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13 gennaio 2018

Distributismo e odontoiatria: un virtuoso connubio in pericolo

di Daniele Laganà
Potrà sembrare strano, ma il distributismo ha un legame particolare con la mia adesione definitiva al cattolicesimo, in quanto Il profilo della ragionevolezza, il libello in cui Gilbert Keith Chesterton espone la teoria economica distributista, è stato il primo testo che ho assaporato del grande apologeta britannico e dalle successive letture delle sue opere sono giunto all’irrevocabile consapevolezza che realmente nella Chiesa Cattolica «tutte le verità si danno appuntamento».

Particolarmente affascinante è il distributismo chestertoniano, il quale analizza come socialismo (inteso come «sistema che attribuisce all’unità del corpo sociale la responsabilità di tutti i suoi processi economici, o di tutti quelli che condizionano la vita e gli aspetti essenziali del vivere») e capitalismo (identificato come «condizione economica in cui esiste una classe di capitalisti, più o meno riconoscibile e relativamente piccola, nelle cui mani si concentra una parte così cospicua del capitale che la stragrande maggioranza dei cittadini deve servire questi capitalisti in cambio di un salario») siano, in fondo, due facce della stessa medaglia, in quanto ambedue favoriscono la formazione di una concentrazione della proprietà mediante monopoli, rispettivamente statali e privati; invece, lo scrittore cattolico propone un sistema in cui la proprietà sia nelle mani del maggior numero di persone possibili, dichiarando: «Io sono tra coloro che ritengono di poter curare l’accentramento con il decentramento. Questo rimedio è stato definito un paradosso. A quanto pare c’è qualcosa di irritante e bizzarro nel dire che quando il capitale diventa troppo nelle mani di pochi, la cosa giusta da fare è rimetterlo nelle mani di molti.»

Nella pratica il modus operandi indicato dal creatore di Padre Brown è di matrice riformista e prevede l’incentivo alla frammentazione di grandi proprietà fra piccoli proprietari mediante tassazioni e tutele legali che favoriscano tale obiettivo, a partire dalla contezza che «senza alcun cambiamento radicale la semplice modifica delle leggi esistenti potrebbe riportare in vita e in attività migliaia di piccoli negozi»; mettendo in luce le contraddizioni del modello economico urbano, Chesterton evidenzia i punti di forza della realtà rurale, ponendola implicitamente come luogo ideale di applicazione del distributismo. Contestualmente si scaglia contro la grande distribuzione, sostenendo: «Credo che il grande negozio sia un pessimo negozio. Lo ritengo pessimo in senso morale e commerciale; in altre parole, credo che fare acquisti in un negozio del genere non solo sia una cattiva azione, ma anche un cattivo affare. Credo che questi empori giganteschi siano non solo volgari e insolenti, ma anche incompetenti e sgradevoli; e nego che la loro vasta organizzazione sia efficiente.»; in sostanza, egli conferma che l’essenza del distributismo sia la difesa e l’incremento della piccola proprietà ed io, da umile studente di odontoiatria, non ho potuto che notare la sorprendente consonanza tra questa stupenda teoria con il paradigma economico invalso nell’arte del sorriso del Belpaese.

Ancora oggi tre quarti degli studi dentistici sono monoprofessionali, all’interno dei quali il clinico è proprietario della propria attività, gestendola autonomamente e forgiandola secondo i tratti della propria personalità, è il modello prevalente nell’odontoiatria italica, mentre circa un quinto delle realtà sono costituite da studi associati o studi in condivisione tra diversi professionisti; questo panorama non può che ricordare in maniera vivida la conformazione propria dell’ideale distributista poco fa sintetizzata e la libertà di questo modello economico sperimentabile concretamente nel mondo dentistico non può che suggerire di applicarlo anche nei settori dove il capitalismo (nell’accezione chestertoniana) signoreggia, tuttavia oggigiorno l’odontoiatria europea si trova dinnanzi ad un fenomeno preoccupante che negli ultimi tempi sta seriamente minacciando di minare tale edenica condizione.

