11 luglio 2021

A sei anni della morte del cardinal Giacomo Biffi

A sei anni della morte del cardinal Giacomo Biffi (1928-2015),  pubblichiamo l'accorato ricordo di Samuele Pinna



«Era una calda giornata di fine agosto. Il viaggio in treno da Milano, una rapida visita alla città di san Petronio, poi, un eccellente pranzo tipicamente bolognese, in una trattoria dal nome accattivante sperduta nel dedalo di viuzze del centro. All’approssimarsi dell’ora concordata per l’udienza, con i mezzi pubblici, giungemmo a Ponticella di San Lazzaro. Spossati dall’ardore del sole e dal desinare non propriamente frugale, percorremmo a piedi il dolce declivio che conduce fino a Villa Edera, l’allora residenza del Cardinale. Erano circa le tre del pomeriggio. Vi era però un ultimo tratto di strada da coprire: dall’ingresso fin su alla villa, ancor sempre in salita. Varcati i cancelli la canicola si faceva tuttavia gradatamente più sopportabile per l’umbratile sollievo che gli alberi del giardino concedevano ai due incauti pellegrini. Fummo accolti da una suora dal sorriso gentile e dai modi ospitali, che ci mise subito a nostro agio, e ci presentò il sacerdote allora segretario del Cardinale e Dina, sua stretta collaboratrice.

Il salone delle udienze, di forma tetragona, si spalancava ai nostri occhi nella sua sobria eleganza: un camino sul lato lungo, massicce librerie colme di libri allineati in perfetto ordine, un lungo tavolo corredato di sei sedie, una portafinestra prospiciente il giardino dalla quale penetrava la luce smeraldina filtrata dalla vegetazione, un volume dalle dimensioni ciclopiche: un’edizione speciale de Le avventure di Pinocchio del Collodi, al cui fianco campeggiava, nel suo ligneo rigore, una copia del famoso burattino. Su una mensola poco distante non si poteva evitare di ammirare due modellini di Formula 1 del Cavallino Rampante, omaggiati al Cardinale, serio appassionato e indomito tifoso, dalla celebre Scuderia Ferrari. E ancora, un piccolo ma accuratissimo diorama ritraeva Sua Eminenza intento a celebrare un convivio con alcuni sacerdoti dai volti facilmente riconoscibili. Quell’ambiente, solenne, sobrio, ordinato, sarebbe stato il teatro di tutti i nostri numerosi colloqui che si sarebbero moltiplicati negli anni.

Fummo dunque annunciati e, dopo un’attesa che ci lasciò appena il tempo di scambiarci espressioni di estasiata meraviglia, Giacomo Biffi ci raggiunse. Di lui, ci colpì subito, oltre al portamento fiero e ieratico, per nulla altèro, la talare nera ambrosiana che indossava con orgoglio, quasi a rammentare la nostra comune origine ecclesiale. Ci salutò con simpatia, quindi ci accomodammo insieme attorno al tavolo, uno alla sua destra, l’altro alla sinistra. Iniziò a raccontare di sé con ritmo spigliato, ed eravamo stupiti per la viva cordialità e la familiare confidenza con cui aveva preso avvio quel primo colloquio. Lo fissavamo ammirati e con spudorata venerazione.

Ci chiese quindi di presentarci e dopo aver constatato con biblico ammiccamento che tra Samuele e Davide non poteva che esserci una solida e virtuosa amicizia, riprese a dirci delle sue occupazioni quotidiane, dei progetti che non mancavano nonostante il ritiro dall’attività pastorale. Ci confidava, in particolare, della contentezza che il nuovo stato di “pensionato” gli arrecava – ma ci intimava in questo di non seguirne l’esempio –: non aveva più l’incombenza di obbedire ad alcuno (e non era cosa da poco), non doveva più comandare (compito invero assai gravoso) e, soprattutto, poteva prendersi finalmente il lusso di non fare nulla: “Non obbedire, non comandare e non fare nulla!”. L’ebbe a ripeterlo un paio di volte. Ma a quel suo dire, pronunciato con una solennità che tradiva un usato umorismo, seguì una risata contagiosa. L’udienza, ci era stato detto, sarebbe durata circa mezz’ora, ma che in virtù della nostra provenienza ambrosiana probabilmente il Cardinale ci avrebbe concesso qualche minuto in più. Ci alzammo dopo tre ore: fu l’inizio di una profonda amicizia.

