(con una illustrazione interna di Erica Fabbroni)
«La Messa è finita, andate in pace». Ma purtroppo don Camillo redivivo, ormai ritornato alla solita routine, notava che la gente né andava né rimaneva in pace. Tutto era accaduto in quella domenica, quando era stato chiamato a celebrare la cosiddetta “Messa dei ragazzi”. Siccome la partecipazione all’Eucaristia pare dipendere perlopiù dal calendario scolastico, essendo ancora tempo di vacanze il povero pretone notò con rammarico la poca affluenza di fanciulli alla funzione. Magro premio di consolazione era la confusione attenuata a motivo del basso numero di bambini chiassosi presenti tra i banchi della chiesa.
Ogni cosa andò via liscia fin quando si giunse alla fine, lì “in zona” – calcisticamente detta – “cesarini”. In quel giorno festivo partecipava attivamente al rito uno stuolo nutrito di chierichetti che aumentavano l’irrisoria percentuale di ragazzini al sacro rito. A ben vedere le cose, c’erano più giovinetti sull’altare che in giro tra le panche. Del resto, questa è la nuova moda dell’appartenenza ecclesiale, dove uno c’è soltanto se svolge una determinata funzione.
“Finita quella”, si disse il nostro don Camillo, “addio actuosa participatio!”.
Il pretone aveva, dunque, scoperto questa novità soprattutto nel mondo giovanile, osservando come quei ragazzotti che smettevano di impegnarsi in un servizio per la comunità sparivano letteralmente dalla circolazione. E si chiedeva preoccupato cosa cavolo si insegnasse alle nuove generazioni. Per fortuna non era sempre così, questa era forse un’esagerazione o una sporca provocazione diretta ai cristiani irenici o buonisti, quelli che risolvono tutto con un sorriso ebete e svanito. Sta di fatto che, se la situazione è quella che è, la causa è da ricercarsi in quegli adulti che sono tali in tutto e per tutto tranne, probabilmente, che nella fede. E allora via alle semplificazioni, ai gusti, alla mondanità, all’antropocentrismo, al buonismo, al pacifismo, all’importante non è quello, ma quell’altro… e vai a capire cos’è questo benedetto “quell’altro”…
Si sa, la madre degli imbecilli è sempre incinta.
“Quella lì”, penso don Augusto, “deve avere molti fratelli!”.
Quella lì era la tipica cristiana modern(ist)a, tutta sorrisi e complimenti, nemica assoluta della polemica e amante del dialogo, con l’unica clausola che aveva sempre e comunque ragione lei. Poveretta, a guardare con precisione le cose non era colpa sua, era proprio che non ci arrivava! E il nostro don Camillo alla fine voleva solo farle pervenire una cinquina da capogiro, ma si trattenne.
Con non poco disgusto il pretone di città venne a sapere che la musica in chiesa non è ciò che accompagna la celebrazione, ma è la celebrazione la scusa per fare un po’ di musica e, sovente, di scarsa qualità. Da qui, si intuiscono gli svarioni nella esecuzione di melodie pop: non si trattava di sostenere la fede dell’assemblea, mediante la bellezza del canto, ma di mettere su una vera e propria competizione canora! Quindi assoli di chitarre strimpellanti, gargarismi vocali, ritmi sincopati, testi melensi, affettati, disgustosi… schifezze d’ogni genere servono solo come promozione umana e sociale. C’è forse un fine più nobile nel canto?
Tutti questi pensieri erano scacciati dalla mente di don Augusto, che era arrivato all’Ite Missa est indenne rispetto alle diavolerie subite con composto silenzio. Senonché, lo zampino di quello là, che non è mai pago di male, lo colpì in extremis, quando – grazie a Dio! – i giochi erano fatti e finiti.
Uscendo dalla sacrestia, era stato fermato in modo fintamente cortese dalla giovane bacucca dai capelli biondo tinti.
«Scusi», chiese in tono neutrale, «ma perché è andato in sacrestia proprio mentre c’era il canto finale?».
«Perché», aveva risposto un po’ sorpreso per la domanda, «è il momento esatto in cui il sacerdote coi chierichetti deve tornare in sacrestia».
«Ma», aveva ripreso l’altra con un tono di voce irritante, «in questo modo i ragazzi sono andati via e non hanno cantato…».
