22 luglio 2018

Guareschiana/1. La verità secondo don Camillo e Peppone

di Samuele Pinna
Il 22 luglio 1968 tornava alla casa del Padre Giovannino Guareschi, scrittore italiano tra i più letti al mondo, giornalista, vignettista e umorista. Ma secondo Paolo Gulisano non fu soltanto questo, perché «fu anzitutto uno scrittore cristiano» («Il Timone» 20 (2018) n. 175, p. III). Nell’editoriale del settimanale Candido del 7 dicembre 1947 scrisse, infatti: «Noi non apparteniamo a nessun ismo. Abbiamo un’idea, sì, ma non finisce in ismo. La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta: l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’idea cristiana e siamo perciò con tutti coloro che la perseguono e soltanto fino a quando la perseguono. Quando, a nostro modesto avviso, qualcuno si distacca da questo principio, chiunque sia (fosse anche il nostro parroco) noi diventiamo automaticamente suoi avversari […]. La nostra strada è dritta e su essa camminiamo tranquilli. Alla fine, magari, ci troveremo con sei lettori in tutto». E, invece, a motivo di questa energica convinzione, i lettori sono milioni in tutto il mondo, soprattutto nel seguire le vicende di quel prete della Bassa, che parlava col Cristo dell’Altare maggiore, di nome “don Camillo”. Guareschi è stato – come tutti sanno – il suo inventore, dove i racconti, oltre al fascino intrinseco e la sensazione di piacevolezza che restituiscono a chi legge, sono una miniera di riflessioni e di spunti (anche e soprattutto) connotati cristianamente.

Tra i tanti, mi ha sempre molto colpito il racconto numero 98 intitolato L’altoparlante, tanto da riprenderlo per ben due volte anche nel mio libro su Bud Spencer ( Spaghetti con Gesù Cristo! La «teologia» di Bud Spencer, pp. 20-22 e 138-140). Nella seconda parte della storia in maniera garbata si viene a rispondere a una delle domande più difficili per l’uomo: che cos’è la verità? Il più alto pensiero cattolico ha definito la verità « adaequatio intellectus et rei (corrispondenza tra intelletto e realtà)» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 21, a. 2c). Il reale, dunque, si può conoscere. San Tommaso aggiunge, inoltre: «La verità è nell’intelletto di Dio in senso vero e proprio e in primo luogo ( proprie et primo); nell’intelletto umano, invece, essa è in senso vero e proprio, e derivato (proprie quidem et secundario)» (Id.,De ventate, q. 1, a. 4c). Sicché, Dio è « ipsa summa et prima veritas (la stessa somma e prima verità)» (Id., Summa Theologiae, I, q. 16, a. 5c).

Commenta, a tal proposito, Benedetto XVI: «Con questa formula siamo vicini a ciò che Gesù intende dire quando parla della verità, quando dice che è venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità. Nel mondo, verità e opinione errata, verità e menzogna sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è “vero” nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua vera natura. Dio è la realtà che dona l’essere e il senso. “Dare testimonianza alla verità” significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura dell’essere» (Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio , p. 32).

Questo vuol dire che la coscienza di ognuno non coincide con il proprio autocostituirsi arbitrariamente, ma con il ricercare la volontà di Dio, che poi corrisponde con il meglio possibile per l’uomo. Tuttavia, anche laicamente (o, meglio, bisognerebbe forse dire filosoficamente), significa che la coscienza è destinata a conformarsi alla verità, se vuole ottenere il suo bene.

Questo principio è insegnato da Guareschi in modo gustoso.
Nell’episodio de L’altoparlante – altoparlante che don Camillo ebbe in cima al campanile dopo aver vinto al totocalcio –, si narra del giorno della partenza delle reclute. Peppone doveva tenere un grande comizio alla presenza della cittadinanza: «aveva le idee straordinariamente chiare in proposito. Anzi le idee chiare in proposito le avevano gli altri, quelli che mandavano le direttive a Peppone: ma Peppone era convinto che fossero le sue idee e si preparò per tempo» ( Tutto don Camillo. Volume primo (1-182), p. 721). La partenza delle reclute doveva apparire una cosa importante e, quindi, il Sindaco di quel mondo piccolo aveva mandato in giro i suoi “rossi” a recuperare cibarie varie perché ognuno potesse avere il suo pacco dono. Ciò che interessava di più a Peppone era, però, il suo discorso: «i giovani dovevano piantarsi bene nel cervello che essi non sono carne da cannone, che il soldato non è al servizio del governo, ma del Popolo, e che il primo dovere del soldato è quello di pensare alla pace e di combattere i guerrafondai» (ibid., pp. 721-722).