Non tornammo a casa a mani vuote. Carichi all’inverosimile negli occhi, nelle orecchie e nel cuore di un preziosissimo bagaglio, iniziò a gravare su di noi anche la responsabilità di corrispondere, per quanto possibile, al compito che aveva affidato a due dediche. Ci pensò su parecchio prima di metterle nero su bianco, e la sua titubanza ci stupì non poco, perché – come è noto – aveva sempre la battuta pronta, indice non tanto di reazioni istintive, ma di innata intelligenza. I minuti trascorrevano mentre noi lo scrutavamo sempre più incuriositi, cercando di coglierne i pensieri. I libri che voleva donarci non erano stati scelti a caso. Dopo meditate riflessioni, sul Liber Pastoralis Bononiensis, aveva finalmente vergato: “A Samuele, iniziale speranza della Chiesa di Milano”. Quindi, domandandosi sornione: “E ora cosa scrivo?”, dopo alcuni istanti, afferrato Gesù di Nazaret centro del cosmo e della storia, con ritrovata risolutezza, vi appose: “A Davide, iniziale speranza della teologia cattolica”. A distanza di anni, rileggendo queste brevi righe, ritroviamo l’ennesima conferma dell’umorismo del Cardinale…».

Ho scritto a quattro mani con l’amico Davide Riserbato questo ricordo di Giacomo Biffi (1928-2015), apparso nell’Introduzione a Ubi fides ibi libertas. Scritti in onore di Giacomo Biffi (Cantagalli, Siena 2016) e poi ripreso e ampliato in Tutto liscio… come loglio? Ricapitolazione del disegno unitario (Cantagalli, Siena 2020). Se non ci fosse in ballo la fede, rimarrebbe solo un rimpianto malinconico nei confronti di chi non c’è più e che desideriamo ci sia ancora. Il nostro battesimo ci ricorda invece che, su altro piano, chi ha lasciato la nostra polverosa terra è ancora presente, poiché ora abita il Cielo in una vita che non ha fine. Oggi, però, nella bella confusione ecclesiale, come sovente l’apostrofava, si avverte quasi con dolore la mancanza di quella voce pacata, vigorosa e chiara che, con un poco di strascico meneghino nell’inflessione, non dava personali sentenze, bensì si faceva portatore di giudizi dall’alto. Questo, del resto, è il compito di un successore degli Apostoli: richiamare nella mente e nel cuore del Popolo di Dio la centralità della Sua parola e del Cristo. Senza inganni né disillusioni, ma nella consapevolezza di essere ancora in una valle di lacrime eppure già partecipi della vittoria sul male e, quindi, della gioia promessa. Un’identità netta, annunciata e testimoniata, non è a discapito del dialogo, ma punto di partenza per ogni autentico conversare. È, inoltre, cosa assai più importante, eco di una Parola vivente che dona luce e calore a ogni esistente realtà. Questo è quanto mi ha insegnato don Giacomo: saper leggere il riverbero del divino in tutte le cose viventi e riferirsi a Colui che è il centro del cosmo. Il timore di Dio, uno dei doni dello Spirito Santo, altro non è, allora, che riconoscersi bisognosi di un Padre, come la favola collodiana vuole narrarci nella magistrale rilettura del Cardinale in chiave teologica.