Il pericolo a cui mi riferisco è la commercializzazione della salute che sta prendendo piede a causa delle limitate possibilità di una non modesta fascia della popolazione di accedere alle cure dentistiche, a causa della grave lacuna del nostro sistema sanitario nazionale che ignora colpevolmente la salute orale; tale preoccupante fenomeno è stato possibile grazie al combinato disposto tra l’aggiramento della disciplina che garantirebbe l’esclusiva della proprietà delle attività professionali da parte dei soli iscritti all’Albo e la disinibita liberalizzazione della pubblicità sanitaria: pertanto, è stata appunto l’alterazione della legge ad aver permesso che un paradigma virtuoso potesse essere messo a repentaglio, così come la conformazione normativa precedente aveva garantito la possibilità di realizzare magnificamente il modello distributista.
Da futuro odontoiatra, la mia speranza è che le associazioni di categoria e l’ordine stesso abbiano la forza per ripristinare lo status quo, affinché sia ostacolato in ogni modo l’insediamento delle catene odontoiatriche “low cost”, le quali corrispondono direttamente a quei grandi magazzini in cui comprare, secondo il principe del paradosso, costituiva non solo una cattiva azione, ma anche un cattivo affare, in questo caso particolarmente dannoso perché a detrimento della propria salute; parimenti, non posso che ringraziare il Signore per aver coniugato in me l’amore per l’arte del sorriso e la passione per il paradigma economico chestertoniano, auspicando che il congeniale connubio tra distributismo ed odontoiatria possa essere d’ispirazione per una trasformazione complessiva dell’assetto economico nazionale e continentale in questa direzione.
 

24 novembre 2017

Lo stato servile (II parte)


di Matteo Donadoni

(prima parte qui)

E qui cambia tutto, non si tratta più di lavoro tout court, ma di quella parte della filosofia che si occupa del rapporto dell’uomo, zoòn politikòn, con i suoi simili e cioè la politica. Le esigenze del lavoro, come quelle della vita (organizzata o solitaria), necessitano di programmazione. Il processo è evidentissimo quando si tratta della terra: se voglio sopravvivere, dovrò preoccuparmi di accantonare una parte del raccolto per la semina futura; allo stesso modo dovrò evitare di macellare l’intera mandria, anche se devo festeggiare il matrimonio di tutte quante le mie figlie e ciò mi costerà un capitale. Infatti, il capitale. «Sia che si tratti della costruzione di uno strumento o di un attrezzo, sia che si tratti di accantonare una scorta di provviste, il lavoro applicato alla terra per entrambe le finalità non produce ricchezza per un consumo immediato, ma permette che si conservi qualcosa, e quel qualcosa è sempre necessario, in quantità che variano a seconda delle difficoltà o meno che la società economica incontra nel produrre ricchezza. Definiamo capitale la ricchezza che non viene consumata subito, ma accumulata e messa da parte in vista della produzione futura, o sotto forma di strumenti e attrezzi, oppure sotto forma di scorte per la continuità del lavoro durante il processo produttivo».
Quindi sono tre i fattori che agiscono sulla produzione della ricchezza umana, terra, capitale e lavoro. I mezzi di produzione sono la terra e il capitale messi insieme. Secondo la teoria economica elaborata da Hilaire Belloc, Gilbert K. Chesterton e padre Vincent McNabb, la società economicamente meglio gestita è quella che favorisce il più possibile la diffusione dei mezzi di produzione, distribuendoli fra i cittadini. Perciò è definita “Distributismo”. Il distributismo economico favorisce dunque, oltre la libertà politica garantita però dalla politica, la libertà economica. Diversamente, il capitalismo economico garantisce, oltre la libertà politica, la condizione servile, mentre il socialismo economico, oltre a non garantire nessuna libertà politica, non garantisce nemmeno quella economica abolendo la proprietà privata, e finendo così, col tempo, per non riuscire nemmeno a produrre i beni di prima necessità. Oggi abbiamo la certezza empirica che il socialismo è un male politico i cui sintomi sono la delega della proprietà e della libertà economica, dai cui l’effetto della povertà. Ma non ci riguarda, perché viviamo in una società capitalista evoluzione di quella che produsse il socialismo come reazione.
Nel nostro sistema politico-economico tutti i cittadini sono liberi politicamente, ma gran parte delle persone non lo sono economicamente, dice meglio Belloc: «politicamente liberi di agire ma economicamente impotenti». Non perché il capitale sia un male, perché non lo è, oltre ad essere necessario, esso è un bene, ma la teoria economica capitalista è per sua natura instabile, e perciò pericolosa, soprattutto a seguito dell’introduzione del sistema industriale, che, nelle alterne vicende della fortuna, può arricchire o distruggere una uomo, intere famiglie e addirittura interi comparti della società. Tuttavia, «il sistema industriale è stato una derivazione del capitalismo non la sua causa», perché «non è stata la macchina a farci perdere la libertà; è stata la perdita di una mente libera» a farci decadere. La rinuncia alla libertà intellettuale (e delle capacità artigianali!) per ragioni di interesse economico denota infatti il primo passo verso la formazione dello Stato servile. Il capitalismo come sistema è quindi in un certo senso il cattivo uso del capitale, cioè il possesso da parte di pochi delle risorse vitali di molti, i quali, da proprietari che erano, lentamente scivolano nella condizione di salariati prima e di servi poi. Infatti, la condizione servile «scatta quando si toglie all’uomo la libera scelta di lavorare o no, in un posto o in un altro, per questo o quel motivo, e quando lo si obbliga con una legge a lavorare a beneficio di altri che non sono soggetti allo stesso obbligo». Lo Stato attuale, economicamente parlando, si sta avvicinando a questo esito, perché il sistema lavorativo è fondato sull’insicurezza e sulla paura che essa genera: sulla paura di perdere un impiego e di non trovarne un altro.

