di Giuliano Guzzo
Saranno le difficoltà impreviste che sta incontrando l’approvazione
del disegno di legge Cirinnà, sarà il conseguente nervosismo, oppure
sarà la voglia di progresso; sta di fatto che più di qualcuno tenta
ormai di avventurarsi nell’impensabile:
giustificare la pratica dell’utero in affitto. La signora Adele Parillo,
per esempio, ci prova con un intervento sul sito del Fatto Quotidiano (Maternità surrogata: dubbi etici e nuovi diritti,
7.09.2015), alla cui rilettura si rimanda chiunque desideri leggerlo
per intero. Interessano, qui, gli argomenti che la signora ha sottoposto
all’attenzione dei suoi lettori. Argomenti che possiamo isolare in due
passaggi dell’articolo. Il primo:
«I contrari alla surrogazione vedono questa opportunità come uno
sfruttamento del corpo della donna, unica vittima. Tuttavia, anche la
coppia committente può essere sfruttata e umiliata dal punto di vista
economico ed affettivo quando la madre cambia idea e si tiene il bambino».
L’osservazione sarà senza dubbio condivisa da molti e mediaticamente
sfruttata, a ben vedere, lo è già (per maggiori informazioni rivolgersi
al Corriere della Sera, i cui redattori sono fenomenali nel dipingere la coppia committente come «sfruttata e umiliata»: un magistrale esempio è il pezzo del 20 luglio scorso “La battaglia di Gordon e Manuel per riavere la figlia: coppia gay bloccata in Thailandia dalla madre surrogata”).
Per quanto sia appoggiata, tuttavia la considerazione dello
sfruttamento della coppia acquirente un bambino è semplicemente ridicola
se comparata con la lesione dei diritti della donna e, soprattutto, con
quella di quelli del figlio oggetto di compravendita.
«Dal punto di vista etico, che obiezioni ci sono alla maternità
surrogata se è una libera scelta? Perché va bene un bambino lasciato a
balia per la maggior parte della sua infanzia e non va bene un feto
ospitato per nove mesi nell’utero di una madre a surrogazione
gestazionale?».
E se la “maternità surrogata” è libera? Lo fosse davvero – in alcuni, rari casi può pure esserlo: quasi mai
però, se no non si spiegherebbe perché non vi siano donne del jet set
fra quante affittano il proprio utero – la pratica rimarrebbe
comunque iniqua per il diritto del minore a non divenire, neppure per un
istante, merce. E neppure il paragone fra l’essere «lasciato a balia»
e l’utero in affitto regge: primo perché la nutrice – figura non più
popolarissima da decenni – non è soggetta a sfruttamento, tanto meno a
sfruttamento simile a quello della donna indiana o thailandese costretta
a mercificare il proprio ventre per quattro soldi; secondo perché la
balia non è madre ma, appunto, balia; terzo perché il figlio allattato o
accudito dalla babysitter è in custodia, non certo oggetto di
mercanteggiamenti vari.
Tutti qui, dunque, i solidissimi argomenti che dovrebbero
convincerci, un domani, a tollerare l’utero a noleggio? A quanto pare.
Namo bene, namo proprio bene, chioserebbe la Sora Lella.
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