistenza della realtà”. Non c’è racconto mai narrato che gli uomini possano trovare più vero di questo, e nessun racconto che tanti scettici abbiano accettato come vero per i suoi propri meriti. Ché l’Arte di esso ha il tono, supremamente convincente, dell’Arte Primaria, vale a dire della Creazione. E rifiutarla porta o alla tristezza o alla iracondia» (Albero e foglia, pp. 95-96).


Come dire e come direbbe don Matteo, nonostante tutto, perché ci raggiunge dall’alto, ci dà forza e ci sostiene verso il traguardo più grande, regalandoci un lieto fine, c’è sempre una speranza!


 

10 luglio 2017

Per fortuna c’è don Matteo! Contro la disperazione attuale


di Samuele Pinna

Vedo pochissima televisione (notizia inutile), ma quando sono a tavola non la disdegno (notizia altrettanto inutile). Di là da queste informazioni superflue, in questi giorni ho scovato su una rete nazionale qualcosa di interessante: proprio nell’ora del pranzo sono rimandate in onda alcune puntate di vecchie stagioni della famosa fiction Don Matteo. 

Nonostante non sappia bene di quale serie si tratti (forse la quinta), rimango sempre ammaliato da quegli episodi che uniscono a un racconto giallo alcune vicissitudini dei protagonisti. Sono convinto che Don Matteo sia una fiaba dei tempi moderni, dove si sprigionano in un condensato molti valori buoni, spremuti ben bene. Del resto, la caratteristica della buona fiaba, afferma il letterato inglese Tolkien, è che essa è in grado di provocare nel bambino o nell’adulto che l’ascolta (o la guarda) «un’interruzione del respiro, un sobbalzo del cuore, di portarlo vicino al pianto o addirittura di indurlo effettivamente a piangere». Non nego, pertanto, un po’ di invidia nei confronti del protagonista per come esercita il suo ministero sacerdotale: riesce, infatti, a essere sempre presente al momento e nel luogo giusti.

Ha un sacrestano, simpatico tra l’altro, eppure non disdegna di pulire la chiesa; ha una perpetua, anche lei particolare nella simpatia, eppure non si tira indietro nel dare una mano nelle varie faccende di casa; trova il tempo di pregare ed è sempre di aiuto verso tutti quelli che lo necessitano. La “cosa”, però, per me più affascinante accade quando, solitamente a fine puntata, fa prendere coscienza del male e (addirittura) riesce a convertire le persone che per vari motivi hanno commesso qualche delitto. Lì un po’ d’invidia mi viene nel vedere la bravura di don Matteo, perché, a essere attenti, le sue parole e i dialoghi sono sempre edificanti e azzeccati. E non è solo l’invidia davanti a Terence Hill, attore magnifico, e ai suoi occhi di un terso azzurro e lo sguardo furbo alla Trinità, bensì a quella bellissima storia narrata e interpretata magistralmente. Del resto, solo un attore come Terence Hill poteva personificare Don Matteo, dove i valori buoni recitati sul set sono altresì presenti nella sua persona. Non voglio, però, stilare qui l’elogio a questo grande attore (che non è ha bisogno), ma proporre una riflessione nata a partire da quei racconti da fiaba.

