Era tanto che non incontrava Stefania De Amoris e, così, qualche giorno dopo il Santo Natale, precisamente il 28 di dicembre, decisero di vedersi in un Caffè del centro. Stefania De Amoris era una di quelle ragazze che non avevano scelto, ma si erano trovate carrozzate splendidamente, tanto che qualche animale si girava al suo passaggio per osservare meglio la succitata carrozzeria e altri non trattenevano fischi esuberanti.
Fintantoché era rimasta ragazzina, come era nel vezzo di quell’età, teneva a presentarsi bene, senza paura di esagerare. Crescendo aveva riscoperto la semplicità, pur non disdegnando di essere sempre in ordine. Era una giovane affascinante con i capelli lunghi e corvini, un bel visetto furbo e soprattutto due occhi vispi e profondi. Parlava a raffica, come una mitragliatrice che non si inceppa mai, muovendo il testolino e gesticolando in modo simpatico. Intelligente e spiritosa, possedeva molte qualità e, certamente, come tutti, anche i suoi difettucci che mascherava con la sua buona presenza.
Quella mattina faceva un freddo vigliacco e don Augusto decise di prendere il tram vicino alla canonica. Dovette aspettare parecchio e perse subito la speranza di scaldarsi un poco sul mezzo di locomozione, invero poco riscaldato e con spifferi di aria fredda che entravano in ogni dove, ma soprattutto nelle ossa.
Quel giorno c’era un sole pallido che ricopriva ogni cosa con la sua tenue luce, mentre il cielo era striato da qualche nuvola che lo squarciava dappertutto, facendo passare soltanto i tiepidi raggi.
Il pretone arrivò puntuale all’appuntamento ed entrò veloce nel Caffè per riscaldarsi: il posto era di lusso, pieno di sciccherie ed elegante nel complesso. Si sedette, scortato da un cameriere, e attese l’arrivo dell’amica, che non tardò molto. La Stefania De Amoris era sposata da qualche tempo, ma una rotondità particolare fece capire immediatamente al prete di città qual era la buona notizia che voleva comunicargli. Se la Stefania De Amoris era stata una bella ragazza, in quello momento, così almeno parve al pretone, lo era ancora di più: lo si notava evidente sul suo viso oramai di donna, divenuto tale perché in attesa di un dono immenso, qual è un figlio.
“Le donne che aspettano un bambino”, ragionò tra sé e sé il pretone, “sono sempre più belle, perché portano la vita in loro”.
In quel momento il nostro don Camillo comprese di non trovarsi più davanti a quella ragazzina conosciuta da anni annorum e che da piccola amava pitturarsi la faccia e le unghie, ma una donna, una donna vera e affascinante sia per avvenenza sia per profondità di cuore.
Parlarono ovviamente di tutto e in particolare del nascituro: il dono grande, stupendo, incredibile!
«No», rispose alla domanda del sacerdote, «non abbiamo voluto conoscere se sarà maschio o femmina, aspettiamo di saperlo al momento opportuno, né abbiamo fatto esami particolari, se non quelli di routine, per apprendere della sua salute. Anche perché non lo butteremo via in ogni caso».
Disse quell’ultima frase con naturalezza, concludendo con una risata argentina, contagiosa e piena di gioia. Don Augusto si illuminò davanti a quelle parole e la Stefania proseguì, «Sai, diversi miei colleghi e amici mi suggeriscono di fare controlli e nel caso qualcosa non funzionasse di abortire. Per me ciò è semplicemente impossibile: non solo da fare ma persino da immaginare».
«Chissà come fanno alcune donne», disse trasognato l’altro, «come può una donna che ha avuto in grembo una creatura, disfarsene a un certo punto?».
«Senza giudicare, non lo so e non lo capisco proprio. Non so come spiegartelo, ma si sente, io sento che lui si muove e vive in me. Non potrei mai…».
E prendendo il manone del prete di città che fu di paese la mise dolcemente sulla pancia e risero entrambi quando sentirono scalciare la creaturina dentro quel pancione.
“Si parla di diritti della donna”, pensò il prete, “ma non si parla mai dei diritti del nascituro. Si parla di amore libero, ma l’amore se libero è anche responsabile e porta sempre alla vita, mai alla morte. È dono mai un atto di egoismo. Vivere male la propria sessualità, degradarla a voglie, all’uso dell’altro, anche quando l’altro è consenziente, non è amore”.
