L’estate direi che è la stagione
più propizia alla lettura e alla meditazione. Le vacanze, il tempo libero, il
fattore climatico, un certo legittimo desiderio di evasione ed infine
l’importanza – avvertita soprattutto dalle persone profonde – di formarsi e di
riflettere.
San Tommaso è di uno quegli
autori che difficilmente si riescono ad esaurire in una sola esistenza. Leggere
tutte le opere di Manzoni, di Petrarca, di Pirandello o di Shakespeare, è
difficile, ma non è impossibile. E c’è chi c’è riuscito senza pena, in anni di
intense letture.
Le opere di Tommaso d’Aquino
hanno una profondità, una vastità e una complessità difficilmente raggiungibile,
e molti studiosi tomisti mi hanno rivelato di aver impiegato parecchi anni per
leggere la sola Summa teologica, il
testo sicuramente più autorevole dell’immenso teologo italiano (oggi
disponibile, in 4 volumi, ed in una nuova eccellente traduzione, a cura delle
ESD di Bologna).
Ma san Tommaso oltre che teologo
(Summa theologiae, Commento alle Sentenze e Summa contra Gentiles), fu anche
filosofo (con i celebri studi su Aristotele, Boezio e gli undici volumi delle Quaestiones Disputatae) e ottimo esegeta
della Sacra Scrittura.
Quest’ultima sua caratteristica è
la meno nota e forse anche la meno riconosciuta da certi teologi della Chiesa.
Costoro, per varie diverse ragioni, sono ostili alla Scolastica medievale e
vorrebbero – pazzescamente, il faut le
dire – ridurre Tommaso ad una sorta di Aristotele cattolico, né biblico, né
realmente ‘cristiano’ poiché carente di impregnazione scritturistica nelle sue
opere.
La realtà è esattamente
all’opposto. Non solo tutte le opere di san Tommaso, ove più ove meno, sono
delle riflessioni che tengono conto della Rivelazione divina e dei dogmi della
fede, ma l’Angelico ha anche “commentato alcuni libri biblici, in particolare
Isaia, Geremia, i primi cinquanta Salmi, Giobbe, i Vangeli di san Matteo e di
san Giovanni e le Lettere di san Paolo” (Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo secondo Matteo,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2018, 2 volumi, di pagine 1194 ciascuno,
euro 98, p. 5).
E non è davvero poco, specie in
mancanza di web, pc ed altre moderne facilitazioni.
Il domenicano Roberto Coggi,
traduttore del libro, nota con legittimo stupore che mentre “Tutti questi
commenti sono stati tradotti in qualche lingua moderna [ovviamente nel Medioevo
si scriveva in latino]”, fa eccezione, “stranamente, il Vangelo di san Matteo”,
benché il Commento di san Tommaso non sia “per nulla inferiore agli altri” (p.
5).
Secondo il sacerdote, il Commento al Vangelo secondo Matteo
risale al secondo periodo parigino di san Tommaso, probabilmente proprio al
biennio 1269-1270, pochi anni prima dunque della morte dell’Autore, avvenuta presso
l’abbazia di Fossanova, nel 1274.
La dotta introduzione di padre
Coggi si diffonde sulle caratteristiche testuali e critiche dell’opera
tomistica, notando per esempio che alcuni brevi passaggi del Commento non sarebbero dell’Aquinate, ma
di un certo “Pietro di Scala, un domenicano della fine del XIII secolo” (p. 6).
Quello che ci pare ancora più
rilevante, vista la crisi spaventosa dell’esegesi cattolica attuale, è il
valore che il Dottore Comune della Chiesa dà al senso letterale della Sacra
Pagina. “Fra i quattro sensi della Scrittura, letterale o storico [il I],
allegorico, cioè dogmatico [il II], morale [il III] e anagogico, cioè rivolto
alle realtà future [il IV], san Tommaso, come suo solito, dà la priorità al
senso letterale, essendo convinto che esso è il solo adattabile alle necessità
dell’argomentazione teologica, e inoltre che ogni interpretazione spirituale
(…) deve essere confermata dall’interpretazione letterale, in modo da evitare qualsiasi rischio di errore” (p. 7, corsivo
nostro).