Il giorno atteso arrivò e la piazza era gremita, don Camillo spiava da dietro le gelosie di una finestra della canonica. Peppone iniziò l’arringa, preparata a puntino, anche se non da lui, fintantoché si rivolse alle reclute: «Ascoltate la voce del vostro popolo! Andate nelle caserme perché così vuole la barbara legge nemica dei lavoratori, ma dite chiaro e tondo a coloro che tentano di armarvi per combattere i fratelli proletari del grande paese della libertà che voi non combatterete! Dite che voi...» ( ibid., pp. 723-724). Il povero don Camillo a questo punto ormai sudava freddo dietro la finestra così come il maresciallo dei carabinieri preoccupato di come potesse andare a finire il comizio. Don Camillo però “attaccò”: crepitò l’altoparlante e Peppone si fermò, non uscirono parole ma le note dell’Inno del Piave.
 Il Capo dei rossi non riusciva a innestare la marcia, lo aiutò lo Smilzo con una pedata sullo stinco e allora tenne un discorso che, abbandonata l’ideologia preconfezionata, si faceva a poco a poco sempre più vero: «La sua voce potente si frammischiò alla musica che usciva dall’altoparlante. “Dite a coloro che tentano di ingannare il popolo, a coloro che diffamano il popolo, che i nostri padri hanno difeso la patria dall’invasore allora e noi siamo pronti oggi a tornare sul Carso e sul Monte Grappa dove abbiamo lasciato la meglio gioventù italiana. Dovunque è Italia dappertutto è Monte Grappa quando il nemico si affaccia ai confini sacri della patria! Dite ai diffamatori del popolo italiano che, se la patria chiamasse, i vostri padri, ai quali brillano sul petto le medaglie al valore conquistate nelle pietraie insanguinate, giovani e vecchi si ritroveranno fianco a fianco e combatteranno dovunque e contro chiunque nemico, per l’indipendenza d’Italia e al solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria!”. Ma sì, il Re. E il Re volò via assieme alla patria sulle ali del Piave salutato dalle urla deliranti di una piazza gremita. E il maresciallo dei carabinieri lo vide passare per il cielo della repubblica ma non lo infilzò col lapis per appiccicarlo sulla carta del notes. Anzi lo salutò portando la mano alla visiera» (ibid., p. 724).
Peppone – commentavo – «ha trovato la verità nella vita concreta, nei fatti e nella realtà in carne e ossa posta davanti agli occhi, a partire dai quei valori iscritti in ogni animo umano» ( Spaghetti con Gesù Cristo!, p. 140).

Ecco cos’è la verità: rileggere il reale per quello che è e non per come le lenti dell’ideologia ce lo presentano. Per il cristiano, poi, è partecipare, nel proprio essere, all’Essere, riconoscere cioè il creato proprio come creato, sapendo che la realtà è vista meglio da colui che l’ha posta in essere: dal Creatore. Per avere lo sguardo di Dio, però, bisogna fidarsi di Lui, perché, osservando con attenzione, non tanto in giro, ma nel profondo del proprio cuore, si può scoprire quella verità di cui si ha tanto bisogno. La fede non è cieca, ma è ausilio per vedere meglio le cose (spirituali e non).
Sant’Agostino confessò il ritardo con cui si accorse che la verità, in fin dei conti, coincide con Dio: «Tardi ti amai – scrive poeticamente –, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» ( Confessioni, 10, 27, 38).

