03 dicembre 2018

Non dismettono le chiese ma il cattolicesimo

di Giorgio Enrico Cavallo
«La constatazione che molte chiese, fino a pochi anni fa necessarie, ora non lo sono più, per mancanza di fedeli e di clero, o per una diversa distribuzione della popolazione nelle città e nelle zone rurali, va accolta nella Chiesa non con ansia, ma come un segno dei tempi che ci invita a una riflessione e ci impone un adattamento».
Di che ci sorprendiamo? Con il corso degli eventi degli ultimi anni, era naturale che si arrivasse a questo punto. Certo, queste parole messe nella bocca di un pontefice fanno accapponare la pelle; ma rientrano perfettamente nella linea perseguita dalla Chiesa Cattolica “riformata”: la gente non va a Messa? Le chiese sono vuote? Al posto di arginare in ogni modo possibile il dissolvimento del cattolicesimo dal mondo contemporaneo, si preferisce esultare e giubilare di fronte a questo «segno dei tempi». Segno che impone una riflessione, ovviamente seguita dall’adattamento alla nuova situazione. E nel mentre le chiese possono essere comodamente vendute (o, per meglio dire, svendute). Perché? Perché bisogna «dare priorità al tempo», e ciò «significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce». Garbuglio linguistico che, tradotto in parole povere, significa: “ritiriamoci con ordine e dignità”.

Davvero, non è una novità che gli europei disertino in massa le chiese. In alcuni paesi nordici, la loro dismissione è iniziata anni fa, ed oggi quelli che erano pii monumenti della devozione sono diventati sale di incontro, musei, palestre, negozi. Mammona si è presa tutto. In Italia, bisogna riconoscerlo, siamo ancora in una posizione privilegiata: da noi la scristianizzazione è meno evidente, ma nel giro di pochi anni saremo destinati ad affrontare il problema anche noi. Dunque? Anziché tirare fuori le unghie, la Chiesa preferisce vendere. Il che, per carità, potrebbe rientrare in un disegno tattico: indietreggiare per non disperdere le energie su un fronte troppo vasto. Purtroppo, va osservato che tale disegno non solo non c’è, ma sembra quasi che sia già stata firmata la resa al nemico.
Solo così si possono interpretare passi sconcertanti delle indicazioni di Bergoglio ai rappresentanti delle 23 conferenze episcopali riuniti alla Gregoriana su iniziativa del cardinal Ravasi. Come questo: «La dismissione non deve essere la prima e unica soluzione a cui pensare, né mai essere effettuata con scandalo dei fedeli. Qualora si rendesse necessaria, dovrebbe essere inserita per tempo nella ordinaria programmazione pastorale, essere preceduta da una adeguata informazione e risultare il più possibile condivisa».

Certo, in Italia chiudere una chiesa è ancora percepito come un evento traumatico. Dunque, bisognerà programmarla per tempo, informare preventivamente in vista dell’insindacabile chiusura per fallimento. Al posto che programmare una lotta all’ultimo uomo, si preferisce calendarizzare la resa. Duemila anni di cristiani battaglieri, di martiri, di crociati, buttati alle ortiche: oggi si preferisce cerchiare sull’agenda la data della chiusura. Unico sforzo richiesto: informare per tempo i parrocchiani. Accompagnarli sulla via del discernimento. Perché è bene così: «l’eloquenza originaria» delle nostre chiese millenarie «può essere conservata anche quando non sono più utilizzati nella vita ordinaria del popolo di Dio, in particolare attraverso una corretta esposizione museale, che non li considera solo documenti della storia dell’arte, ma ridona loro quasi una nuova vita, così che possano continuare a svolgere una missione ecclesiale». Se volete vedere questa «nuova vita» delle nostre chiese “musealizzate”, previo pagamento del biglietto d’ingresso, recatevi in una delle tante vittime di questa “valorizzazione”. Fortunati voi se ne trovate una che è rimasta una chiesa, seppur sconsacrata.

La maggior parte sono state acquisite da fondazioni private, e dove un tempo c’era il Santissimo ora ci sono orrendi sgorbi di arte contemporanea, installazioni pseudo-artistiche che stridono, cozzano, fanno a pugni con il buon senso estetico dei nostri avi. Installazioni volutamente anti-cristiane, per sbertucciare e dissacrare un luogo che resta a tutti gli effetti sacro.

A proposito di dissacrazione: a ben dire, se proprio volessimo dismettere delle chiese, sarebbe il caso di cogliere la palla al balzo e vendere subito quei templi dell’horror che hanno funestato le nostre città dal Concilio in poi. Ovviamente, anche laddove ci sono chiese vecchie e dal passato glorioso si preferisce celebrar Messa dentro questi scatoloni di cemento: brutti fuori, brutti dentro, privi di ogni senso estetico e di ogni aspirazione al divino, degni frutti di una teologia vuota e retorica. Queste sarebbero le chiese da abbattere, e subito; ripensando, magari, a molti punti dell’ultimo Concilio.

Invece, stiamone pur sereni, ad essere dismesse saranno le chiese romaniche e barocche. Le poetiche cappelle di campagna. I santuari. La distruzione del Cattolicesimo passa anche e soprattutto dall’eliminazione dei simboli, del bello, del sacro. Ciò che maggiormente sconvolge, è che Roma non soltanto non si opponga a questo declino, ma che lo stia incentivando. Anzi, che l’abbia preventivato. Si permetta la domanda retorica: anche la dismissione del Vaticano è in agenda?


 

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