Con Gregorio Magno possiamo evocare quella che viene definita la forma classica della Messa romana. Questa forma rimarrà sostanzialmente invariata nei secoli a venire, anche se certamente alcuni mutamenti vi interverranno.
Dobbiamo pensare che Gregorio Magno, malgrado la salute malferma, fu pastore attento ai bisogni delle sue anime, di cui comprendeva bene la psicologia e le necessità, come leggiamo in quanto segue: “È pure necessario che la guida delle anime esplichi una vigile cura perché non la spinga la bramosia di piacere agli uomini, e quando si dedica assiduamente ad approfondire le realtà interiori o distribuisce provvidamente i beni esteriori, non cerchi di più l’amore dei sudditi che la verità; e quando sostenuto dalle buone azioni sembra estraneo al mondo, il suo amore di sé non lo renda estraneo al Creatore. Infatti è nemico del Redentore colui che, attraverso le opere giuste che compie, brama di essere amato dalla Chiesa in luogo di Lui; ed è così reo di pensiero adultero, come il servo per mezzo del quale lo sposo manda doni alla sposa ed egli brama di piacere agli occhi di lei. Poiché quando l’amor proprio si impadronisce della guida delle anime, talvolta la trascina a una mollezza disordinata, talvolta al contrario ad un aspro rigore. Il suo spirito è portato alla mollezza dell’amor proprio quando, pur vedendo i sudditi peccare, non trova opportuno castigarli per non indebolire il loro amore verso di lui, e non di rado accarezza con le adulazioni quegli errori dei sudditi che avrebbe dovuto rimproverare. Perciò è detto bene, per mezzo del profeta: Guai a coloro che cuciono cuscinetti per ogni gomito e fanno guanciali per teste di ogni età, per rapire anime. Porre cuscinetti sotto ogni gomito è confortare con blanda adulazione le anime che vengono meno alla propria rettitudine e si ripiegano nei piaceri di questo mondo. Ed è come accogliere su un cuscino o su un guanciale il gomito o il capo di uno che giace, quando si sottrae il peccatore alla durezza della punizione e gli si offrono le mollezze del favore, così che chi non è colpito da alcuna aspra contraddizione giaccia mollemente nell’errore. E le guide delle anime che amano se stesse, senza alcun dubbio offrono di queste cose a coloro che temono gli possano nuocere nella loro ricerca della gloria mondana. Infatti esse opprimono con l’asprezza di un rimprovero sempre duro e violento quelli che vedono non avere alcuna forza contro di loro, e non li ammoniscono mai benignamente ma, dimentiche della mitezza del Pastore li terrorizzano in forza del loro potere…Dunque, chi presiede deve applicarsi a farsi amare per potere essere ascoltato; e tuttavia non deve cercare amore per se stesso, per non essere trovato come chi, nell’occulta tirannide del suo pensiero, si oppone a colui che per via del suo ufficio sembra servire. Ciò suggerisce bene Paolo quando ci manifesta gli aspetti nascosti della sua dedizione, dicendo: Come anch’io piaccio a tutti in ogni cosa. E tuttavia dice di nuovo altrove: Se piacessi ancora agli uomini non sarei servo di Cristo. Dunque, Paolo piace e non piace perché, nel suo desiderio di piacere, non cerca di piacere lui, ma che agli uomini piaccia la verità attraverso di lui” (Regola pastorale, II, 8, pp. 95-98).
Isidoro di Siviglia (560-636) fu grande vescovo ed autore dell “Etimologie”. In esse parla del potere della musica: “Il potere della musica (Quid possit musica) 1. Quindi, è senza la musica che nessun'altra disciplina può essere perfezionata, perché nulla è senza musica ...2. Anche in battaglia, il suono della tromba infiamma i combattenti e più ardente è l'esplosione, più coraggioso cresce lo spirito per la gara ...3. La musica calma anche gli spiriti eccitati, proprio come si legge su Davide, che ha salvato Saul dallo spirito impuro con l'arte della modulazione. La musica chiama le bestie stesse ad ascoltare la sua modulazione, persino serpenti, uccelli e delfini ... ". Il teorico di canto Antonio Juvarra parla di una famosa definizione di Isidoro sulla voce: “‘Vox alta, clara, suavis’ è la formula del vero canto, scoperta da Isidoro da Siviglia millequattrocento anni fa. Di essa rimane ancora traccia oggi nella didattica vocale, ma nella forma degradata e stravolta, che è tipica della moderna cultura meccanicistica. La troviamo riproposta (a parole) persino da coloro che teorizzano l’approccio opposto (l’affondo vocale) e che paradossalmente parlano di ‘suono alto e chiaro’ come risultato dei loro affondamenti, risultato che ovviamente non si produrrà mai così come, se riempiamo di piombo tutti gli spazi vuoti di una nave, poi non possiamo aspettarci che galleggi…
Di ‘voce alta e chiara’ parla anche il metodo della ‘maschera’, ma riducendo questa geniale intuizione a una banale questione di azioni muscolari localizzate da attivare (innalzamento del velo palatino, sollevamento dell’arcata zigomatica ecc.) e di trasferimento materiale del suono in alto (altra surreale utopia acustica e fisiologica come quella teorizzata dall’affondo). Dove andrà cercato allora il vero significato della formula di Isidoro, che è il segreto del canto a risonanza libera? In quella concezione olistica del canto e in quei principi universali di eufonia, elaborati dalla scuola di canto italiana storica, che questo libro intende riportare al centro della didattica vocale e analizzare in tutte le loro molteplici e profonde implicazioni” (“Vox alta, clara, suavis”). Bisognerebbe riflettere su questo concetto della voce, alta, chiara e soave, non un bisbiglio indistinto come oggi molti ci vogliono far credere e come ci è dato di ascoltare in troppe liturgie.
Pubblicato il 15 ottobre 2019
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