14 giugno 2020

Per gli antirazzisti il colore della pelle conta

di Giorgio Salzano

Forse mi sbaglio. È sempre una possibilità. Ma se mi sbaglio, mi piacerebbe che me ne spiegassero le ragioni. E sottolineo, le ragioni: una ben argomentata presentazione dei fatti, così che se ne possano trarre delle conclusioni. Forse mi sbaglio, dunque, ma ho l’impressione che chi più grida contro il razzismo ci sono buone probabilità che sia il primo razzista.

E siccome parlo di ragionare, provo a esporre le mie ragioni. A cominciare da una definizione non dell’anti razzismo, ma della sua assenza. Con le parole di Martin Luther King: quando una persona è giudicata non dal colore della sue pelle, ma dalla qualità del suo carattere.

Non mi butto subito su cose americane, come l’emergenza del momento parrebbe richiedere. Mi soffermo su cose dell’Italia, dove anche abbiamo visto aver luogo manifestazioni antirazziste. Non mi sono informato su chi fossero i partecipanti, ma ho il vago sospetto che fossero di sinistra e contro Salvini.

La domanda dunque è se Salvini sia razzista. O non soltanto realista.

Salvini è milanese, e la cosa suscita sospetto. Chi ha una certa età sa come andarono le cose in Italia all’epoca del boom economico, quando tantissimi meridionali si trasferirono al Nord in cerca di lavoro e opportunità. Malgrado cento anni di unificazione politica dell’Italia, e una guerra – la prima guerra mondiale – combattuta per volere del re al fine di unificare gli italiani nel sangue, le divisioni regionali rimanevano profonde, e i pregiudizi dei nordici nei confronti dei meridionali erano forti. Oggi si fa di tutta l’erba un fascio, e si parla anche a questo riguardo di razzismo. Ma i pregiudizi attenevano soprattutto alla qualità del carattere, e furono superati quando ci si rese conto che a questo riguardo le differenze non erano quelle che si temevano, poiché i principi nella formazione del carattere erano in fondo gli stessi. Diciamo pure la religione cattolica, e il suo portato culturale perdurante anche tra quanti non si consideravano più cristiani.

Ma i pregiudizi attenevano soprattutto alla qualità del carattere, e furono superati quando ci si rese conto che a questo riguardo le differenze non erano quelle che si temevano

Oggi l’Italia è diventata anch’essa paese di immigrazione, e i berberi, gli arabi ecc., e a maggior ragione i neri che vengono sono davvero somaticamente diversi dagli italiani. Ora Salvini si schiera contro l’immigrazione incontrollata, pretendendo di parlare a difesa degli italiani. È razzista? Non saprei, non avendogli mai parlato di persona per poter sapere quanto entri il colore della pelle nelle sue prese di posizione. Potrebbe non entrarci per niente. Egli brandisce a segno dell’identità italiana il rosario, e non solo gli antagonisti laici ma perfino i vescovi si indignano. Ma i vescovi, salvo eccezioni, hanno cessato quasi di fare testo. Vuol dire forse che fa testo Salvini? Chissà, potrebbe anche essere che per intuito abbia afferrato qualcosa che teologi e prelati non sembrano capire più.

La formazione del carattere ha a che fare con la religione, e la religione ha a che fare con la giustizia tra i membri della società. E giustizia significa innanzitutto riconoscimento reciproco come appartenenti alla stessa società di uomini. È il problema che si presenta ogni qual volta si incontrano esseri umani di diversa provenienza, vicina o lontana. Sarà un nemico, ci possiamo chiedere, o può essere un ospite? Le due parole sono in italiano di diversa origine, ma in latino sono la stessa parola, con la differenza di un “pi”: hostis e hospites. Questo implica, osserva il grande linguista Emil Benveniste, che probabilmente c’era all’origine un verbo hostire non più attestato, che significava equiparare, con un giudizio positivo o negativo nei confronti di chi si incontra. Ora questo è un problema serio, che solleva qualunque livello di relazioni sociali, e che non si può cancellare semplicemente dichiarando che tutti gli esseri umani sono uguali. Non basta l’affermazione di una astratta umanità, che oblitera differenze che innegabilmente ci sono, per cui alla diversità di provenienza può corrispondere, più rilevante del colore della pelle, una diversità nei principi formativi della personalità. Bisogna che ci si riconosca in qualcosa che effettivamente equipara, così che il disastro di Babele sia superato. Come quando «Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e della Libia vicino a Cirene, Romani […], Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi», ascoltando gli apostoli sentivano parlare la loro stessa lingua.

È questo che teologi e prelati tendono a dimenticare. O di cui non sanno più rendere conto. Fa pena dunque che debba essere Salvini a brandire un simbolo di quella lingua, e non coloro che sono deputati a insegnarla. Come se nemmeno si rendessero conto del problema costituito dalla differenza di hostis e hospites, così da riconoscere che il Cristianesimo ne rappresenta la soluzione. Si asserviscono perciò allo stato come al possibile equiparatore. Ma lo stato non può equiparare che nel generale assoggettamento.