«Sai l’amore», disse don Augusto, «è davvero qualcosa di divino: ci oltrepassa, ci trascende, ci supera. Però è esattamente la gioia del tuo volto di questo momento. L’altra faccia dell’amore è la Croce, perché il vero amore è per noi difficile da custodire, da mantenere a motivo dei nostri limiti creaturali. Tuttavia, la grazia ci sopraeleva e ci fa comprendere che non c’è amore che non sia gratuito, totale, disposto al sacrificio di sé. Questo è quello che ci insegna Gesù e che ha vissuto: un amore che perdona, misericordioso, giusto e vero. Vivere la libertà è vivere un amore così, altrimenti l’essere liberi si riduce a essere meschini, bestiali, bruti per conto di un ideale che è, ahimè, ideologia. Non ci può mai essere vera libertà laddove c’è il male. La libertà si dà nel bene. Dio è libero eppure non compie mai il male. Essere liberi è essere come Dio e tu in questo momento sei a Lui vicinissimo, “collaborando” in qualche modo nel progetto della creazione anche tu generi vita, cooperi con il Creatore per arricchire di bellezza il creato».
L’altra lo fissava con attenzione con quei due occhioni così profondi e annuiva, riconoscendo in quel prete lì davanti tanta profondità proporzionata all’ammasso di carne che possedeva.
«Insomma amore e Croce», rispose la donna, «è come la gioia del dono che ho in grembo e le nausee che devo sopportare».
«Più o meno», rispose il prete di città con una fragorosa risata.
Tornato sul tram felice e spensierato come un ragazzino, don Augusto meditò su un testo di san Quodvultdeus, un vescovo del passato dal nome che gli appariva tanto simpatico. Era la festa dei Santi Innocenti Martiri, i bambini uccisi da re Erode, il quale voleva eliminare il Messia, e il pretone lesse un passaggio di un Discorso che trattava proprio di quel triste episodio:
«Le madri che piangono non ti fanno tornare sui tuoi passi, non ti commuove il lamento dei padri per l’uccisione dei loro figli, non ti arresta il gemito straziante dei bambini. La paura che ti serra il cuore ti spinge a uccidere i bambini e mentre cerchi di uccidere la Vita stessa, pensi di poter vivere a lungo, se riuscirai a condurre a termine ciò che brami. Ma egli, fonte della grazia, piccolo e grande nello stesso tempo, pur giacendo nel presepio, fa tremare il tuo trono».
Vennero immediatamente in mente a don Augusto i nuovi santi Innocenti martiri del suo tempo: i tanti bambini concepiti e non nati a causa dell’egoismo, dell’ideologia, dell’individualismo, della paura, di un pensiero dominante e diabolico. Sì, una cultura mefistofelica che si barrica dietro a presunti diritti, scordando i doveri: nessun uomo è una libertà assoluta, solo Dio è assolutamente libero, e pertanto non esiste chi può vivere senza essere attento al bene del prossimo. Un’uccisione, e al disopra di tutto l’assassinio di un innocente, non può mai essere considerato un bene. Nessuno, se non Iddio solo, è padrone della vita! Eppure quante stragi, oggi come al tempo di Gesù, quanti Erode preoccupati più del loro potere che della giustizia.
“Disgraziata di una terra bagnata dal sangue di innumerevoli Santi innocenti”, sospirò don Augusto, poi l’occhio cadde nuovamente sul breviario e si fissò su una frase che lo rincuorò e che gli permise di ringraziare dal profondo del cuore ancora una volta il Creatore. Se il fine della vita è l’incontro eterno con il Signore, nelle sue imperscrutabili vie tutto acquisterà un senso e un valore. Nessuno muore invano e di là da una costatazione puramente consolatoria ciò fa riscoprire un’autentica fede in Dio, che si esercita mediante una vera testimonianza nella vita e nella concretezza quotidiana.
«Non parlano ancora», lesse a mezza voce dal Discorso di san Quodvultdeus, «e già confessano Cristo!». Pubblicato il 28 giugno 2017
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