02 settembre 2023

J.R.R. Tolkien: autore cattolico di un’immortale epica. A cinquant’anni dalla morte



di Samuele Pinna e Federica Favero

Sono passati cinquant’anni dal 2 settembre 1973, quando J.R.R. Tolkien, tra i massimi scrittori contemporanei, morì a Bournemouth, nello Hampshire: il creatore di miti – scrive Paolo Gulisano – entrava da quel momento, lui stesso, nel mito. Nato a Bloemfontein, Stato Libero d’Orange nel Sudafrica, il 3 gennaio 1892 da genitori inglesi originari di Birmingham, ritorna in questa città con la famiglia dopo la morte del padre nel 1896. La madre, che gli trasmetterà l’amore per le lingue e per le antiche leggende, muore nel 1904 e padre Francis Xavier Morgan – sacerdote cattolico dell’Ordine degli Oratoriani – prosegue la sua educazione. Studia all’Exeter College di Oxford, dove ottiene nel 1915 il titolo di Bachelor of Arts. Nel 1919, dopo aver combattuto la Prima Guerra Mondiale con il grado di tenente, diviene Master of Arts e collabora all’Oxford English Dictionary. Dal 1925 al 1945 insegna Lingua e Letteratura anglosassone a Oxford e, in seguito, Lingua e Letteratura inglese fino al ritiro dall’insegnamento accademico nel giugno del 1959.

Il suo romanzo più conosciuto, Il Signore degli Anelli, è uno dei testi a noi contemporanei in assoluto tra i più riusciti e «si dice sia il libro più letto del XX secolo, dopo la Bibbia» (Caldecott). In questo leggendario racconto i vari protagonisti sono chiamati a distruggere un possente male, l’Anello del Potere, forgiato da Sauron, uno spirito angelico decaduto che vuole conquistare la terra creata da «Eru, l’Uno, che nella lingua elfica è detto Ilúvatar» (Il Silmarillion). L’Anello è smarrito e viene ritrovato dalla più improbabile delle creature, l’hobbit Bilbo Baggins, il quale – dopo averlo tenuto per molti anni – lo lascia in eredità al nipote Frodo. Devono passare nove anni da quando Gandalf il Grigio, lo stregone che guiderà la Compagnia dell’Anello, si renderà conto di avere tra le mani l’Unico. Per Frodo della Contea è il momento di partire, anche se per un Hobbit lasciare la sicurezza della propria casa è una follia, che soltanto gli “svitati” (o presunti tali), come Bilbo e pochi altri, avevano fatto in passato. È l’inizio di un epico viaggio, frutto di una scelta di libertà, “forzata” dalla ricerca del bene per sé e per gli altri (salvare la Contea, come confida Frodo). È un cammino che si basa sulla fiducia e sulla speranza, ma pure sulla consapevolezza che lungo la via è probabile sentire il peso di un fardello gravoso. Quello che vive Frodo è ciò che sperimenta il cristiano dopo lo slancio della decisione di consacrarsi al Vangelo: la fatica di rinnovare ogni giorno il proprio “Sì”. A volte ci si può chiedere il perché di tanti avvenimenti capitati e che colpiscono l’esistenza degli uomini. La risposta a queste legittime domande deve essere riposta nella fiducia in Dio, il quale non ci abbandona, anzi, ci aiuta a portare la croce. Frodo stesso non capisce perché l’Anello del Potere è giunto proprio nelle sue mani e, pertanto, Gandalf tenta di fare un poco di luce: «È difficile da spiegarsi – gli dice –, e non saprei essere più chiaro ed esplicito: Bilbo era destinato a trovare l’anello, e non il suo creatore. In questo caso, anche tu eri destinato ad averlo, il che può essere un pensiero incoraggiante». L’Hobbit, tuttavia, non è persuaso, il fardello appare – come, poi, sarà per davvero – troppo pesante: «“Cosa darei per non aver mai visto quest’anello! Perché è toccato a me? Come mai sono stato scelto io?”. “Queste sono domande senza risposta” disse Gandalf. “Puoi credere che ciò non è dovuto ad alcun merito particolare o personale: non certo per via della forza o della sapienza, in ogni caso. Ma sei stato scelto tu, e hai dunque il dovere di adoperare tutta la forza, l’intelligenza ed il coraggio di cui puoi disporre”». Frodo «si trova, per così dire, di fronte al fatto compiuto, non può fare altro che accettarlo o rifiutarlo. Non è stato però scelto senza un motivo, e nel seguito si comprenderà che quella scelta […] è stata pertinente: solo una creatura apparentemente così insignificante poteva sfuggire all’attenzione di Sauron» (Fernandez).

La trama del romanzo si fa sempre più epica proprio nel descrivere il periglioso viaggio che Frodo Baggins e i suoi compagni, che incontrerà sulla via, dovranno affrontare per distruggere l’Anello del Potere, incarnazione del male.

Alla luce dell’ordito intrecciato da Tolkien, gli elementi che rendono grande nella sua profondità Il Signore degli Anelli (così come altre opere del glottoteta anglosassone) sono almeno due. Il primo è la fede cattolica, fede che – come egli scrive – «mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so» e che permea il romanzo risultandone un elemento costitutivo ma mai volutamente esplicitato o esibito. Il secondo è legato inscindibilmente alla formazione culturale e professionale dello scrittore inglese, che si definisce sovente “un filologo”: la sua conoscenza della cultura, delle letterature, della mitologia nordica, della società e della mentalità del Medioevo, infatti, ha fornito la trama su cui tessere – grazie anche alla sua capacità di creare linguaggi grammaticalmente e sintatticamente ineccepibili, complessi e quindi credibili – l’arazzo straordinario delle vicende della Terra di Mezzo. Questo duplice modus essendi di J.R.R. Tolkien – l’essere cattolico e l’essere filologo – costituisce e invera la sua epica, capace di essere attuale e di risvegliare quanto di nobile alberga nell’intimo di ogni lettore.



 

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