«Riassumendo: lo Stato servile è quello nel quale il numero delle famiglie e degli individui che il marchio del lavoro obbligatorio differenzia dai cittadini liberi è così alto da determinare l’assetto di una società».
Chi vuole approfondire la questione legga allora “Lo Stato servile”: «Questo libro è stato scritto per sostenere e provare la seguente verità: la nostra società apparentemente libera, trovandosi in una condizione di equilibrio instabile per il fatto che i mezzi di produzione sono nelle mani di pochi, tende a raggiungere una posizione di equilibrio stabile obbligando legalmente chi non possiede i mezzi di produzione a lavorare per chi li possiede».



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31 maggio 2016

L'unico antidoto allo Stato Servile è il Distributismo!


di Matteo Mazzariol

Come si possono definire delle persone in età lavorativa che rinunciamo alla propria libertà, mettendosi al servizio di qualcun altro, in cambio di un sostentamento? In un solo modo: servi. Come si può definire uno Stato in cui 4 persone su 5 si trovano nella condizione di dover fare questa scelta? In un solo modo: Stato servile.

Ebbene questa è la situazione in cui viviamo, questa è la situazione che è stata fotografata dai dati Eurostat del 2013!
In Italia la percentuale dei lavoratori autonomi è del 22,3% della forza lavoro, contro il solo 14,4% della media europea. Tutti gli altri lavoratori, a vario titolo, sono dipendenti, dipendono cioè da qualcun altro.
Possiamo quindi in un certo senso consolarci: noi italiani siamo meno servi della media degli europei.
Un’esagerazione? Assolutamente no! Chiediamoci infatti quale sfera di autonomia lavorativa abbia il dipendente medio, quale possibilità abbia sul luogo di lavoro di fare valere liberamente – dico liberamente e non condizionatamente – la propria iniziativa, il proprio punto di vista; quale possibilità abbia di decidere il modo in cui intende condurre la propria occupazione o la qualità e la quantità dei beni o dei servizi che produce, il tempo da dedicare al lavoro e quello alla famiglia ed agli amici.
La parola stessa – dipendente – dovrebbe già farci intuire tutto, la realtà che ci cela dietro l’apparenza. Si tratta di cedere la nostra libertà in cambio di un sostentamento sicuro, o quasi, la stessa cosa che hanno fatto i servi della società greco-romana per più di un millennio.
Lo Stato Servile quindi non è un mero dato storico, eco lontano di un passato di barbarie civili, lo Stato Servile è il nostro mondo quotidiano. Solo che viene chiamato con altre parole, più dolci e suadenti, più accattivanti e seducenti.
Uno dei termini più di moda, ed al contempo più paradossale, è quello di Stato democratico.
Con la dizione di Stato democratico si vorrebbe far intendere alla gente che il sistema attuale è da un punto di vista della morale sociale il migliore che ci sia ed è quello che consente al popolo di godere del massimo possibile di potere reale. Ci dovrebbero però spiegare dove mai si sia visto uno Stato in cui il popolo abbia il massimo potere possibile e contemporaneamente sia costituito per il 80% - appunto 4 persone su 5 – da servi.

