In questi “tempi ultimi” ho cercato di andare alle radici e mi sono molto interessato al monachesimo, una delle espressioni più grandi della cristianità. Dall’esperienza dei monaci egiziani, i padri del deserto, a quella benedettina, sono passati molti secoli, secoli in cui il monachesimo si è sviluppato e ha conosciuto vette e abissi. Oggi il monachesimo, come del resto il cristianesimo tutto, è in grande e profonda crisi, non solo di vocazioni ma, in alcuni casi, anche di identità.
Chi è il monaco? Il monaco è colui che sente di dover seguire la sua vocazione cristiana nel modo più radicale, questo almeno ci insegna la sapienza della nostra tradizione. Il termine “monaco” viene dal greco “monos”, solitario. Interessante che questo nome viene applicato sia agli eremiti sia a coloro che fanno vita comunitaria. Questo significa che la solitudine non è fatta solo di mancate frequentazioni umane, ma essa è ricercabile anche nel mezzo di una folla, se uno sa come cercarla.
Uno dei giganti del monachesimo, Sant’Antonio Abate, diceva: “Chi siede nel deserto per custodire la quiete di Dio è liberato da tre guerre: quella dell’udire, quella del parlare, e quella del vedere: Gliene rimane una sola: quella del cuore” (da gliscritti.it ). Ci illuderemmo se non ammettiamo che la guerra del cuore è probabilmente la più dura, quella da cui dipendono le vittorie anche nelle altre guerre menzionate da Antonio. Una guerra che non dipende dall’essere soli o dall’essere nel mezzo di una folla. San Gerolamo, nella sua importante lettera ad Eustochio, rifletteva sulle tentazioni: “Se Paolo apostolo, vaso di elezione preparato per annunziare il Vangelo di Cristo, sentendo il pungolo della carne e gli allettamenti dei vizi, tratta duramente il suo corpo e lo rende schiavo, per non rimanere lui stesso condannato dopo aver fatto da araldo agli altri; se, malgrado i suoi sforzi, scorge nelle sue membra un'altra legge che s'oppone a quella dello spirito e lo sottomette alla legge del peccato; se, voglio dire, dopo aver patito nudità, digiuni, fame, prigionie, staffilate, supplizi, riflettendo su se stesso esclama: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?», come puoi crederti sicura, tu?”. Insomma, il fuggire dal mondo non ci mette sempre al riparo dalla guerra del cuore, anzi, a volte potrebbe renderla ancora più tumultuosa.
Lo stesso Gerolamo ammette che, malgrado le sue macerazioni, non era esente da quelle tentazioni carnali, da quella guerra del cuore, da cui desiderava fuggire: “Quante, quante volte, pur abitando in questo sconfinato deserto bruciato da un sole torrido, in questa squallida dimora offerta ai monaci, credevo davvero d'essere nel mezzo della vita gaudente di Roma! Me ne stavo seduto tutto solo, coll’anima rigonfia d'amarezza. Il mio corpo, sfigurato dal sacco, faceva spavento; la pelle sporca e indurita richiamava l’aspetto squallido dell'epidermide d'un negro. Lacrime e gemiti ogni giorno! Se, nonostante i miei sforzi, il sonno mi assaliva improvviso, ammaccavo le ossa tutte slogate, steso sulla nuda terra. Non ti parlo del cibo e della bevanda: nel deserto anche i malati usano acqua gelida; un piatto caldo è una golosità! Io dunque, sì, proprio io che mi ero da solo inflitto una così dura prigione per timore dell'inferno, senz'altra compagnia che belve e scorpioni, sovente mi pareva di trovarmi tra fanciulle danzanti. Il volto era pallido per il digiuno, eppure, in un corpo or mai avvizzito, il pensiero ardeva di desiderio; dinanzi alla mente d'un uomo già morto nella carne, ribolliva l'incendio della passione. Privo d'aiuto, mi prostravo ai piedi di Gesù, li irroravo di lacrime, li asciugavo con i capelli, domavo la carne ribelle con settimane di digiuni. Non mi vergogno di confessare queste miserie; se mai, piango di non avere più il fervore d'una volta”. Il cuore ci segue dovunque.
Ecco che dobbiamo forse pensare anche ad una nuova forma di monachesimo diffuso, diversa dalle precedenti ma che si ispira agli stessi principi fondanti. Un monachesimo a cui possano partecipare anche coloro che non emettono voti religiosi, ma che intendono non proprio uscire dal mondo, ma uscire nel mondo, cioè attraverso il proprio impegno nel mondo combattere la propria battaglia spirituale come monaci guerrieri, attraverso una vita di preghiera personale intensa ed uniti, anche se idealmente, a migliaia di altri monaci guerrieri, medici, operai, avvocati, commessi e via dicendo, uomini e donne. Dobbiamo riprendere nelle nostre mani la nostra fede, in un momento in cui l’istituzione Chiesa, a cui apparteniamo e a cui vorremo sempre appartenere, non sembra in grado di garantirci quell’ambiente spirituale in cui far crescere sanamente la nostra vocazione, qualunque essa sia. Se la nostra casa crolla poco a poco, facciamo quello che possibile per metterla in sicurezza (se umanamente possibile), ma anche cerchiamo di scansarci, almeno per un certo tempo. Ora siamo chiamati a qualcosa di drammatico, forse di poco comprensibile non vivendo la Chiesa da dentro: dobbiamo trascendere il mondo, vivendolo.
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