Dagli scritti del beato Contardo Ferrini
Dopo una giornata piovosa e plumbea, oggi il cielo milanese risplende ripulito grazie ai forti raggi del sole, aiutati da una dolce brezza che ha spazzato via nubi fastidiose per chi vuole contemplare il terso azzurro della volta celeste. E in questo giorno, sedici di ottobre, la Liturgia ambrosiana propone a ogni battezzato l’esempio cristiano del beato Contardo Ferrini, nato proprio a Milano nel 1859. Uomo dotto – ricorda il Breviario –, si formò nelle discipline giuridiche prima a Pavia e poi all’Università di Berlino. Studioso e docente di diritto romano, insegnò a Messina, a Modena e a Pavia. La meditazione quotidiana, l’assidua preghiera, la frequente partecipazione all’Eucaristia, l’amore verso la beata Vergine Maria furono l’alimento della sua vita spirituale. Votatosi al celibato per il Regno di Dio, rifulse per l’amore ai poveri e la cortesia del suo tratto. Morì il 17 ottobre 1902 a Suna, sul Lago Maggiore.
Dai suoi scritti religiosi veniamo a scoprire un equilibrio spirituale che è insegnamento. Avere conoscenze non significa dominare, come il Positivismo dei suoi anni predicava, ma servire, perché, solo ascoltandolo, l’infinito si fa comprendere ed entra in dialogo. L’invito è, quindi, seguire la via dell’umiltà, tanto cara a san Benedetto, Patrono d’Europa (ormai dimentica delle sue gloriose origini), e ritracciata da uno dei suoi più grandi discepoli, passato in qualità di paciere dalla città meneghina, san Bernardo di Chiaravalle (esponente di spicco di quel Medioevo luminoso e illuminante). È tale virtù che dovrebbe animare il ricercatore cristiano (o meno), mosso non dalla diffidenza ma dalla fede (e quanta fede hanno dimostrato di avere gli scientisti di ogni epoca!). Sicché, il saggio Ferrini può dire, non senza audacia, come siano stupendi gli arcani di Dio: «Confusa l’anima superba, egli sa trarre luce, ove il mondo non sospetta che tenebre; egli sa accecare, donde il mondo attende la luce. E la parola di Dio è verità. Non solo parlo di quei fenomeni viventi, troppo oggidì numerosi, di quei Capanei novelli, che rinnegano Dio e calpestano la fede; io parlo di voi, filosofi cristiani, di voi teologi sottili e celebrati. Ah! quante volte la povera vecchierella della mia montagna che apprese a creder nel Figliuol del fabbro ed ha conforto e lume in quella fede, potrebbe insegnare a voi e dire meravigliata le parole evangeliche: “Come! tu sei maestro in Israele e ignori queste cose?” (Gv 3, 10)». Parole di una impressionante verità (sempre attuale heri et hodie idem, et in saecula), che sembrano stilate per i nostri confusi tempi, dove la fede diviene cavillo intellettualistico e ragionamento sragionato, in cui il divino deve essere umanizzato (e non viceversa), la caducità cordialmente apprezzata, con il vizio elevato a virtù. E il tanto discutere, sistemare, riorganizzare, è veicolo per dimenticare quella Verità che tutto aveva messo in movimento, perché troppo alta, forse difficile, di già sorpassata, così impresentabile per mode e gusti che non si allineano più con il volere dell’Altissimo. Eppure – s’interroga il Beato – «donde tanto lume di Dio nelle anime sante, umili e semplici e senza farina di mondo, senza ingombro di libri? Donde tanto alto sentimento di lui?