Una sua lettera a me indirizzata, datata 27 gennaio 2006, sintetizza il suo lucido pensiero:

«(…) L’insegnamento teologico e anzi tutta la cristianità stanno attraversando giorni confusi e difficili. All’origine c’è forse un deragliamento; invece di cercare di capire la Chiesa e la vita cattolica alla luce del rapporto con Cristo (che è la relazione costitutiva del mistero ecclesiale secondo la parola di Dio e la costante riflessione dei Padri), si è cominciato a considerare la Chiesa soprattutto alla luce dei suoi rapporti col mondo (che è una relazione legittima, ma non è affatto costitutiva). Si è vantato di aver compiuto una “svolta antropologica”, dimenticando che la sola vera svolta antropologica l’ha compiuta il Padre dall’eternità, quando ha deciso che il suo Unigenito si facesse uomo. Comunque non c’è da scoraggiarsi. La vicenda umana non è un missile che è sfuggito al controllo del campo base: è sempre nelle mani di Gesù crocifisso e risorto, che resta il Signore della storia e dei cuori. (…). [Da qui] tre convincimenti:

1. Cristo è il principio e l’archetipo di tutta la realtà extradivina, perché in lui tutte le cose sono state create e in lui tutte le cose sono state riconciliate.

2. La Chiesa è la sua Sposa bella e immacolata, ed è sempre una regina, anche quando la vediamo vestita dei nostri stracci.

3. Il Signore non ci comanda di vincere le nostre piccole battaglie (tanto ci ha già assicurato che il vincitore finale è lui); però ci comanda di combatterle con serenità, senza pause e senza stanchezze».

Per capire la statura di quest’uomo basterebbe tale manciata di parole (pubblicate in G. Biffi - S. Pinna - D. Riserbato, Tutto liscio… come loglio?). In poche battute, de facto, viene detto tutto, anzi il Tutto. Giacomo Biffi era capace di comunicare – aiutandosi con l’umorismo e una sottile ironia, oltre a una preparazione teologica invidiabile – grandi verità con un linguaggio semplice e comprensibile da chiunque. Non biasimava chi non la pensasse come lui, tenendo conto che il suo argomentare non principiava da una sua originale idea, perché rifletteva il dato rivelato, seppur si rivestiva della sua genialità espositiva. Provava, invece, verso chi chiudeva gli occhi davanti alla, forse, accecante verità del Cristo, un dolente affranto per non essere stato in grado di conquistare a quello da cui, lui per primo, era stato teneramente afferrato. L’amore di un Dio che si dona per la salvezza dell’uomo, non era soltanto una frase a effetto da tirar fuori ogni tanto nelle omelie, ma una convinzione da mettere in pratica mediante l’intelligenza della carità. Che cosa vede Gesù dall’alto della Croce?, si era chiesto in una predicazione di Esercizi Spirituali alla presenza del Papa e risponde con toni drammatici eppur toccanti:

«Vede l’oceano di stoltezza, di crudeltà, di viltà che da sempre ricopre la terra; ma sa che l’impeto della sua volontà di bene, provata fino al martirio, è più forte di ogni tracotanza del male. Egli non ha dubbi: come sacerdote della nuova e definitiva alleanza, col suo sacrificio sta riconsacrando il mondo contaminato e sviato, che alla fine sarà ricondotto a servire il suo Creatore e a cantarne la gloria. Perciò il Crocifisso si spegne con la coscienza di aver portato a buon fine l’impresa che gli era stata affidata: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30), è l’ultima sua parola. Dall’alto della croce Gesù vede con speciale tenerezza la moltitudine di quelli che, lungo la secolare vicenda della Chiesa, si arrenderanno nella loro esistenza concreta al fascino della sua grazia, e anzi si voteranno senza riserve ad annunziare il suo Vangelo e ad ampliare tra gli uomini l’appartenenza al suo Regno. E questo è uno sguardo d’infinita compiacenza, perché si posa sul frutto più saporoso della divina seminagione nel dolore: il morente ne è consolato e, pur tra i suoi spasimi, presenta silenziosamente al Padre l’omaggio della sua gratitudine. Chiediamo di essere confermati in questa schiera, di aver parte per sempre tra coloro che sono totalmente di Cristo, di poter entrare con generosità sempre più grande, come attivi e consapevoli collaboratori, nell’opera di illuminazione e di santificazione degli uomini, promossa e compiuta dal Figlio di Dio» ( Le cose di lassù. Esercizi Spirituali predicati alla presenza di Sua Santità Benedetto XVI , Cantagalli, Siena, 2007, pp. 108-109).