Non crediamo che l’esegesi del
Novecento, pur tra tante conquiste e scoperte, abbia seguito il consiglio di
san Tommaso in materia di interpretazione biblica. E neppure siamo in grado di
dire se tale principio assiomatico dell’esegesi cattolica – assieme a quello
duplice dell’ispirazione-inerranza – sia ben integrato negli stesso documenti
ufficiali recenti, come L’interpretazione
della Bibbia nella Chiesa
(Pontifica Commissione Biblica, Libreria Editrice Vaticana, 1993). Anzi,
temiamo che la crisi epocale dell’esegesi sia dovuta proprio all’oblio, più o
meno volontario, dei 3 principi summenzionati: primato del senso letterale,
ispirazione (che fa di Dio l’autore principale di tutta la Scrittura canonica,
dalla Genesi all’Apocalisse) e la totale inerranza del Testo sacro.
Ci si permetta una breve
riflessione, proprio a partire da san Tommaso esegeta sul senso profondo e
dimenticato dell’autentica ispirazione biblica.
Il 23 aprile 1993, Giovanni Paolo
II, durante un’udienza commemorativa del centenario della Providentissimus Deus di Leone XIII e del cinquantenario della Divino afflante Spiritu di Pio XII – le
due encicliche che fondarono in qualche modo l’esegesi critica dei cattolici – disse
che “l’interpretazione della Sacra Scrittura è di una importanza capitale per
la fede cristiana e la vita della Chiesa” (n. 1).
E sottolineava giustamente che
“La Chiesa non teme la critica scientifica” (n. 4), ed “attribuisce una grande
importanza allo studio storico-critico della Bibbia” (n, 7), fino a parlare,
con linguaggio ardito, “dei condizionamenti umani della Parola di Dio” (n. 8).
Ma nell’esegesi prevalente oggi questi ‘condizionamenti umani’ sono giunti a
far dire all’esegeta cattolico, che non possiamo conoscere l’intenzione degli
autori dei Sacri testi, e neppure saperne l’identità, l’origine e gli scopi.
Fino al punto che tale condizionamento potrebbe aver causato degli errori
fattuali (di tipo storico, cronologico, scientifico o culturale) nella
Scrittura, negando così implicitamente sia il dogma dell’ispirazione biblica,
sia il suo corollario immediato, ovvero la sua inerranza assoluta (in tutti gli ambiti e non solo in quello
dogmatico-morale).
Giovanni Paolo II però, in quel Discorso,
parlava proprio di ciò che larga parte dell’esegesi scientifica attuale non
vuol più sentire, cioè della doverosa “fedeltà alla Chiesa” (n. 10), che
consiste nel “situarsi risolutamente nella corrente della grande Tradizione
che, sotto la guida del Magistero, assicurato da un’assistenza speciale dello
Spirito Santo” (n. 10), interpreta autorevolmente i testi. Il papa collega
persino la virtù personali che l’esegeta cattolico deve
perseguire e il suo lavoro di esegeta. Risulta infatti “necessario che lo
stesso esegeta percepisca nei testi la parola divina, e questo non gli è
possibile che nel caso in cui il suo lavoro intellettuale venga sostenuto da
uno slancio di vita spirituale (…). Lo studio scientifico dei soli aspetti
umani dei testi può far dimenticare che la parola di Dio invita ognuno ad
uscire da se stesso per vivere nella fede e nella carità” (n. 9).
Questa dimenticanza dal 1993 ad
oggi è diventata legione. L’Angelico, con la sua interpretazione magistrale del
Vangelo di Matteo, contribuirà, ne siamo certi, alla ripresa di quella grande
corrente della Tradizione, che dalla Patristica ad oggi, non si è mai
interrotta, nonostante il prevalere di esegeti con poca fede e nulla carità.
Pubblicato il 30 giugno 2018
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