01 luglio 2018

Anniversari. Il Credo del popolo di Dio.

La straordinaria avventura di Paolo VI, Charles Journet e Jacques Maritain

di Samuele Pinna
Nel 1967 il Concilio si era concluso da poco più di un anno, ma – come aveva registrato il teologo Joseph Ratzinger nella sua rinomata conferenza tenuta a Bamberg, nel luglio precedente – regna un certo disagio, un’atmosfera di freddezza e anche di delusione, quale segue solitamente i momenti di gioia e di festa . In quel clima, Paolo VI proclama l’Anno della fede (dal 29 giugno 1967 al 29 giugno 1968), ma nulla faceva presagire che questo si dovesse concludere con la proclamazione di una nuova professio fidei da parte del Santo Padre. Tale intuizione si concretizzerà proprio a partire da un’idea di Maritain suffragata da Journet e condivisa dal Sommo Pontefice stesso.

Il valore che riveste tale professione lo si evince soprattutto quando Paolo VI, nella sua ultima celebrazione pubblica – il 29 giugno 1978, festa dei santi Pietro e Paolo –, volle ricordare come atto importante del suo pontificato la professione di fede che dieci anni prima aveva pronunciato solennemente «in nome e a impegno di tutta la Chiesa come “Credo del popolo di Dio”». La sommaria professione di fede – la definì – aveva voluto riproporre un ritorno alle sorgenti, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli .

La promulgazione cinquant’anni fa di quel decisivo documento, tutto da riscoprire, soprattutto oggi, è stata possibile grazie al teologo svizzero Charles Journet e il filosofo francese Jacques Maritain. Questi, in una lettera del 14 gennaio 1967, confida all’amico Cardinale la necessità di una professione di fede completa e dettagliata redatta dal Papa. Due giorni prima, Journet aveva infatti informato il filosofo di essere stato convocato a Roma da Paolo VI, il quale era inquieto di ciò che stava succedendo in Olanda. A Maritain la circostanza appare provvidenziale ed esprime la sua intuizione a Journet, non certo perché il Cardinale la trasmettesse a Montini, come invece avverrà: «io – precisa il filosofo – non sono di quei laici illuminati che si permettono di dare consigli al Papa».

Del resto, ipotesi simili erano circolate con insistenza già prima e durante il Concilio. Il domenicano Yves Congar, per esempio, era convinto che fosse secondo tradizione promulgare un nuovo Simbolo di fede, dopo che si era tenuto un Concilio ecumenico. Nel giugno 1964, davanti alle sue insistenze, il Papa aveva chiesto allo stesso Congar di preparare un testo, ma il risultato non lo aveva convinto. Journet porterà a Roma una fotocopia delle parti della lettera in cui l’amico filosofo espone il suo progetto, e nell’udienza del 18 gennaio le consegna al Papa, il quale chiede un giudizio sulla situazione della Chiesa. «Tragica» è la risposta di Journet e papa Montini gli confida allora il progetto di indire l’ Anno della fede. In un’altra udienza del 14 dicembre del 1967, Journet domanda così al Pontefice se per la fine dell’Anno della Fede, avesse in animo di pubblicare qualche grande documento, per orientare quelli che volevano rimanere nella Chiesa. Il Papa risponde al Cardinale elvetico con una richiesta sorprendente e impegnativa: «volete voi fare uno schema di quello che pensate deve essere fatto?».

Journet – è il 18 dicembre – coinvolge, pertanto, subito Maritain, che, durante un periodo trascorso a Parigi, redige un progetto di professio fidei. Lo termina l’11 gennaio 1968, e il 20 invia il testo a Journet, che, senza sentire il parere dell’amico, gira il testo sine glossa nelle mani di Paolo VI.
Il 30 giugno 1968, papa Montini proclama a San Pietro il Credo del popolo di Dio. Solo il 2 luglio, leggendo il giornale, Maritain ritrova nelle sintesi riportate ampi estratti del testo che lui aveva inviato a Journet all’inizio dell’anno. «Sono confuso – osserva nel suo carnet – profondamente travagliato dal fatto di essere stato ingaggiato in un mistero che mi sorpassa così tanto. Per fortuna è Raïssa che ha tutto condotto, che ha fatto tutto, dopo l’inizio di questa straordinaria avventura». Il Credo del popolo di Dio coincide così sostanzialmente con la bozza preparata dal filosofo francese. La professio fidei firmata dal Papa riprende la concezione di fondo di Maritain – integrando la trama del Simbolo Niceno-Costantinopolitano con gli sviluppi omogenei del dogma sopravvenuti dopo quello –, e la sua stessa formulazione, sia letteralmente, sia condensandola un poco, omettendo certe formule, certi ampliamenti, certe esplicazioni, per donare al testo lo stile conciso di un Simbolo.
C’è, dunque, un legame imprescindibile tra il Concilio e la professio fidei di papa Montini. Il Vaticano II – afferma Journet – «trova la sua espressione finale nel “Credo del Popolo di Dio”, pronunciato, a nome di tutti i pastori e di tutti i fedeli, da Papa Paolo VI nella conclusione dell’Anno della Fede, il 30 giugno 1968».

Ecco il motivo per cui il Credo del Popolo di Dio andrebbe – secondo l’autorevole parere di Giacomo Biffi – riscoperto e attentamente studiato, soprattutto da chi si prepara a divenire pastore d’anime: «È un testo un po’ lungo – egli scrive –, ma mette in conto di impiegare generosamente il tempo per una causa così necessaria. E sarebbe anche un doveroso riscatto dall’indifferenza e addirittura dalla renitenza, con cui è stato accolto negli ambienti teologici e pastorali un documento dell’autentico magistero ecclesiale di quella rilevanza».
Del medesimo parere è Vittorio Possenti, secondo cui «pochi tra i cattolici di allora colsero l’intuizione presente nell’iniziativa paolina e il segnale forte che intendeva trasmettere: l’attenzione al Credo fu scarsa, il testo venne per lo più considerato “tradizionale”, quando non scarsamente significativo. Circondato da un diffuso silenzio e altrettanta indifferenza, fu presto dimenticato, mentre era segno delle crescenti preoccupazioni del Pontefice sulle condizioni della fede nella Chiesa».

In tale prospettiva, il Credo del Popolo di Dio è uno scritto di capitale importanza, di cui si avverte ancor di più la necessità laddove è in pericolo il depositum fidei nella sua interpretazione globale o particolare.

Journet, riflettendo proprio sulle imprescindibili formulazioni dogmatiche, che esigono precisazioni concettuali per non essere fraintese, spiega che non sono contrarie rispetto un’autentica esperienza contemplativa, perché sarebbe un grave errore separare verità e carità. L’atto di fede, se reale, abbisogna della verità unita alla carità, affinché questa si esprima come virtù teologale (da non confondere con un laico e vago buonismo). Scrive, pertanto, Journet: «La conoscenza concettuale delle verità rivelate non è in alcun modo scartata e nemmeno abolita […]. Allora tutti i dogmi sussistono nella fede del contemplativo. Ma come le stelle nel cielo di mezzogiorno. Per la verità, essi non sono mai stati così necessariamente ed efficacemente presenti. La luce passeggera che li ha eclissati viene a confortarli in maniera straordinaria. Quando essa si ritira, essi riappaiono come le stelle nel cielo della sera, ma rivestiti e illuminati da un po’ del suo splendore».

Il Credo del Popolo di Dio

 

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