di Alfredo Incollingo
Al liceo scientifico «Augusto Righi» di Roma è bagarre. Una studentessa è stata rimproverata da una professoressa per essersi vestita in maniera non adeguata al contesto scolastico, indossando una minigonna e mettendo in mostra il suo ombelico.
Intervistata dall’AdnKronos, la ragazza ha raccontato che «la prof non mi ha dato espressamente della prostituta, ma mi ha accusato di mercificare il mio corpo, per il modo in cui ero vestita». A scatenare le proteste del corpo studentesco della scuola è stata in realtà la frase proferita dalla docente per riprendere la sua alunna: «Ma che stai sulla Salaria?».
Non si può non contestare il linguaggio utilizzato dalla professoressa, del tutto inadatto alla scuola così come l’abbigliamento della ragazza. Pur trattandosi di un’espressione infelice, è una frase in sé per sé veritiera: in alcuni luoghi si deve rispettare uno specifico dresscode.
La preside dell’istituto scolastico, infatti, ha affermato che «più che di dresscode parlerei di abbigliamento consono all'ambiente, come avviene ovunque. Viviamo in una società in cui ci si deve adeguare al contesto in cui ci si trova».
L’utilizzo di un abbigliamento sobrio e il più possibile uniforme ha una ricaduta concreta molto importante. Oltre al rispetto per il luogo istituzionale, si garantisce una maggiore uguaglianza sociale tra gli studenti, che era materialmente assicurata dalle divise scolastiche.
Paradossalmente, in una società che considera le uniformi come forme di repressione, la libertà d’abbigliamento a scuola incrementa le differenze sociali: uno studente più abbiente può sfoggiare un vestiario più sgargiante e sopraffino rispetto ai compagni provenienti da famiglie meno ricche, marcando così le disuguaglianze sociali incidendo notevolmente e negativamente sul processo formativo.
Nei giorni successivi all’accaduto denunciato in maniera così perentoria dalla studentessa del liceo romano, gli studenti hanno deciso di indossare abiti femminili per protestare contro il sessismo imperante nel loro istituto scolastico.
Eppure, i protestatari non hanno compreso come la svendita del corpo femminile attraverso i social network è la manifestazione più evidente della mercificazione della donna.
La studentessa “bullizzata” dalla sua professoressa racconta ad AdnKronos che «tutto si è scatenato perché durante un'ora di buco con un compagno stavamo facendo un balletto da postare su Tik Tok. Lei [la docente] è entrata senza dire nulla. Noi ci siamo rimessi a sedere e ci siamo scusati. A quel punto mi ha accusato di mercificare il mio corpo. E poi davanti alla vicepreside la professoressa ha insistito, alzandosi la maglietta e muovendosi in modo sensuale per farmi capire che non voleva darmi della prostituta, ma tutelarmi. Ma a me ha detto un'altra cosa: che stavo vendendo il mio corpo»
Su Tik Tok ci si vende per i «like» e le sponsorizzazioni. Nessuno lo mette più in dubbio. Dov’è finito quel femminismo che denunciava la mercificazione del «sesso debole» al cinema, in televisione e oggi anche su internet? Forse, le giovani generazioni hanno perso il significato delle battaglie delle femministe del ’68 e la professoressa inquisita è l’unica vera protettrice della dignità femminile.
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