Come se nemmeno si rendessero conto del problema costituito dalla differenza di hostis e hospites, così da riconoscere che il Cristianesimo ne rappresenta la soluzione.

I discorsi pubblici sono dunque all’insegna dell’antirazzismo, sia pure come fascio di quella famosa erba, in cui non si distingue più tra avversione razziale e sospetto culturale. Ma la cosa curiosa, evidente in America mentre da noi probabilmente si cela nella confusione delle erbe nel famoso fascio, è che l’antirazzismo diventa la maschera del razzismo. Se definiamo razzismo con la sentenza che il colore della pelle conta. Non so bene dire da quando, ma certamente nell’ultimo decennio, si è diffusa nella sinistra statunitense (detesto questo aggettivo, ma mi fa senso chiamarla americana, quando non ha più nulla dell’idea d’America) la così detta identity politics: è come dire che tutti sono o bianchi o neri o gialli o bruni, ed ognuno si dovrebbe identificare con quelli dello stesso colore di pelle – ovviamente secondo i dettami di coloro che predicano una simile politica dell’identità. Ossia gli statalisti democrat. L’identity politics si iscrive in una visione politica di vittimismo generalizzato: ognuno è vittima di qualcun altro, e quindi se è un fetente non è colpa sua, ma di chi lo ha vittimizzato. I vittimismi si incrociano, per cui quello razziale va a braccetto con quello sessuale, in cui vittime sono ovviamente le donne, o anche gli omosessuali. Ma se ci sono vittime, ci deve essere anche un vittimizzatore. E chi altri alla fin fine se non il maschio bianco?

L’epitome è Trump. Tra gli intelligenti l’odio nei suoi confronti non conosce limiti. Dopo tutto è un maschio bianco che pretende di parlare per l’America come terra di opportunità – il che non significa che non vi siano stati soprusi nella sua storia, ma che non è questo che ne caratterizza la costituzione. Il maschio bianco ha il permesso di parlare solo con la premessa almeno implicita di un mea culpa. Se adotta cioè nel discorso pubblico il dovuto atteggiamento autodeprecatorio da identity politics. Se un bianco prova a dire che per lui il colore della pelle non ha importanza, subito scatta l’insulto: razzista; se è poi un nero (come il grande neurochirurgo Ben Carson, che fa parte del governo Trump) a dichiarare che il colore non impedisce di avvalersi delle opportunità che l’America offre, allora l’insulto è di Uncle Tom o di traditore della sua razza. Il colore della pelle non può non contare, deve contare, proclamano persone famose – celebrities in inglese – bianche e nere o nere e bianche, come si preferisce, dai loro pulpiti televisivi: buttiamo giù l’usurpatore!

L’identity politics si iscrive in una visione politica di vittimismo generalizzato.

Ma si tratta di celebrities, gente di successo! Che come il dottor Carson dovrebbe essere grata di quello che ha avuto dall’America. E invece rinfocola vecchi rancori, braci quasi spente di antichi pregiudizi, mantenuti in vita da disastrose politiche assistenziali e familiari che hanno creato un lumpenproletariat urbano “di colore”, nel quale serpeggia una violenza internicina incredibile, come ad esempio nella città di Chicago, dove i morti ammazzati ogni anni si contano a migliaia. Il colore della pelle deve contare, altrimenti si dovrebbero fare i conti con il fallimento nella formazione del carattere. L’antirazzismo, che per la definizione che ho dato del razzismo è razzista, è in effetti animato da un odio più che razziale ideologico. Parlo degli Stati Uniti, ma anche se in misura minore – l’aspetto razziale, dico, non quello ideologico – vale pure per noi:. Oggetto di quest’odio razzial-ideologico non sono là necessariamente i bianchi in generale (che può anche essere il caso con certe celebrities nere), ma quelli che Hillary Clinton bollò come i “deplorables”, la gentaglia, potremmo dire in italiano, della classe media o medio-bassa che non segue i dettami degli intelligenti, ma cerca per quanto ne è capace di attenersi ai precetti di decenza e di carattere religiosamente tramandati. Le loro sono medie storie, di medi successi e medi fallimenti, e media capacità di districarsi tra hostis e hospites. Sono le storie di gente che ha trovato in Trump un portavoce. Ma non è degna di attenzione e di simpatia da parte della sinistra dei multimilionari, dell’accademia e dei grandi media, e della high tech che esercita nei social la sua censura.

In fondo, l’identity politics della sinistra degli US, che rifiuta l’A, non è che una manifestazione dell’antica massima divide et impera. Gli intelligenti, bianchi e neri, dividono la popolazione per meglio sottometterla al loro statalismo. Così l’antirazzismo diventa, anche da noi, una forma di dominio.


 

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