L’amore di Gesù è, dunque, un amore totale, gratuito, disposto al dono di sé e al sacrificio («Nel giorno del giudizio / verranno pesate solo le lacrime», ha scritto Emil Cioran, versi che, se vogliamo, richiamano il Salmo 56, 9: «Le mie lacrime, o Dio, nell’otre tuo raccogli: non sono forse scritte nel tuo libro?»). Ma è anche il modo pieno e completo di dare senso all’esistenza, di viverla appieno, di entrare nell’eterno: «Il mondo è un ponte – si legge nel Vangelo apocrifo di Tommaso –. Attraversalo, ma non fermarti lì!». Da qui ci si può innalzare a quello che la teologia cattolica denomina cristocentrismo, di cui il cardinal Biffi è stato grande sostenitore: è «il convincimento – egli spiega – che nel Redentore crocifisso e risorto – pensato e voluto per se stesso entro l’unico disegno del Padre – è stato pensato e voluto tutto il resto; sicché, sia per quel che attiene alla dimensione creaturale sia per quel che attiene alla dimensione redentiva ed elevante, ogni essere desume da Cristo la sua intima costituzione, le sue intrinseche prerogative, la sua sostanziale e inesorabile vocazione» ( Il primo e l’ultimo. Estremo invito al cristocentrismo, Piemme, Casale Monferrato 2003, p. 17). Essere veri uomini significa conformarsi, assomigliare, al Cristo. La carità non si riduce al proprio modo di esprimere un generico amore, ma viverlo come l’ha insegnato Dio, il quale – scrive Clive Staples Lewis – «può risvegliare nell’uomo un “amore di apprezzamento” soprannaturale verso di lui. Questo, di tutti i doni, è quello che dovremmo desiderare maggiormente. È qui, e non nei nostri affetti naturali – nemmeno nell’etica – che risiede il centro della vita umana e angelica. Se possediamo questo, tutto ci sarà possibile» ( I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità, Jaca Book, Milano 20117, p. 126). La grazia dell’amore divino ci consente, pertanto, di amare il prossimo, nonostante i suoi limiti: «Dio è – come ha scritto quell’ateo di Ludwig Feuerbach – una lacrima d’amore nel più profondo nascondimento, versata sulla miseria umana». Ecco l’importanza della Rivelazione: «la parola di Dio – si legge nel Talmud ebraico – è come l’acqua. Come l’acqua, essa discende dal cielo. Come l’acqua, rinfresca l’anima. Come l’acqua non si conserva in vasi d’oro o d’argento ma nella povertà dei recipienti di terracotta, così la parola divina si conserva solo in chi rende se stesso umile come un vaso di terracotta».

Giacomo Biffi ha portato con sé e in sé, per quanto mi riguarda – come sopra si accennava –, una rara e raffinata genialità. In una frase attribuita ad Arthur Schopenhauer si scopre, infatti, che «il talento coglie un bersaglio che nessuno riesce a colpire. Il genio coglie un bersaglio che nessuno riesce a vedere». Eh, sì, come dissero a un piccolo principe: «non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

Rileggo, dunque, spesso, con non poca gratitudine, una frase del Cardinale, piena di verità e speranza. Me lo immagino ancora là, in quel salone delle udienze, di forma tetragona, seduto a capotavola e noi, io e Davide, accomodati, uno alla sua destra, l’altro alla sinistra. Un dire spigliato, provocatore di simpatia e di profonde riflessioni generatrici di inveterata gratitudine per chi aveva l’onore di ascoltare.

«Quando uno è convinto che Dio esiste, ed è Padre e approdo di tutti gli esseri, e che Gesù Cristo è risorto, primizia della nostra vittoria, non può non essere allegro nel profondo del suo essere, per quanto male gli vadano le cose e per quanto deludente gli possa sembrare la cristianità».

 

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