Quante volte, stanco d’una lunga giornata di cammino sui monti, assiso all’ombra d’un abete che mi difendeva dal sole cadente, ho ragionato col pastore dell’Alpi, colla povera donna, figlia della montagna! E ogni volta fui meravigliato e confuso: tanta era la sapienza della vita, tanto il senso della Provvidenza divina, tanto bassa la stima delle cose terrene, tanta la pace intima e il gaudio d’una vita intemerata! Dio parla loro dalla cima nebbiosa del monte, dal fragore del torrente montano, dall’orrore della rupe scoscesa, dal candore delle nevi perpetue, dal sole che imporpora l’occidente, dal vento che investe la chioma dell’abete vetusto; la natura vive animata dal soffio onnipossente di lui, sorride del gaudio di lui, s’oscura per l’ira di lui, e in mezzo alle mille vicende è giovane ancora, com’è perennemente giovane il sorriso di Dio. È giovane lo spirito che vive per lui, per l’ardore della carità, la forza de’ propositi, la non turbata letizia: e al sorgere dell’aurora suonar festosa la squilla della chiesuola alpina e correre i poveri abitanti e gioire avanti al Dio vivo e vero, al Dio, che rallegra la loro gioventù (cfr. Sal 42, 4)».
Dalla bellezza della creazione si può conoscere la bontà del Creatore, da illusi padroni del mondo si diviene custodi del creato, non responsabili con prerogative banali, in voga nell’odierno discettare, convincendo e convincendosi – ovvietà! – che la casa ospitante necessiti di pulizia e funzionalità. No, è molto di più! È qualcosa di mistico, di soprannaturale, di decisivo per il bene comune (possiede o meno un’anima il creato?) e si basa sulla fondamentale intuizione che tutta la realtà comunica la bellezza di Chi l’ha posta in essere. Autentica visione francescana (non frutto di ideologico naturalismo), capace di riconoscere l’armonia spirituale in ogni cosa, perché se non esistono valori trascendenti, semplicemente non esistono valori, se non quelli arbitrari, decisi a tavolino da qualcuno e che durano quanto possono, annullandosi e rincorrendosi nelle bizze del tempo che passa. Si sa, la storia ci è docente e insegna che ogni rivoluzione si origina in ossequio a buone intenzioni e finisce per vivere soprusi sovente più efferati di quelli che voleva orgogliosamente eliminare.
E allora, prosegue il Nostro, convitando alla semplicità (caratteristica divina) e dando forma al testimone della cerchia degli evangelici pusilli: «quanto infinito in quella vita, che si nasconde in quella mal composta capanna, fra quelle candide greggie, fra quelle cime solitarie di monti! Quanto infinito in quella madre solerte, che educa le generazioni venture e perpetua l’opera di Dio, onoranda per un sacerdozio nobile ed efficace; in quella venerabile canizie che narra ai nepoti le uniformi vicende di una vita lunga e povera, ma degna e intemerata; in quel pudico rossore di volto della giovane sposa, che sale al santuario della sua montagna e trepida invoca Maria! Oh! lasciatemi ripetere quella gioconda parola: Quanto bene c’è nel mondo, quanto il Signore ha prediletto gli umili tra i figli suoi!». E ciò non nasconde un monito, che è strada maestra per chiunque, soprattutto per i sapienti (che lo siano davvero o che se lo immaginino), pur rimanendo una terribile verità: «Quella scienza, che parrebbe la strada all’infinito, non lo scorge, se non è fondata nella più semplice umiltà, ma travia e delira». Sì, ammonizione per chi idolatra la “scienza” e il “progresso” della tecnica, ma anche per chi si dice cristiano o, quantomeno, buonuomo. Quanti magister in sacra doctrina sono, poi, più preoccupati di far capire il loro dire, spesso barbaro, piuttosto che l’unico Verbum che conta (quello caro factum est). Del resto, intima Contardo, lui studioso per eccellenza, «se alcuno de’ nostri grandi ha inteso e sentito Dio, guardate se fu nell’arido studio di astruse questioni, o fu piuttosto in un’ora mattutina davanti agli altari di Dio, o al tramonto, quando l’ultimo raggio di sole o il pio raggio della sorgente luna cadeva su la mite immagine di Maria e un uomo prostrato in dolce e confidente preghiera».
In queste righe non si scorge il dotto che rifugge dall’intelletto, ma si vede il santo che ne conosce troppo bene il limite e impara a confidare solo in chi può realmente salvare. È lo sguardo di colui che, con tenerezza, stupisce dinanzi ai piccoli, i quali altro non sono che i prediletti di Dio secondo l’accorata invocazione del Cristo: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te» (Mt 11, 25-26).

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