18 luglio 2018

È tornato don Camillo/67. Foglio di via

di Samuele Pinna
(con una illustrazione interna di Erica Fabbroni)
Il suo modo incapace di conciliare le varie questioni di ordine pastorale non piacquero ai suoi diretti superiori, sempre presi da “misericordite” verso tutti, tranne ovviamente quando lui ne era il soggetto deputato a riceverne una porzione, benché si accontentasse anche di una piccola. Dopo la fatica a digerire l’erba cipollina della fanatica, che andò a lamentarsi del nostro reverendo in tutte le sedi opportune e inopportune, il “caso” vero e proprio scoppiò dopo qualche tempo. Il boato fu allucinante, da paura nera.

Era una questione semplice, persino banale, su cui non c’era molto da riflettere per arrivare a una giusta ed equa decisione. In fondo, però, il problema era tutto lì: se uno non ragiona, difficilmente potrà decidersi per ciò che è ragionevole.
Non che il nostro don Camillo non si maledicesse per non aver tenuto la lingua stretta fra i denti, ma purtroppo, a volte, avere una coscienza non agevola a una vita di distensione. Tra l’altro, era stato tirato in ballo e a quel punto aveva dovuto dire la sua. Quello che non avrebbe dovuto combinare era di spezzare in due la scrivania del suo gioviale parroco, come sono gioviali tutti i parroci cittadini, con un sonoro pugno a piccione. Per chi non sapesse cos’è il pugno a piccione si propone una spiegazione assai semplice: è il colpo sferrato a mo’ di mazzata dall’alto al basso che fa giravoltare su se stesso il malcapitato o frantumare la cosa colpita. L’idea del pugno assestato in tal modo nasce nel cinema e l’autore è nientepopodimeno che Bud Spencer. Questi aveva creato tale mossa per la sua prima scazzottata con Terence Hill nel lontano 1967 (e nel corso dei film successivi verrà sempre più affinata).

Di là dalla tecnica, l’esecuzione fu micidiale, come le conseguenze. Il parroco, un po’ meno gioviale del solito, era rimasto fermo come uno stoccafisso, la faccia smorta e la pelle del pallido viso afflosciata su se stessa. Fu la presenza di Giampaolo Fabbro a scongiurare il peggio, trascinandosi via il pretone esasperato da una discussione senza senso.

Ma quale il motivo di cotanta contesa? Una banalissima autocertificazione non in regola. Il giovane Jean Paul, che bazzicava sempre più gli ambienti parrocchiali, non solo come inquilino ma anche come attivista, aveva comunicato a una catechista che il padrino designato di una cresima in realtà non poteva svolgere tale servizio. La brava donna si era informata sul motivo, l’aveva verificato ed era andata a riferire al parroco, il quale aveva detto incomprensibilmente che le cose andavano bene così e che portasse le prove di quelle accuse.
Fu allora chiamato in causa Giampaolo.

«Convive, signor Parroco», disse serenamente.
«E tu come fai a saperlo?», rispose l’altro dubbioso.
«Perché è mio cugino».

A quel punto, prese il foglio lo bollò con un timbro e confermò che tutto era in regola lo stesso.
Il ragazzotto non si fece scrupoli, convinto di aver fatto bene, ma anche disinteressandosi della cosa ora in mani altrui, che tra l’altro non capiva in tutta la sua portata. La catechista, invece, disse a muso duro che non era d’accordo e i toni si scaldarono.
Proprio in quel momento passò di lì don Augusto, che, felice di fumarsi in santa pace la sua pipa, si bloccò incuriosito e il giovanotto cresciuto a Marx e pastasciutta gli raccontò per filo e per segno tutta la vicenda.

Il fatale errore fu quello di cercare di mediare una situazione già decisa in partenza, tentar cioè di ragionare con chi non aveva la minima intenzione di farlo.
«Signor Parroco», s’intromise con fare scanzonato e sfoderando un accattivante sorriso, «cos’è tutta questa buriana?».
Alla catechista non parve vero che fossero arrivati i rinforzi e come ogni donna buttò fuori tante di quelle parole da stordire qualsiasi orecchio, persino di quelli più predisposti.