Leggere ancor oggi Guareschi permette di cogliere la verità, quella profonda, umana e divina, che fa vedere la vita in modo diverso a chi, come Giovannino, abitava (e come lui può abitare, anche se a centomila chilometri di distanza) al Boscaccio, nella Bassa. Lui era là con suo padre, sua madre e i suoi undici fratelli. Sua madre gli consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagne dolci, suo padre li metteva in riga nell’aia e gli faceva dire ad alta voce il Pater noster: poi andavano con Dio e tornavano al tramonto. Cose che succedono i n quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte, che da altre parti non succedono: «Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un’aria speciale che va bene per i vivi e per i morti, perché là hanno un’anima anche i cani. Allora si capisce meglio don Camillo, Peppone e tutta l’altra mercanzia. E non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la zucca a un altro, ma onestamente però: cioè senza odio. E che due nemici si trovino, alla fine, d’accordo nelle cose essenziali. Perché è l’ampio eterno respiro del fiume che pulisce l’aria...».

Abbiamo bisogno tremendamente di quell’aria, ne era conscio anche Guareschi, che nel racconto È di moda il ruggito della pecora fa chiedere al Crocifisso cos’è quel vento di pazzia che fa correre il mondo verso la sua rapida autodistruzione. A don Camillo è, però, subito ricordato che il sacrificio del Figlio di Dio non è stato inutile, nonostante la malvagità degli uomini sembri più forte della bontà di Dio. Il prete della Bassa è conscio che esistono cose essenziali che non si vedono e non si toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pudore, speranza. E fede: «“ L’uomo – dice a Gesù –, mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L’unica vera ricchezza che in migliaia di secoli aveva accumulato. Un giorno non lontano si troverà come il bruto delle caverne. Le caverne saranno alti grattacieli pieni di macchine meravigliose, ma lo spirito dell’uomo sarà quello del bruto delle caverne […]. Signore, se è questo ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi? ”. Il Cristo sorrise. “Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà , e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla intatta . Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più, ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede”» ( Tutto don Camillo.Volume secondo (183-346), p. 3115).

Quella fede che può essere vissuta anche da uno come Peppone, mai escluso dalla redenzione, ma che necessita un don Camillo al fianco, come nel racconto Cinque più cinque. Peppone si presenta in chiesa sconvolto, perché suo figlio sta morendo, con cinque grosse candele, che consegna, ma quando il reverendo parroco si accinge a disporle davanti al Cristo, lo blocca: «“No”, disse con rancore Peppone, “quello lì è uno della vostra congrega. Accendetele davanti a quella là che non fa della politica”» (Tutto don Camillo. Volume primo (1-182), p. 178). Don Camillo ubbidisce e, una volta solo, cerca di giustificare il Sindaco, ma il Crocifisso lo rincuora: «Egli onorando la Madre mia mi riempie il cuore di dolcezza. Mi spiace un po’ che l’abbia chiamata “quella là”» (p. 179).
Don Camillo mente spudoratamente e spiega al Cristo che non ha detto così, ma «accedetele tutte davanti alla Beata Vergine Santissima che sta in quella cappella là» (ibid.). Poi se ne va e torna dopo tre quarti d’ora con altre cinque candele commissionate – dice lui – dallo stesso Peppone, ma da mettere questa volta davanti all’Altare maggiore. Dopo averle accese a don Camillo parve facessero più luce delle altre. E chiosa Guareschi questa storia, simile a quella capitata nella sua famiglia quando il fratello Chico stava per morire, e suo padre si era rivolto al parroco del paese perché intercedesse: «E veramente mandavano molta più luce delle altre perché erano cinque candele che don Camillo era corso a comprare in paese facendo venir giù dal letto il droghiere e dando soltanto un acconto perché don Camillo era povero in canna. E tutto questo il Cristo lo sapeva benissimo e non disse niente, ma una lagrima scivolò giù dai suoi occhi e rigò di un filo d’argento il legno nero della croce e questo voleva dire che il bambino di Peppone era salvo. E fu così» (pp. 179-180). Ecco il compito dei cristiani che hanno salvato il seme della fede: aiutare altri a riconoscerlo per farlo fruttificare.
Forse, con l’arguzia della sua penna, Giovannino può ancora aiutarci a rinvigorire non solo la fede (il seme), ma anche un po’ di buon senso (il terreno intorno), con una pensosa risata di gioia.


 

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