Un altro termine sostitutivo di Stato Servile è quello di Stato Capitalista. Ci viene detto che viviamo in un sistema capitalista e che il sistema capitalista è quello che tutela al massimo la libertà individuale. Oggi però abbiamo l’80% di servi. Come la mettiamo? E’ molto probabile che il sistema capitalista abbia quindi fallito nel tener fede a questa sua promessa e che si sia invece rivelato per quello che è : un sistema basato sulla separazione tra capitale e lavoro, separazione che porta inevitabilmente alla concentrazione del capitale nelle mani di pochi ed alla creazione di una massa di servi.

Un altro eufemismo per indicare lo Stato Servile è quello di Welfare State. Il Welfare State – propugnato da Keynes, realizzato in Inghilterra negli anni ’60-70, prima dell’avvento di Margaret Thatcher e imitato poi, a qualche anno di distanza, dalla sinistra italiana – è uno Stato in cui le famiglie e le comunità locali vengono sostituite, nello svolgimento di un numero sostanziale di funzioni essenziali – tra cui educazione, sanità, previdenza – dall’apparato burocratico centrale dello Stato, da cui poi “dipendono”, sottomettendo la propria libertà in cambio di un sostentamento e venendo così irrimediabilmente relegate alla condizione di servi.

Negli ultimi 70 anni, dal punto di vista delle grandi visioni in grado di guidare un progetto di società, la scelta che è stata offerta ai cittadini è stata quella di abbracciare teorie che li portavano da una parte ad essere servi del capitale – appunto il capitalismo – dall’altra ad essere servi dello Stato - il social-comunismo, nelle sue diverse varianti.
Interessante notare come questi due approcci teorici possano quindi essere considerati come due facce di una stessa medaglia – la concentrazione del potere e della proprietà nelle mani di pochi -, due forme diverse di un unico sistema: lo Stato Servile.
Quest’ipotesi è continuamente rafforzata dalla cronaca politica attuale, che vede un sempre maggior affiancamento tra le forze della finanza e quelle del mondo di sinistra, pur ammesso che abbia ancora senso parlare di sinistra, destra, centro.

Che fare dunque?
Primo: prendere coscienza della realtà.
Secondo: invertire marcia, abbondonare lo Stato Servile e puntare ad una società di uomini liberi, in cui la proprietà ed il potere reale siano diffusi al massimo grado secondo un principio di equità, in cui le famiglie e le comunità, attraverso stretti vincoli associativi solidari presenti sul territorio, siano messe nelle condizioni di sostentarsi il più possibile da sole, all’interno di una forma statuaria centrale "leggera" che però garantisca con forza la solidarietà verso i più deboli ed il rispetto del bene comune.
Utopia? No, sano realismo basato sulla ragionevolezza e sul senso comune.
Sono questi infatti i due punti cardine su cui si basa il Distributismo, un pensiero dalle antiche radici proiettato nel futuro, pensiero che il Movimento Distributista Italiano intende diffondere e far conoscere a tutte le persone di buona volontà ed animate da una sincera passione per il bene comune.
Abbiamo bisogno di una visione di ampio respiro che ci guidi e ci porti fuori dalle paludi del capitalismo e del social-comunismo, una visione che ci porti fuori dallo Stato Servile, verso una società più in grado di rispondere alle sacrosante esigenze di equità, giustizia sociale, stabilità e prosperità economica presenti nel cuore umano: in sintesi, abbiamo bisogno del distributismo!