«Ma», usò il medesimo avverbio il pretone, «il compito delle catechiste è quello di tenere i ragazzi fino al momento giusto e il momento giusto è fino a quando il sacerdote non è andato in sacrestia…».
«Ma», attaccò la solfa l’altra, non sapendo cosa stava provocando, perché un altro “ma” avrebbe portato a una catastrofe, «io ho visto fare nello stesso modo anche in altre chiese…».
«Ma», riprese alterato don Camillo redivivo, «se fanno così non fanno la cosa giusta. L’ingresso e l’uscita del sacerdote è simbolo del passaggio del Signore in mezzo al suo popolo, che è radunato intorno alla mensa dell’altare di Dio. Si arriva prima che lui esegua questo transito e si esce solo dopo che questo è completato. Tali sono le norme liturgiche che si devono rispettare, dal Papa fino all’ultimo prete di periferia. Altre spiegazioni, invece, sono invenzioni. Rispetto molto la fantasia altrui, ma preferisco la realtà!».
Per fortuna la bionda adulterata si trattenne da un ulteriore “ma” e don Augusto proseguì nella spiegazione, «Una musica di congedo, soprattutto se fatta con l’organo, aiuta al contrario a far sì che questo avvenga decorosamente e deve prolungarsi fintantoché i fedeli non siano usciti tutti dalla chiesa, in modo da non trasformarla in una piazza. Sarebbe poi anche sano, che un cattolico veramente tale si soffermi qualche istante in ginocchio per ringraziare il Signore per il dono appena ricevuto. “L'Eucarestia – ha detto un Santo cardinale – è unione. Dio non è più soltanto di fronte a noi. Egli è in noi e noi siamo in Lui. La dinamica del suo amore ci penetra e ci possiede”».
Neppure dinnanzi a questa splendida citazione la giovane bacucca riuscì a evitare l’ultimo “ma” e, in tal modo, l’ira furente del nostro don Camillo, che aveva utilizzato dapprima l’ironia, chiedendo in quale Università avesse appreso i rudimenti della Liturgia, poi il sarcasmo, costatando che non aveva studiato affatto o, se lo aveva fatto, aveva ottenuto pochi risultati, e infine l’ira, su cui è meglio tralasciare i particolari. Come un toro abbagliato dal rosso, per non prendere a cornate nessuno si allontanò, bofonchiando improperi al crocchio dei suoi patetici interlocutori, con una bile grossa quanto la stupidità di chi aveva davanti. Molto grossa, quindi. Esagerata, meglio.
Se la Messa era finita, non valeva lo stesso per l’imbecillità. Del resto, Albert Einstein era convinto che due cose fossero infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo all’universo nutriva ancora dei dubbi.
Poi don Augusto meditò sulla formula finale latina del rito eucaristico: “Ite, missa est”, che fin dall’antichità si è conservata intatta nella forma, avendone mutato il significato. La traduzione letterale di “ite missa est”, aveva letto da qualche parte il prete di città, è “andate, è stata mandata”. Infatti “missa est” è la terza persona singolare del perfetto (corrispondente al nostro passato prossimo) della diàtesi passiva (la forma passiva della coniugazione del verbo) di “mìttere”. Cioè: è stata mandata (essendo “missa” un femminile). Se c’erano diverse interpretazioni di quale fosse il soggetto del “mandare”, don Augusto, in quel momento, sapeva bene dove mandare la giovane bacucca e i suoi sodali.
Scacciato quel diabolico pensiero, si soffermò su di un altro, l’interpretazione cioè che del Ite Missa est ne aveva fatto un grande Papa. Era andato a recuperare un testo e aveva iniziato a leggere ad alta voce: « Ci è dato di cogliere il rapporto tra la Messa celebrata e la missione cristiana nel mondo . Nell’antichità “missa” significava semplicemente “dimissione”. Tuttavia essa ha trovato nell’uso cristiano un significato sempre più profondo. L’espressione “dimissione”, in realtà, si trasforma in “missione”. Questo saluto esprime sinteticamente la natura missionaria della Chiesa . Pertanto, è bene aiutare il popolo di Dio ad approfondire questa dimensione costitutiva della vita ecclesiale, traendone spunto dalla liturgia ».
“Di quanto aiuto aveva bisogno il popolo…”, si trovò sconsolato a pensare il nostro povero don Camillo.
Pubblicato il 04 luglio 2018
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