Sì, perché non c’è solo il “prete-dective” o meglio il prete-prete, ma anche l’arma dei carabinieri e la politica (almeno nelle puntate di questa serie) a essere chiamati in causa e resi modelli positivi. E tutti ce ne guadagnano: i ministri della Chiesa, le forze dell’ordine e i politici stessi. E c’è un’armonia, un concentrato di bene, che fa sospirare e immaginare che un mondo migliore è possibile. Allora non resta che dire grazie agli attori, agli autori, ai produttori di Don Matteo per questa storia che ci raccontano da anni e che pare sempre giovane. Avvenimenti narrati che ci fanno pensare e ci portano alla dura realtà, così diversa, ma insieme con una via d’uscita: è davvero possibile cambiare. Sì, è possibile cambiare se, come don Matteo-Terence Hill, ci si affida al Signore sia nei momenti bui sia in quelli di apparente normalità; se Lo si prega e si esercita la misericordia non come condono ma come aiuto alla conversione del cuore, che necessita pentimento e penitenza. Un prete, don Matteo, che sa stare in ginocchio davanti al suo Signore, che non dà consigli sbagliati (sebbene alla moda) per essere popolare, ma dice e ricerca la verità, che sa arrabbiarsi all’occorrenza eppure che ha una grande umiltà a motivo del suo servizio che nasce dal rapporto con Qualcuno. Un pastore con l’“odore delle pecore” (per usare la famosa frase di papa Francesco), ma che rimane pastore per le sue pecore e pecora dinnanzi all’unico Pastore universale. Preferisce subire lui, piuttosto che rinnegare la verità, la quale deve essere ricercata mediante indizi e prove uniti a ragionamenti e restando sempre attento a quei particolari che sfuggono ai più, come in ogni buon libro giallo. Un prete vero e, proprio per questo, da favola: difficile essere sacerdote così!
Ma a guadagnarci c’è anche l’arma dei carabinieri, dove nella fiction si osserva il lavoro svolto con onestà, capacità, coraggio e buon senso. In una società libertina, da tempo le forze dell’ordine sono spesso considerate antagoniste, oppressive e sopportate con fastidio. Don Matteo permette di sperare che, nonostante il decadimento dei valori, le persone che li devono difendere non siano intaccate dal male e dalla mediocrità.

Poi c’è anche un po’ di politica negli episodi, raccontata con garbo: “la” Sindaco svolge con serietà, in modo professionale e con umanità intelligente il suo servizio alla collettività. In un episodio sono persino raccontate le elezioni e, a prima vista, si potrebbe dire con fair play, ma invero è solo mostrato l’equilibrio con cui dovrebbero essere vissute le cose in un mondo “normale”. E qui la fiaba sembra prendere accenni parossistici. Eppure è la realtà che tutti sogniamo. Perché non si realizza allora? Tante le risposte.

La prima: abbiamo eclissato Dio dal nostro orizzonte e lo abbiamo sostituito con degli idoli (denaro, potere, sesso…). Non solo il Dio cristiano è sparito dalla coscienza, ma l’idea stessa di divinità: ci siamo liberati del divino e ci siamo trovati schiavi di un uomo decaduto, con mille possibilità (tecnico-scientifiche) eppure incapace di vivere il bene (morale). Siamo giunti addirittura a rifiutare di riconoscere che l’Europa abbia radici cristiane e poi continuiamo a scervellarci di come uscire da una crisi che appare imperitura. Le due cose sono collegate: la vera crisi è valoriale e si supera solo sapendo da dove si è venuti e capendo dove si deve andare. Il problema maggiore – ed è una seconda risposta – è quello dunque d’aver perso l’uso di ragione. Come si possono negare le nostre radici cristiane quando il calendario si basa sulla nascita di Cristo, quando Natale e Pasqua si considerano giorni festivi e l’arte più sublime che possediamo è ispirata dalla fede cristiana?

Da qui – ed ecco una terza risposta –, si sono camuffati i disvalori dandogli una sembianza positiva per mezzo di una libertà mal intesa, sostituendo la legge naturale e morale con quella umana (troppo umana) degli Stati. La legge naturale riguarda ogni uomo di tutti i tempi, quella di uno Stato invece è molto fragile e transitoria e può essere anche ingiusta.

Un’ultima risposta – ma ce ne sarebbe tante altre, tra loro concatenate – è quella di aver smarrito la differenza tra vero e falso. Dante ce lo insegna nel quinto canto dell’Inferno (vv. 52-60) quando parla di Semiramide, imperatrice di molte nazioni dalle diverse lingue (favelle), la quale fu così corrotta dal vizio della lussuria che fece una legge che ne legittimava (fé lecito) il capriccio (libito). La legge di uno Stato, ahinoi, non è necessariamente una legge giusta: «a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta» (Inf., V, 55-57). La legge per essere giusta deve essere buona universalmente e ispirata alla verità (apodittica).
Per fortuna c’è don Matteo che ci riporta a sperare in un mondo migliore. Non ci resta che pregare, tenendo presente quanto ha dichiarato una volta il cardinal Giacomo Biffi a riguardo della retta fede che deve contraddistinguere i cristiani: «non abbiamo bisogno di annunciatori della parola che cambia il Vangelo con la scusa di adattarlo al nostro tempo, ma di annunciatori che tentino ogni giorno, magari riuscendoci poco, di cambiare se stessi per essere ogni giorno più conformi al Vangelo che non cambia».
Ah, dimenticavo: per fortuna in Don Matteo c’è anche il maresciallo Cecchini (alias il mitico Nino Frassica), che nei momenti bui è un toccasana, perché regala un poco di luce nell’aiutare a fare una onesta risata.

