di Matteo Mazzariol
Come si possono definire delle persone in età lavorativa che rinunciamo alla propria libertà, mettendosi al servizio di qualcun altro, in cambio di un sostentamento? In un solo modo: servi. Come si può definire uno Stato in cui 4 persone su 5 si trovano nella condizione di dover fare questa scelta? In un solo modo: Stato servile.
Ebbene questa è la situazione in cui viviamo, questa è la situazione che è stata fotografata dai dati Eurostat del 2013!
In Italia la percentuale dei lavoratori autonomi è del 22,3% della forza lavoro, contro il solo 14,4% della media europea. Tutti gli altri lavoratori, a vario titolo, sono dipendenti, dipendono cioè da qualcun altro.
Possiamo quindi in un certo senso consolarci: noi italiani siamo meno servi della media degli europei.
Un’esagerazione? Assolutamente no! Chiediamoci infatti quale sfera di autonomia lavorativa abbia il dipendente medio, quale possibilità abbia sul luogo di lavoro di fare valere liberamente – dico liberamente e non condizionatamente – la propria iniziativa, il proprio punto di vista; quale possibilità abbia di decidere il modo in cui intende condurre la propria occupazione o la qualità e la quantità dei beni o dei servizi che produce, il tempo da dedicare al lavoro e quello alla famiglia ed agli amici.
La parola stessa – dipendente – dovrebbe già farci intuire tutto, la realtà che ci cela dietro l’apparenza. Si tratta di cedere la nostra libertà in cambio di un sostentamento sicuro, o quasi, la stessa cosa che hanno fatto i servi della società greco-romana per più di un millennio.
Lo Stato Servile quindi non è un mero dato storico, eco lontano di un passato di barbarie civili, lo Stato Servile è il nostro mondo quotidiano. Solo che viene chiamato con altre parole, più dolci e suadenti, più accattivanti e seducenti.
Uno dei termini più di moda, ed al contempo più paradossale, è quello di Stato democratico.
Con la dizione di Stato democratico si vorrebbe far intendere alla gente che il sistema attuale è da un punto di vista della morale sociale il migliore che ci sia ed è quello che consente al popolo di godere del massimo possibile di potere reale. Ci dovrebbero però spiegare dove mai si sia visto uno Stato in cui il popolo abbia il massimo potere possibile e contemporaneamente sia costituito per il 80% - appunto 4 persone su 5 – da servi.
Un altro termine sostitutivo di Stato Servile è quello di Stato Capitalista. Ci viene detto che viviamo in un sistema capitalista e che il sistema capitalista è quello che tutela al massimo la libertà individuale. Oggi però abbiamo l’80% di servi. Come la mettiamo? E’ molto probabile che il sistema capitalista abbia quindi fallito nel tener fede a questa sua promessa e che si sia invece rivelato per quello che è : un sistema basato sulla separazione tra capitale e lavoro, separazione che porta inevitabilmente alla concentrazione del capitale nelle mani di pochi ed alla creazione di una massa di servi.
Un altro eufemismo per indicare lo Stato Servile è quello di Welfare State. Il Welfare State – propugnato da Keynes, realizzato in Inghilterra negli anni ’60-70, prima dell’avvento di Margaret Thatcher e imitato poi, a qualche anno di distanza, dalla sinistra italiana – è uno Stato in cui le famiglie e le comunità locali vengono sostituite, nello svolgimento di un numero sostanziale di funzioni essenziali – tra cui educazione, sanità, previdenza – dall’apparato burocratico centrale dello Stato, da cui poi “dipendono”, sottomettendo la propria libertà in cambio di un sostentamento e venendo così irrimediabilmente relegate alla condizione di servi.
Negli ultimi 70 anni, dal punto di vista delle grandi visioni in grado di guidare un progetto di società, la scelta che è stata offerta ai cittadini è stata quella di abbracciare teorie che li portavano da una parte ad essere servi del capitale – appunto il capitalismo – dall’altra ad essere servi dello Stato - il social-comunismo, nelle sue diverse varianti.
Interessante notare come questi due approcci teorici possano quindi essere considerati come due facce di una stessa medaglia – la concentrazione del potere e della proprietà nelle mani di pochi -, due forme diverse di un unico sistema: lo Stato Servile.
Quest’ipotesi è continuamente rafforzata dalla cronaca politica attuale, che vede un sempre maggior affiancamento tra le forze della finanza e quelle del mondo di sinistra, pur ammesso che abbia ancora senso parlare di sinistra, destra, centro.
Che fare dunque?
Primo: prendere coscienza della realtà.
Secondo: invertire marcia, abbondonare lo Stato Servile e puntare ad una società di uomini liberi, in cui la proprietà ed il potere reale siano diffusi al massimo grado secondo un principio di equità, in cui le famiglie e le comunità, attraverso stretti vincoli associativi solidari presenti sul territorio, siano messe nelle condizioni di sostentarsi il più possibile da sole, all’interno di una forma statuaria centrale "leggera" che però garantisca con forza la solidarietà verso i più deboli ed il rispetto del bene comune.
Utopia? No, sano realismo basato sulla ragionevolezza e sul senso comune.
Sono questi infatti i due punti cardine su cui si basa il Distributismo, un pensiero dalle antiche radici proiettato nel futuro, pensiero che il Movimento Distributista Italiano intende diffondere e far conoscere a tutte le persone di buona volontà ed animate da una sincera passione per il bene comune.
Abbiamo bisogno di una visione di ampio respiro che ci guidi e ci porti fuori dalle paludi del capitalismo e del social-comunismo, una visione che ci porti fuori dallo Stato Servile, verso una società più in grado di rispondere alle sacrosante esigenze di equità, giustizia sociale, stabilità e prosperità economica presenti nel cuore umano: in sintesi, abbiamo bisogno del distributismo! Pubblicato il 31 maggio 2016
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