«Non vedo dove sia il problema», concluse don Camillo redivivo dopo tutto l’infinito discorso dell’altra, «le leggi della Chiesa stabiliscono che per fare il padrino o la madrina si deve, punto uno: aver compiuto i sedici anni di età; punto due: essere stati battezzati, cresimati e aver ricevuto l’Eucaristia nella Chiesa cattolica; punto tre: non aver contratto matrimonio solo civile, né convivere, né aver procurato divorzio, né avere una relazione stabile con persona che vive in una situazione irregolare; punto quarto: non essere irretito da alcuna pena canonica legittimamente inflitta o dichiarata; punto cinque: non essere il padre o la madre del battezzando e/o cresimando; infine, sesto punto: impegnarsi a condurre una vita cristiana conforme alla fede e all’incarico assunto».
Fece una pausa dove prese fiato.

«Se quest’uomo convive», proseguì, «come da punto tre, non può fare il padrino. Mi pare una facile questione risolvibile senza perdere la calma».
E, invece, la pazienza andò a farsi benedire e ne uscì un gran casino. Il parroco si impuntò, affermando che quelle erano leggi arcaiche, da antico testamento, da rivedere e da cambiare.
«Bisogna avere misericordia, basta con tutte queste norme e cavilli!».

Il pretone, dal canto suo, fece notare che la misericordia sussiste solo nella verità, altrimenti è un buonismo anarchico e soggettivo, che può alimentare un male maggiore di quello che si vorrebbe debellare. Pertanto, fintanto che tali leggi erano in vigore andavano rispettate. L’altro replicò dicendo che non aveva bisogno di lezioni, poi si lasciò scappare qualche ingeneroso giudizio personale sul nostro don Camillo, che da sorridente divenne serio e quando diventava così accigliato, con i lineamenti duri, la mascella tirata e lo sguardo fisso, faceva davvero paura. Massacrò di parole il gioviale parroco cittadino che si fece piccolo nella stanza, soprattutto dopo che l’altro si era tirato su le maniche della veste fino al gomito. Tuttavia, convinto di poter far valere ancora qualcosa della sua umiliata autorità, anziché tacere fece partire un insulto travestito da innocuo commento. Quello che avvenne dopo è già stato raccontato: una bella e massiccia scrivania di legno giaceva ormai accasciata sul pavimento, spaccata nel suo preciso mezzo da una mazzata potente quanto letale a opera del pretone dalle mani di badile.

Le cose per il nostro reverendo si misero male, perché – nonostante avesse dannatamente ragione – si deve mantenere sempre un dignitoso contegno, un certo aplomb, uno stile politicamente corretto. Ma come punire chi ha difeso la verità? Questa operazione non era invero troppo complessa in un mondo al contrario.
Il povero vecchio vescovo era visibilmente infastidito da una situazione in cui era necessario salvare la capra del Parroco e i cavoli di don Augusto. A buon conto, non poteva assolvere uno a scapito dell’altro, perché il gioviale parroco nella sua giovialità aveva commesso un atto gravissimo. Si era, in fondo, proclamato Papa, ridisegnando le leggi della Chiesa a suo uso e consumo. Anzi, si era spinto ancor più in là rispetto al ministero petrino, poiché si era preso la prerogativa di essere la Verità stessa, ossia Gesù Cristo: a lui il potere, infatti, di decidere cosa era bene e male e confermare in tal modo la legge divina ed ecclesiastica o modificarla a suo arbitrario giudizio. Atteggiamento di per sé inaudito.

“Ma questa non è la quintessenza di ciò che oggi si definisce discernimento?”, pensò tra sé e sé l’alto prelato dubbioso. Del resto, era pure mestamente conscio che nel tempo del discernimento, oltre che della introspezione e della psicoanalisi, non aveva mai azzeccato, se non di rado, una nomina o una decisione in simili casi. Don Augusto, a sua volta, però, si era inguaiato da solo: non avrebbe dovuto cedere alla violenza e all’intimidazione, anche se un buon scapaccione tirato con la giusta forza rimane un ottimo metodo educativo (ma – ecco il grave delitto –, non bisogna dirlo troppo in giro di questi tempi).

I vecchi vescovi sono sempre molto saggi e, a motivo dell’età, quasi tutti morti oramai. E anche quello del nostro pretone, ancora vivo e vegeto, nonostante fosse molto avanti negli anni, non faceva differenza. Arrivò, dunque, a un verdetto inattaccabile.
“Il pugno sul tavolo ci stava, ma sfasciare la scrivania, quello no!”, meditò ancora con se stesso il presule, “È assolutamente troppo!”.
Il nostro Panzer in talare fu convocato in Curia e, al cospetto del vescovo, non tentò neppure di discolparsi.

