di Paolo Maria Filipazzi
A distanza di alcuni giorni, è il momento di fare alcune considerazioni su quanto avvenuto a Washington lo scorso 6 gennaio.
E’ chiaro, per prima cosa, che ad esserne stato danneggiato in modo irreparabile è, innanzitutto, lo stesso Donald Trump, la cui presidenza, segnata da non poche realizzazioni e successi, è destinata ad essere definitivamente demonizzata dai padroni del discorso, galvanizzati, che faranno in modo che venga ricordato solo per questo.
Di fronte a questa constatazione, è purtroppo inutile cercare di spiegare che Trump non ha aizzato nessuno e sicuramente né voleva né si aspettava che i suoi sostenitori entrassero in Campidoglio, che di fronte a quello che stava succedendo ha subito chiesto, via Twitter, ai suoi sostenitori di disperdersi (cosa che questi, tra l’altro, hanno prontamente fatto) e che, il giorno dopo, ha condannato l’accaduto garantendo un transizione ordinata. Insomma, spaventato anche lui dall’ accaduto, ha preferito cedere.
E’ purtroppo inutile anche precisare che, per quanto ciò che è accaduto sia stato illegale e per questo da condannare, non è stato un fatto violento. Per quanto i media stiano parlando di armi e bombe, basta visionare le immagini per constatare come non ci fosse un manifestante che fosse uno armato.
Al contrario, a prendersi un colpo di pistola è stata Ashli Babbit, manifestante pro-Trump uccisa dalla polizia. Poco chiare sono le circostanze della morte di un poliziotto, Brian D. Sicknick, che si sta cercando di attribuire alle “violenze”, ma che in realtà sarebbe stato colto da malore in commissariato…
Ora a preoccupare sono le conseguenze politiche: l’intero partito repubblicano sembra collassato, in una gara a prendere le distanze da Trump anche da parte di coloro che in questi 4 anni ne hanno ampiamente approfittato. Il che significa che il GOP è ormai è finito: la prospettiva è di passare i prossimi anni, forse decenni, a cercare di scusarsi e ripulirsi, il che significa il sostanziale abbandono di tutte le cause identitarie e conservatrici che hanno caratterizzato la presidenza Trump.
L’onda lunga dell’accaduto, purtroppo, è arrivata anche in Italia. Fra i politici, intellettuali e giornalisti di area “sovranista” o, più generalmente, di “centrodestra” è stata una gara a prendere le distanze da Trump, dichiararsi pentiti di averlo sostenuto o addirittura affermare che no, a loro non era mai piaciuto. E spiace francamente leggere sulla stampe dell’area articoli che sembrano usciti da fogli progressisti, in cui Trump viene dipinto come Lex Luthor e i suoi sostenitori sono diventati una feccia ignorante e violenta. L’impressione è quella di una crisi di nervi collettiva, dettata dalla paura di essere ostracizzati, ma che ha un effetto suicida: di fatto ci si è consegnati mani e piedi nelle mani delle sinistre, mettendosi in condizioni di subalternità culturale e morale. Per l’ennesima volta.
In questo quadro va sottolineato l’equilibrio invece dimostrato da Giorgia Meloni che, piaccia o meno, a nostro avviso si afferma sempre più come la leader maggiormente strutturata del panorama italiano.
Tornando dall’altra parte dell’Oceano, però, è il caso di fare una riflessione su come si sia arrivati a questo e cosa ci riservi il futuro.
Il trumpismo, come è stato detto fino allo sfinimento, è stato il tentativo di dare rappresentanza a livello politico alle istanze di quella parte, piuttosto ampia, della società americana che è stata sfavorita dal processo di globalizzazione.
Di fronte a questo, il modo in cui si sono posti i democratici è stato semplicemente scellerato, e sta tutto in una parola: deplorables, deplorevoli, l’epiteto rivolto nel 2016 da Hillary Clinton ai sostenitori del suo avversario. In questa parola c’era tutto il rifiuto ottuso, fanatico, da parte di un’intera forza politica, di comprendere le esigenze di una larga fetta di società americana, liquidandola sotto un giudizio di condanna morale che, in una democrazia, non dovrebbe mai esistere. Questo atteggiamento di rifiuto e delegittimazione, esasperato fino all’ossessione nei quattro anni passati, è stato ciò che ha rotto il patto non scritto alla base della democrazia, per il quale la parte sconfitta accetta la vittoria dell’avversario nella consapevolezza di una reciproca legittimazione.
A tal proposito, val forse la pena di ricordare i gravissimi disordini inscenati lungo tutto il 2020 da gruppi estremisti come Antifa e Black Lives Matter, la cui gravità e la cui violenza fanno apparire i fatti del 6 gennaio poco più che una ragazzata, ma che non hanno certo avuto la stessa condanna da parte degli avversari di Trump, anzi…
La non accettazione del risultato elettorale da parte non tanto di Trump quanto di una parte consistente dei suoi sostenitori va letta alla luce della consapevolezza che l’obiettivo di Biden e soci non fosse solo quello di prendere più voti ed andare al governo, come nelle normali elezioni, ma di cancellare il trumpismo ed espellere per sempre dal dibattito pubblico le istanze di decine di milioni di americani.
Ci sono riusciti.
Ora, però, se i liberal della costa orientale si illudessero di tornare alla normalità, si dimostrerebbero per l’ennesima volta un branco di imbecilli. Il rifiuto ad accettare Trump come un interlocutore ed un avversario normale ha creato una frattura che non si ricomporrà di certo con la sua fine politica. Coloro a cui ha dato voce hanno in questi giorni constatato il definitivo divorzio con le istituzioni. Non possiamo certo prevedere le conseguenze di questo, ma qualcosa ci dice che non saranno piacevoli per nessuno.
Quando la sinistra americana si accorgerà della propria scelleratezza, sarà troppo tardi.
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