 

11 gennaio 2016

Don Matteo torna e sbanca l’auditel. Una lezione per tutti



di Giuliano Guzzo

Don Matteo torna per la decima volta e sbanca letteralmente l’auditel totalizzando subito una media di ascolti, fra il primo ed il secondo episodio, pari a circa 9 milioni di telespettatori. Numeri da capogiro che hanno immediatamente portato alcuni critici, increduli di fronte a tanta longevità catodica, a tuonare – un po’ come altri hanno fatto, in questi giorni, (s)parlando di Checco Zalone – contro un pubblico che sarebbe mediocre e poco esigente, assai facile da accontentare.  Ora, al di là di quanto pensa questo o quel giornalista, credo che sul successo di Don Matteo ci si dovrebbe interrogare un po’ tutti per una ragione molto semplice, che è la natura del personaggio di Terence Hill: un prete vestito da prete – trasgressione enorme, se ci pensate -, che non ha particolari fissazioni per vere o presunte “aperture dottrinali” e, alla denuncia del global warming e alla lotta alla corruzione e ad altre priorità sociali, preferisce instancabilmente il tema Dio. Un peso da museo, si direbbe.

Eppure – dicevamo – don Matteo continua ad essere seguito pure alla decima serie, quando i personaggi principali sono familiari a chiunque, quando la struttura generale delle puntate è arcinota, quando gli ingredienti nuovi sono per forza di cose limitati rispetto ad una “macchina” ormai collaudatissima sotto tutti i punti di vista. Merito del fascino dell’intramontabile spalla di Bud Spencer? Della simpatia travolgente del maresciallo Cecchini, alias Nino Frassica. Delle ambientazioni incantevoli? Certo, sono senza dubbio elementi caratteristici anzi fondamentali per il successo di questa serie ormai è a tutti gli effetti un classico, almeno per la televisione italiana. Ma forse c’è qualcos’altro, qualcosa che ha a che vedere con quanto dicevamo poc’anzi rispetto alla straordinaria normalità di questo prete che affascina un’Italia che va sempre meno a Messa ma che quando ritrasmettono per la milionesima volta don Camillo o, appunto, per la centesima don Matteo orienta il telecomando con sicurezza.

Forse non è poi così vero che agli Italiani ne hanno abbastanza della Chiesa e la fede non interessa più. Forse le persone vorrebbero preti – e più in generale di cattolici -, che sappiano credibilmente parlare loro di Gesù Cristo, di Dio, dei santi; forse le Messe piene di effetti speciali e poco raccoglimento e le prediche costellate di sociologia ma povere di teologia fondamentale, semplicemente, interessano poco o comunque fino a quando non ci si imbatte in uno spettacolo o in un predicatore più interessante. Forse è per questo che don Matteo, personaggio carismatico ma semplice, capace di proporre a tutti il perdono senza però svenderlo a chi non sia realmente pentito, continua ad fare il boom di ascolti. Perché nei telespettatori alberga la speranza di respirare ancora, non solo davanti alla tv, quella genuinità che il prete interpretato da Terence Hill incarna da anni e in modo solo apparentemente ripetitivo, perché dopo duemila anni la notizia di un Dio fatto uomo, disposto amando a caricarsi sulle spalle tutte le nostre piccole e grandi miserie, non solo non è invecchiata, ma mantiene giovane chi l’annuncia.

http://giulianoguzzo.com/2016/01/09/don-matteo-torna-e-sbanca-lauditel-una-lezione-per-tutti/