«Sei un cattivo elemento», si sentì dire, «davvero un brutto ceffo! Come si fa a essere tanto insubordinati al proprio diretto superiore?».
«Ma…», provò a intervenire con fare avvilito.
«Silenzio!», ribatté l’altro, «Silenzio! Non ci siamo, don Augusto. Ti avevo inviato in città perché tu stessi tranquillo e invece mi vai a rompere scrivanie… Che poi, è vera questa storia?».
«Purtroppo, sì», rispose mogio.
«No, no, no, non ci siamo proprio. Io comunque non ci credo… una scrivania di legno massiccio… sfasciarla in due… quante fandonie oggi si raccontano!».
«Le assicuro che è la realtà…».
«Se corrisponde al vero, dimostramelo».
E l’alto prelato indicò la sua scrivania.
«Non posso, per rispetto a lei e perché…», ma non gli uscivano le parole.
«Perché?», lo rimbeccò l’altro, «Continua, dai, non farti pregare…».
«Beh», riprese don Augusto, «perché non sono arrabbiato…».

«Ah, è la rabbia che ti ha mosso?», chiese retoricamente l’altro, «Brutta ammissione la tua… E ti arrabbieresti se ti comunicassi seduta stante un tuo cambiamento di destinazione?».
«No», rispose l’altro sempre più abbattuto, «lo accetterei, per obbedienza e come conseguenza delle mie malefatte».
«Uhm», rimase colpito l’anziano vescovo, che si portò una mano sul mento e rimase silenzioso per un po’.
«E se ti dicessi che il tuo Parroco ha ragione e come Ordinario del luogo sono disposto a rivedere quelle obsolete leggi…».
«… neppure lei ha quella autorità…».
«… oppure che sto per promulgare un rito della Messa interconfessionale, così da permettere a chi lo desidera, cioè a coloro che ne hanno voglia e gli fa piacere, di comunicarsi…».
«… credo…».
«… oppure che vorrei abolire tutte le feste mariane, ma siccome non posso mi accontento di declassarle a memorie facoltative…».
«… scusi…».
«… oppure che sono disposto a dare la comunione ai divorziati risposati senza discernimento alcuno…».
«… guardi…».
«… oppure a togliere la scomunica su chi pratica l’aborto…».
«… invero…».
«… oppure far sposare tutti con tutti… e quando dico “tutti” intendo dire proprio “tutti”…».
«… ma…».
«… oppure, che voglio istituire nella mia Diocesi il sacerdozio femminile…».
«… non questo non lo farebbe mai!», riuscì a dire finalmente il pretone.
«Non me ne credi capace?».

«Oh certo, ma lei non è il tipo che vuole vedere moltiplicarsi i suoi grattacapi…», rispose pronto l’altro.
L’elenco degli “oppure” a quel punto si concluse, soffocati in una risata dell’anziano superiore. Don Camillo redivivo s’era subito avveduto che il suo vescovo lo stava solo provocando, non credendo minimamente a quelle panzane che non soltanto un pastore ma persino l’ultima pecora del gregge di nostro Signore non si sarebbe mai sognato di dire né di pensare.
“Gesù, che faccio?”, si trovò a bisbigliare il nostro don Camillo, “Se pesto giù un pugno e non succede nulla?”.
“La forza non viene dalla rabbia”, percepì una voce dentro di sé, “ma dal cuore”.
E senza dire né muori né crepa, tirò giù colpo da manuale e la scrivania si spaccò in due a causa di quella poderosa manata che diede forte e precisa, tanto che il presule dovette scansare indietro.
«Lo dicevo io che sei un pessimo elemento», lo rimbrottò bonariamente l’alto prelato divertito.
Per salvare capra e cavoli, decise infine che per il povero don Augusto era necessario un breve tempo di riposo, ma che comunque non l’avrebbe rimosso dalla sua attuale destinazione.
«Cambiare un poco l’aria, ti farà bene», disse il vecchio presule, «tanto più che siamo in piena estate».
Il prete di città non sapeva se essere triste o felice, poiché non capiva se la cosa fosse un premio o una punizione. Alla fin fine gli passò per la testa una frase attribuita a sant’Agostino e gli si conficcò talmente nella materia cerebrale che pareva una freccia ben piantata nel suo bersaglio.
“Mettiamo il passato nella misericordia di Dio, il futuro nella sua provvidenza e facciamo del presente un atto d’immenso amore”.


 

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