Chiudo in fretta il messaggio con la foto della barboncina tunisina e i panzuti che la scaricano sorridenti a Lampedusa. Chiudo in fretta perché la rabbia cresce dentro; allora provo a rilassarmi: il pensiero va indietro di vent'anni, l'ultima estate in Africa, l'ultima estate in Tanzania. Al declinare di quelle poche, rapide, frenetiche giornate passate a fare un rilievo per un acquedotto, le risate dei signori dai sandali fatti con i copertoni riciclati... risate sul far della sera, alla fine del rilievo topografico. Io raccontavo le mie più recenti vicende con gli africani in Italia... o meglio, all'epoca, quasi esclusivamente con le nigeriane che fuggivano dalla tratta, sulla strada. Quando raccontavano la loro storia, molte esordivano con una frase lapidaria: "In Nigeria, you know, we have nothing. So I am here." Questa frase, anche se l'inglese compreso dai tanzaniani della campagna non era così vasto, era sufficiente a far salire fino al cielo risate sonore: perfino per gli analfabeti in Tanzania, Nigeria non è sinonimo di paese povero, è sinonimo di paese di furbi.
Quell’acquedotto non c'è ancora dopo vent'anni. I bambini con le vacche al pascolo continuano a salire per 2 km all'interno della valle, magari a far loro compagnia va pure qualche animale selvatico, ma ci sono abituati… all'alba vanno ad abbeverare le bestie alla povera sorgente perenne. Passano davanti alla scuola: quante volte ci saranno stati dentro? Chissà… Io so che con un’ infinitesima parte dei soldi che ci costa inseguire, raccogliere, mantenere questi panzuti che sbarcano con la barboncina, ci avremmo fatto quell’acquedotto. E pure uno sbarramento di pochi metri, per creare un laghetto e irrigare gli orti di quel villaggio che veramente viveva di niente e di diverso dagli altri non aveva niente se non quel gran cassone di sabbia lasciato dalle piene nella stagione della pioggia, prima di disperdersi più giù, nella savana arida.
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