21 luglio 2018

Filosofia, famiglia e confini negati/2

di Giorgio Salzano
->parte I
Pensare significa essere capaci di determinare le differenze tra i termini delle relazioni costitutive di un tutto. E la differenza fondamentale è duplice. Innanzitutto c’è la differenza sessuale di maschio e femmina, caratterizzazione animale della polarità che percorre tutta la natura, nota a tutto il pensiero arcaico e ben espressa nel cinese Yin e Yang. Ma Lévi-Strauss fa notare che questa generica differenza animale diventa specificamente umana grazie al tabù o proibizione dell’incesto, che introduce tra maschi e femmine una ulteriore differenza, per la quale vi sono uomini e donne ai quali il bambino si riconosce legato da speciali relazioni, e con i quali è interdetto un eventuale connubio: si definiscono così le famiglie. Egli vede giustamente in questo il principio, nel doppio senso della parola, della società umana, che smentisce qualunque immaginazione mitologizzante di un’orda primitiva indifferenziata, i cui membri sarebbero già stati in qualche modo uomini (ovviamente adulti), capaci di introdurre tra loro le differenze costitutive della parentela. Ma, se mai fosse esistita una simile orda, essa non sarebbe stata umana. Le parentele sono alla base infatti della nostra capacità di identificazione personale, così che ci possiamo chiamare per nome sottraendoci alla animale indifferenza tra gli individui di una specie.

Il famigerato “esistono tanti tipi di famiglie”, con il quale si vogliono criticare le relazioni di parentela così come si erano configurate nella nostra tradizione, non soltanto dunque nega il bambino, ma ignora proprio il senso delle testimonianze provenienti da altre società che pretende di portare a proprio sostegno. Lévi-Strauss ha distinto in generale le “strutture elementari della parentela”, largamente attestate in etnografia, dalle “strutture complesse”, tra le quali rientra il nostro modo di definire le parentele. Le prime sono proprie di società in cui la parentela è il fattore organizzativo primario della società, anche inclusivo quindi dei suoi aspetti economici e politici, e la preoccupazione principale è dunque quella di assicurare che nessuno resti fuori delle alleanze matrimoniali: in esse perciò il tabù dell’incesto ha non soltanto la valenza negativa della interdizione, che determina la cerchia entro la quale è proibito sposarsi, ma anche quello positivo di indicazione della cerchia nella quale vanno trovati rispettivamente sposi e spose. “Complessa” chiama invece Lévi-Strauss la struttura della parentela quando si mantiene solo l’aspetto negativo della proibizione, mentre l’aspetto positivo del chi sposare è lasciato ad altri fattori: dalla convenienza delle alleanze che si vogliono stringere a quello che oggi chiamiamo “l’amore”.

Possiamo trarne una morale.
Stando alla distinzione lévi-straussiana, mentre nelle “strutture elementari” uomini e donne sono sempre identificati in funzione delle possibili alleanze matrimoniali come uomini e donne di questo o quel gruppo, nelle “strutture complesse” invece l’identificazione in base alla famiglia d’origine lascia, almeno in teoria (tralasciando cioè gli altri fattori in gioco), il campo dei possibili matrimoni aperto a qualunque uomo e donna al di fuori di essa. Detto in altre parole: nel primo caso gli individui sono sempre riguardati come rappresentativi del gruppo con cui vengono identificati, nel secondo caso invece essi diventano semplicemente rappresentativi dell’essere uomo e donna.
Ecco il punto che vorrei sottolineare. La difesa della “famiglia naturale” da parte cattolica è di solito imputata dagli avversari alla fede religiosa, che nulla avrebbe di naturale. Possiamo invece vedere nel ragionamento da me brevemente proposto sulla scorta di Lévi-Strauss una deduzione antropologica del tipo di matrimonio che è stato dominante presso di noi fino a non molto tempo fa. Per cui, anche là dove era ammesso il divorzio, esso era riguardato come sconveniente, una offesa al senso dell’unicità rappresentativa dell’essere uomo e donna, che rende ciascuno, uomo o donna, non intercambiabile con un altro. Assistiamo invece oggi nel diffondersi di una generale indifferenziazione a un conclamato trionfo pubblico (nel privato è un’altra cosa) dell’intercambiabilità.

La negazione del bambino in nome delle evidenze dell’adulto si risolve in effetti nel loro sgretolamento, con la perdita del senso e conseguente negazione delle stesse differenze che nel bambino costituiscono l’inizio del pensiero riflesso; finisce così paradossalmente in una sorta di regressione culturale infantile: l’esaltazione – mi si concedano i termini freudiani – del principio del piacere contro il principio di realtà. Parlando nei nostri termini non freudiani, la realtà viene riconosciuta tale prendendo coscienza delle differenze di cui ho detto, con la rinuncia imposta dalla proibizione dell’incesto (vanamente Freud si sforza di spiegarne l’origine, essendo esso il presupposto delle stesse teorie freudiane). E dunque non resta altro, della fiera antropologia dell’uomo adulto che l’infantile indifferenza del desiderio, senza alcun oggetto identificabile. “L’amore” (come sostenuto, ricordo, dalla Suprema Corte americana) non conosce differenze: può quindi anche investire sentimentalmente questo o quello, non importa se maschio o femmina, di una sua momentanea unicità, ma questa unicità dura quanto dura il sentimento, che nella sua volatilità può sempre cessare e spostarsi su qualcun altro.

Si vuole imporre questa astratta (pseudo)filosofia per via legislativa e giudiziaria. Non sto qui a determinare chi è che lo vuole e perché. Osservo soltanto che la definizione delle identità è sottratta alle relazioni parentelari, e quindi alla società, e conferita all’anagrafe, che è cosa dello stato. Ciò permette l’insorgere della richiesta di non fare differenza, non solo tra uomo e uomo e tra donna e donna, ma anche tra uomo e donna. Anagraficamente infatti ciascuno è identificato nella sua nuda individualità, isolatamente, esclusivamente in ciò che lo rende un essere umano come gli altri, e con essi intercambiabile. L’eugenetica, con la sua confezione di embrioni a la carte, dovrebbe permettere di eliminare anche le altrimenti irriducibili differenze di prestanza e bellezza fisica che rendono inevitabilmente uno più o meno attraente di un altro. Ed a una simile uguaglianza viene dato il nome di giustizia. Mentre invece essa rappresenta intellettualmente la morte di ogni pensiero articolato, e porterebbe inevitabilmente a quella che ho chiamato entropia sociale. Si chiama infatti entropia in fisica la misura del disordine che si determina in un sistema gassoso al venir meno delle differenze di calore tra le diverse parti del sistema. Analogamente, c’è ordine nella comunicazione tra gli uomini quando ci sono differenze che segnano confini da superare, come fa per i matrimoni il tabù dell’incesto, mentre la negazione delle differenze porta a uno stato di disordine sociale in cui non c’è più comunicazione, ma solo l’estemporaneità di attrazione e repulsione. Ma questo naturae repugnat, ripugna alla natura umana.

 

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